“Dai nonno, raccontami un’altra storia!”, gridai una sera saltando sul divano dove Nonno Mario si stava godendo il dopo cena, mentre nonna Ida rassettava la piccola cucina.
Fuori, la valle si preparava ad accogliere il crepuscolo. Il sole giocava a nascondino tra le cime dei monti e disegnava l’ultima pennellata di rosso, mentre una brezza leggera scendeva dalle crode portando il profumo dei pini ed il suono di un campanone lontano.
Nonno Mario sospirò e sorrise: per un nonno non è sempre facile vincere la concorrenza di quel diabolico elettrodomestico con il tubo catodico che ha cancellato il mito del narrare. “Va bene, questa sera ti voglio raccontare una storia accaduta tanti anni fa….”, rispose disegnando un enorme sorriso sul suo simpatico faccione.
“Ma ci sono i mostri, nonno?”, chiesi incuriosito, “Beh, si, i protagonisti di questa storia sono proprio dei mostri, e, tanto per cominciare, uno di questi era un mostro meccanico, come quelli che si vedono ogni tanto nei cartoni animati….”.
“Era un mostro buono, nonno?”, domandai un tantino impaurito, “Certo, era molto buono”, mi rassicurò il nonno, “Era una grande e lucente locomotiva a vapore. Una gran bella macchina!”.
“A quel tempo dovevo avere non più di venti anni”, iniziò a raccontare il nonno, “Ed ero diventato da poco macchinista. Sai, di solito, alla mia età, si doveva spalare carbone ancora per un bel pezzo prima di essere promossi ai comandi, ma, d'altronde, era tempo di guerra e gli uomini disponibili si potevano contare sulle dita di una mano. Gli altri erano tutti al fronte, oppure sottoterra..…”.
“Per questo motivo i turni erano massacranti”, continuò il nonno, “Dovevo restare in cabina anche per più di dodici ore di seguito, e così la vaporiera era come se fosse diventata la mia sposa. E come una bella donna, dovevo ascoltarla ed usare molto tatto: col tempo, avevo imparato a conoscerne i segreti e mi bastava un’occhiata veloce, oppure un piccolo rumore, carpito in mezzo a tutto quello sferragliare, per capire cosa funzionava e cosa no”.
Mano a mano che il nonno sciorinava la sua storia la curiosità e l’impazienza cominciavano a prendere il sopravvento. Quella sera, la televisione e i miei fumetti mi avrebbero atteso invano.
“Dunque, doveva essere il ’43 o il ’44, mi pare. Erano tempi duri, il mangiare era sempre poco e la fatica era tanta perché lavorare con la vaporiera non era mica facile. Era un mostro buono ma molto esigente: bisognava pulirla, oliarla, controllare la pressione del vapore, le scorte d’acqua e di carbone e, spesso, dare anche una mano al fuochista per spalare il carbone nel forno. Poi, bisognava guidare stando attenti alla linea ed ai segnali, sempre chiusi in una cabina angusta e piena di fumo, trasformata in un forno, dove la gola bruciava dalla sete anche d’inverno, quando fischiava la tramontana e grosse stalattiti di ghiaccio pendevano dalla caldaia..…”.
“E, quando finiva il turno, per lavarti dovevi usare la fontanella della stazione, se c’era, sia in estate che in inverno, oppure attendere di essere a casa per poterti ficcare dentro una tinozza di acqua calda e raschiare la pelle fino quasi a scorticarti per togliere tutta la fuliggine che ti si era posata addosso. Raschiavi e raschiavi ma non bastava mai: il colore della pelle era sempre grigiastro e, quando ti alzavi dal letto, sul cuscino rimaneva un’aureola di sporco. Giù nei polmoni, poi, era anche peggio!”.
Era una storia davvero affascinante, ma io non stavo più nella pelle e lo interruppi: “Ma, nonno, dove sono gli altri mostri? Sono anche loro dei mostri buoni?”.
Il nonno per un attimo divenne pensieroso e, prima di riprendere il racconto, si passò più volte la mano sulla fronte, cercando di ricomporre i pochi capelli bianchi rimasti. “Alcuni si e altri no”, rispose, “Allo scoppiare della guerra, quasi tutti i treni furono soppressi e sostituiti dalle numerose tradotte militari che trasportavano uomini e mezzi dell’esercito nemico. E io e gli altri eravamo sempre di turno su quei treni, avanti e indietro tra la città e la valle, tutti i giorni, notte e giorno”.
“Ed era lì che arrivavano i mostri?”.
“Si, arrivavano proprio lì, perché, in cabina con me c’erano sempre due soldati con il mitra spianato che controllavano tutto quello che facevo!”. Il nonno proseguì raccontando che quei soldati portavano una divisa di colore nero con una strana croce sul braccio, la stessa divisa che avrei ritrovato tempo dopo sui libri di scuola e alla televisione, così come quella strana croce, che purtroppo si vede in giro ancora adesso. “Durante tutto il viaggio per comunicare con noi usavano gesti che lasciavano ben poco spazio a repliche. In più, quando eravamo fermi in qualche stazione non potevamo scendere per nessun motivo, neanche per andare al bagno!”.
“Ma...come facevate nonno?”, domandai sbalordito. “Oh! Era molto semplice…”, mi rispose sorridendo e scambiando uno sguardo complice con la nonna, “La facevamo sul carbone e poi, con una bella palata, via direttamente nel forno!”.
“Non erano mostri buoni quelli, vero nonno?”. “No che non lo erano! Urlavano e davano ordini in continuazione e, se non eri svelto ad obbedire, volavano certe sventole….!”.
“E i mostri buoni, nonno, chi erano?”. Il nonno si fermò per un attimo e prese a guardare verso la finestra. Osservava l’immagine distorta del suo volto che il vetro gli restituiva ed i suoi occhi apparivano infinitamente tristi. Anche la nonna si accorse di questo turbamento e, per un attimo, smise di combattere con i piatti nell’acquaio e tese l'orecchio.
“Un giorno, io e Tonino, il mio fuochista, eravamo giù in città ed avevamo appena terminato il turno, quando arrivarono i soldati. A suon di calci ci fecero risalire sulla vaporiera e ci ordinarono di correre allo scalo merci”. “E lì….vi hanno picchiati?”, chiesi al nonno con il groppo alla gola. “No”, rispose il nonno con la voce triste, “Non lo fecero”, poi si fermò per un attimo, prese una lunga boccata d’aria e proseguì, “Anche se, dopo tutti questi anni, avrei preferito prendere un sacco di legnate, piuttosto di fare quello che ho fatto….”.
“Ma perché, nonno? Cosa c’era allo scalo merci?”, domandai sbalordito.
“C’era un lungo treno merci fermo. Sembrava un treno merci carico di frutta e verdura, uno di quei tanti treni che dal Sud portavano le nostre primizie ai mercati del Nord Europa, che mi capitava di portare spesso prima della guerra. Quando stavamo per agganciare la vaporiera, però, capii che c’era qualcosa che non andava. I carri merce sembravano effettivamente quelli della frutta, ma non erano caricati di frutta, né di verdura o di altri prodotti commestibili”.
“E cosa c’era dentro, allora?”, chiesi stupito, “Armi? Munizioni?".
“No, niente di tutto questo!”, rispose il nonno con lo sguardo perso nel vuoto come se stesse rivivendo quelle sensazioni di allora, “Non c’erano armi, o altra mercanzia! C’era dentro gente….”.
“Della gente, nonno!? E chi erano? Soldati?”.
“No, non erano soldati”, rispose il nonno ricacciando indietro una lacrima, “Erano uomini, donne e bambini che sembravano fantasmi. Indossavano una divisa da carcerati, con una specie di stella gialla cucita sopra. Piangevano e si lamentavano, mentre i soldati facevano la guardia accanto al binario, tenendo al guinzaglio grossi cani lupo. Alcuni di loro erano riusciti a infilare le braccia al di fuori delle piccole finestrelle dei carri, come se volessero ghermire l’aria per cibarsene o aggrapparsi al cielo per non essere trascinati via….”.
Il nonno mi accarezzò il viso e continuò, sempre con lo sguardo assente, “Mi ricordo che le loro braccia erano magrissime, come asciutte, e....e poi il colore della pelle era pallido, quasi bianco”.
“Ah, sarà stato per il freddo, nonno! Sai, anche a me d’inverno ogni tanto capita che....”.
“No, non era per il freddo!”, mi interruppe, “Il freddo non asciuga così. Era la fame….”.
“E poi cosa avete fatto?”, lo incalzai letteralmente terrorizzato.
“Poi, partimmo, sempre con due soldati di guardia in cabina, e lentamente risalimmo tutta la valle ed arrivammo al confine. Durante il viaggio capitava di fermarci in qualche stazione per un incrocio o per rifornire di acqua il tender e allora i lamenti dei prigionieri si sentivano, eccome se si sentivano, anche se il fumaiolo soffiava peggio di un vulcano ed il compressore martellava a più non posso!”.
“E poi….”, cercò di proseguire, ma una fitta dolorosa gli ricordò la vecchiaia che, come un puledro imbizzarrito, correva a perdifiato nelle sue giunture. Ma, poco dopo, si riprese e continuò: “E poi, ad ogni stazione c’erano drappelli di soldati che minacciavano con le armi tutti quelli che volevano avvicinarsi ai binari per portare da bere a quei disperati che chiedevano acqua!”. “Quando finalmente arrivammo al confine ci fecero staccare la vaporiera e ci ordinarono di tornare subito indietro”.
“E cosa è successo, poi, al treno dei prigionieri, nonno?”. “Il treno continuò la sua corsa. Non seppi dove portarono tutta quella gente. Non lo seppi fino a che la guerra non terminò. Un giorno lo saprai anche tu e allora ti ricorderai di questa storia e del tuo vecchio nonno e farai in modo che certe cose non accadano mai più!”.
Le ultime parole non le sentii perché dentro di me continuavano a scorrere le immagini di gente stipata a forza dentro i carri merce. Quei disgraziati, pensai, potevano effettivamente sembrare dei mostri, ma solo per via del loro aspetto, solo perché erano laceri, affamati e disperati. Ma non erano mostri. Pensai che i veri mostri fossero altri. I soldati cattivi vestiti di nero, ad esempio, ma anche quelli che sapevano e che non hanno mai parlato e, per finire, anche quelli che….
Interruppi di colpo questo ragionamento e guardai il nonno fisso negli occhi. Poi lasciai libera quella domanda che stava per esplodermi dentro e che avrei fatto meglio a dimenticare.
“E tu, nonno, perchè li hai portati via?”.
La mia mente ancora fresca di bambino non poteva concepire come mai un uomo così buono e generoso come nonno Mario avesse potuto fare una cosa così orribile. Non riuscivo a capire perchè quel uomo, che mi faceva giocare e divertire tutte le estati, avesse potuto aiutare i mostri cattivi a fare del male a tutte quelle persone.
“Ma cosa potevo fare?”, rispose il nonno trattenendo a stento le lacrime, “Avrebbero sbattuto nel carro anche me, o peggio, mi avrebbero sparato, lì direttamente sui binari!”. “Ti giuro che avrei voluto fare qualcosa! Ma ero sempre marcato stretto dai soldati e non potevo fare altro che stringere con forza la leva del regolatore, fino quasi a scarnificarmi le dita, tacere e lasciare che le lacrime rigassero la fuliggine che mi tingeva la faccia!”.
Solo allora mi accorsi dell’inutilità e indelicatezza della mia domanda. Solo allora compresi che né il nonno né la vaporiera, che pure era un grosso mostro, avrebbero potuto vincere contro quei mostri cattivi. Così, lo abbracciai forte e gli stampai un grosso bacio sulla fronte.
Il nonno si diede una gran soffiata di naso strombazzante, mi fece una carezza e mi disse: “Vieni, andiamo a fare due passi fino alla fontana: è estate e fuori c’è ancora un po’ di luce!”.
Salutammo nonna Ida, che, vinta la battaglia con i piatti si apprestava ad iniziarne un'altra con la Settimana Enigmistica, e ci addentrammo nella fresca sera di montagna. Il firmamento si stava popolando ed il silenzio della valle era rotto solo dallo scrosciare di mille ruscelli e dai richiami dei gufi che rimbalzavano di bosco in bosco.
Mentre passeggiavamo il nonno mi disse: “E’ passato tanto tempo, ormai, ma quelle persone che sembravano spettri non mi hanno mai abbandonato....”.
“Ma nonno, non è possibile!”, obiettai, “No! Quella gente c’è ancora!”, mi rispose, dando uno sguardo alla vallata, dove le luci dei paesini lontani sembravano tante stelle stampate sopra un cielo scuro, “Per anni, quando ero a bordo della mia vaporiera li vedevo fermi, al lato dei binari, dopo la salita di Viel o fuori della galleria delle Lastre. E anche quando la vecchiaia mi ha separato dal mio mostro meccanico, i loro volti sofferenti, le loro braccia pallide e smagrite, protese fuori dalle finestrelle, non hanno mai smesso di tormentarmi!”.
Guardai il nonno con gli occhi grandi più dei fanali della vaporiera, “E....e ancora oggi li vedo!”, continuò, “Forse perché, da vecchi, le barriere sono più sottili e il passato si fa più presente, o forse perché quei volti sono stati un po’come lo sfondo di tutta la mia vita, ma io li vedo, maledizione! Li vedo giù all’osteria, fuori dalla chiesa o su per il sentiero che va alla baita di Alvise....”. “E sono qui per me! E un bel giorno verranno a prendermi….”.
Pensai che il nonno stesse vaneggiando. Era senz’altro molto divertente sentirlo raccontare storie di tanto tempo fa, ma questa era grossa davvero. Adesso erano solo fantasie di un povero uomo che, roso da un rimorso ingiustificato, si rifiutava il fatto di accettare che quei fantasmi non esistevano.
Stavo per ribadirglielo ancora una volta, quando la mia attenzione fu catturata da un rumore flebile, lontano, quasi impercettibile. Mi fermai di soprassalto e tesi l’orecchio. “Che ti succede?”, chiese il nonno preoccupato dal mio comportamento. “Niente, nonno…”, risposi riprendendo il cammino, mentre eravamo già in vista della nostra casa. In realtà non volevo ammetterlo, nemmeno a me stesso, ma in quel preciso istante mi era sembrato di sentire, giù verso il fondovalle, un fischio ed il lento sbuffare di un treno.
Una volta a casa, con gli occhi fissi al soffitto della mia stanzetta, continuavo a pensare a quel fischio e a quegli sbuffi, ripetendo a me stesso che i fantasmi non potevano esistere. Non solo, la linea ferroviaria era stata elettrificata parecchi anni prima e le anziane vaporiere non circolavano più da un bel pezzo.
Il fischio e gli sbuffi, però, li avevo sentiti. Ero sicuro di averli sentiti.
All’improvviso una mano si posò sulla mia spalla, “È ora di dormire!”, disse nonno Mario, sorridendomi dolcemente.
Allora, presi fiato e sussurrai: “Ecco, non sono sicuro, ma là fuori....”. “Non ti preoccupare!” mi rassicurò il nonno, “Sarà stato il vento! Adesso però dormi!”. Poi il nonno mi rimboccò le coperte, mi diede un bacio sulla fronte ed uscì dalla stanza.
Il giorno successivo, e tutti gli altri giorni che seguirono, il nonno non tornò mai più su quella storia, né io lo sollecitai a raccontarmela di nuovo. Soprattutto, non mi parlò mai più di quei fantasmi, né più io sentii nella valle quel fischio e quel lento incedere di un treno sbuffante.
Le vacanze continuarono a scorrere serene e spensierate come sempre finché, un giorno, quel bambino, che correva tra prati e ruscelli, diventò grande ed abbandonò la valle, portato lontano dalle nuove divinità dell’adolescenza e dalla sete di nuove esperienze.
Ma due giorni fa ho ricevuto una telefonata e sono tornato. E quando ho passato il tornante di Zuel, il mio paese, i miei boschi e le mie montagne mi sono venuti incontro come un cane buono ed il ricordo di tutte le estati che avevo passato con i nonni, e di quanto mi ero divertito, è riaffiorato, dirompente, travolgente, come un fiume in piena.
Terminata la funzione, mi fermai un po’ in quella che era stata, in un tempo felice, la mia casa delle vacanze e mi sedetti nel piccolo giardino ad assaporare il silenzio della valle. Il sole diventava enorme, smisurato. Salutava tutti e si preparava a saltare oltre le cime dei monti. La brezza mi portava il profumo dell’erba appena falciata ed il canto armonioso dei pini che ondeggiavano leggeri.
Rimasi per un po' immobile ad osservare le nuvole che si rincorrevano nel cielo, quando, all’improvviso, mi sembrò di sentire un rumore flebile, lontano. Era un rumore familiare che mi ricordava qualcosa. Tesi l’orecchio e, per quanto inverosimile potesse essere, riconobbi fin troppo bene un fischio e lo sbuffare di un treno che, lentamente, si allontanava.
Tante cose mi tornarono in mente: le partite a dama, le lunghe passeggiate, le ardite dighe di sassi e le mille storie che Nonno Mario amava raccontarmi. Ricordi tenui e sopiti dell’infanzia, immagini di posti inondati dal sole e da tante nuvole bianche.
Poi chiusi gli occhi e vidi Nonno Mario, finalmente sereno a bordo del suo vecchio treno, che sorrideva e mi salutava agitando la mano fuori dalla cabina del suo grosso mostro meccanico. E vidi che, a bordo con lui, c’era tutta la gente che per tanti anni aveva scarrozzato avanti e indietro per la valle. C’erano gli emigranti con le loro valigie di cartone, i turisti con le macchine fotografiche, i rudi boscaioli e la gente normale che se ne andava al mercato, con tanto di galline al seguito. E c’erano anche gli aguzzini vestiti di nero e i prigionieri con la stella gialla, che ora ridevano e scherzavano insieme, accomunati finalmente dalla stessa sensazione di pace.
“Buon viaggio, Nonno, ovunque tu sia!”, mormorai allora aggrappato al muretto del giardino, lottando per ricacciare giù più di una lacrima. Poi, con un balzo, scavalcai il muretto e cominciai a correre. Correvo fino a farmi scoppiare i polmoni perché non volevo farmi sfuggire quel rumore amico che, come una sottile bava di ragno, ancora mi legava a quei ricordi.
Ma feci poca strada: il rumore poco a poco si affievolì e scomparve, e la valle ripiombò nel solito silenzio, rotto dal soffio leggero della brezza che mi cullava come una madre affettuosa al risveglio dopo un brutto sogno.
Fuori, la valle si preparava ad accogliere il crepuscolo. Il sole giocava a nascondino tra le cime dei monti e disegnava l’ultima pennellata di rosso, mentre una brezza leggera scendeva dalle crode portando il profumo dei pini ed il suono di un campanone lontano.
Nonno Mario sospirò e sorrise: per un nonno non è sempre facile vincere la concorrenza di quel diabolico elettrodomestico con il tubo catodico che ha cancellato il mito del narrare. “Va bene, questa sera ti voglio raccontare una storia accaduta tanti anni fa….”, rispose disegnando un enorme sorriso sul suo simpatico faccione.
“Ma ci sono i mostri, nonno?”, chiesi incuriosito, “Beh, si, i protagonisti di questa storia sono proprio dei mostri, e, tanto per cominciare, uno di questi era un mostro meccanico, come quelli che si vedono ogni tanto nei cartoni animati….”.
“Era un mostro buono, nonno?”, domandai un tantino impaurito, “Certo, era molto buono”, mi rassicurò il nonno, “Era una grande e lucente locomotiva a vapore. Una gran bella macchina!”.
“A quel tempo dovevo avere non più di venti anni”, iniziò a raccontare il nonno, “Ed ero diventato da poco macchinista. Sai, di solito, alla mia età, si doveva spalare carbone ancora per un bel pezzo prima di essere promossi ai comandi, ma, d'altronde, era tempo di guerra e gli uomini disponibili si potevano contare sulle dita di una mano. Gli altri erano tutti al fronte, oppure sottoterra..…”.
“Per questo motivo i turni erano massacranti”, continuò il nonno, “Dovevo restare in cabina anche per più di dodici ore di seguito, e così la vaporiera era come se fosse diventata la mia sposa. E come una bella donna, dovevo ascoltarla ed usare molto tatto: col tempo, avevo imparato a conoscerne i segreti e mi bastava un’occhiata veloce, oppure un piccolo rumore, carpito in mezzo a tutto quello sferragliare, per capire cosa funzionava e cosa no”.
Mano a mano che il nonno sciorinava la sua storia la curiosità e l’impazienza cominciavano a prendere il sopravvento. Quella sera, la televisione e i miei fumetti mi avrebbero atteso invano.
“Dunque, doveva essere il ’43 o il ’44, mi pare. Erano tempi duri, il mangiare era sempre poco e la fatica era tanta perché lavorare con la vaporiera non era mica facile. Era un mostro buono ma molto esigente: bisognava pulirla, oliarla, controllare la pressione del vapore, le scorte d’acqua e di carbone e, spesso, dare anche una mano al fuochista per spalare il carbone nel forno. Poi, bisognava guidare stando attenti alla linea ed ai segnali, sempre chiusi in una cabina angusta e piena di fumo, trasformata in un forno, dove la gola bruciava dalla sete anche d’inverno, quando fischiava la tramontana e grosse stalattiti di ghiaccio pendevano dalla caldaia..…”.
“E, quando finiva il turno, per lavarti dovevi usare la fontanella della stazione, se c’era, sia in estate che in inverno, oppure attendere di essere a casa per poterti ficcare dentro una tinozza di acqua calda e raschiare la pelle fino quasi a scorticarti per togliere tutta la fuliggine che ti si era posata addosso. Raschiavi e raschiavi ma non bastava mai: il colore della pelle era sempre grigiastro e, quando ti alzavi dal letto, sul cuscino rimaneva un’aureola di sporco. Giù nei polmoni, poi, era anche peggio!”.
Era una storia davvero affascinante, ma io non stavo più nella pelle e lo interruppi: “Ma, nonno, dove sono gli altri mostri? Sono anche loro dei mostri buoni?”.
Il nonno per un attimo divenne pensieroso e, prima di riprendere il racconto, si passò più volte la mano sulla fronte, cercando di ricomporre i pochi capelli bianchi rimasti. “Alcuni si e altri no”, rispose, “Allo scoppiare della guerra, quasi tutti i treni furono soppressi e sostituiti dalle numerose tradotte militari che trasportavano uomini e mezzi dell’esercito nemico. E io e gli altri eravamo sempre di turno su quei treni, avanti e indietro tra la città e la valle, tutti i giorni, notte e giorno”.
“Ed era lì che arrivavano i mostri?”.
“Si, arrivavano proprio lì, perché, in cabina con me c’erano sempre due soldati con il mitra spianato che controllavano tutto quello che facevo!”. Il nonno proseguì raccontando che quei soldati portavano una divisa di colore nero con una strana croce sul braccio, la stessa divisa che avrei ritrovato tempo dopo sui libri di scuola e alla televisione, così come quella strana croce, che purtroppo si vede in giro ancora adesso. “Durante tutto il viaggio per comunicare con noi usavano gesti che lasciavano ben poco spazio a repliche. In più, quando eravamo fermi in qualche stazione non potevamo scendere per nessun motivo, neanche per andare al bagno!”.
“Ma...come facevate nonno?”, domandai sbalordito. “Oh! Era molto semplice…”, mi rispose sorridendo e scambiando uno sguardo complice con la nonna, “La facevamo sul carbone e poi, con una bella palata, via direttamente nel forno!”.
“Non erano mostri buoni quelli, vero nonno?”. “No che non lo erano! Urlavano e davano ordini in continuazione e, se non eri svelto ad obbedire, volavano certe sventole….!”.
“E i mostri buoni, nonno, chi erano?”. Il nonno si fermò per un attimo e prese a guardare verso la finestra. Osservava l’immagine distorta del suo volto che il vetro gli restituiva ed i suoi occhi apparivano infinitamente tristi. Anche la nonna si accorse di questo turbamento e, per un attimo, smise di combattere con i piatti nell’acquaio e tese l'orecchio.
“Un giorno, io e Tonino, il mio fuochista, eravamo giù in città ed avevamo appena terminato il turno, quando arrivarono i soldati. A suon di calci ci fecero risalire sulla vaporiera e ci ordinarono di correre allo scalo merci”. “E lì….vi hanno picchiati?”, chiesi al nonno con il groppo alla gola. “No”, rispose il nonno con la voce triste, “Non lo fecero”, poi si fermò per un attimo, prese una lunga boccata d’aria e proseguì, “Anche se, dopo tutti questi anni, avrei preferito prendere un sacco di legnate, piuttosto di fare quello che ho fatto….”.
“Ma perché, nonno? Cosa c’era allo scalo merci?”, domandai sbalordito.
“C’era un lungo treno merci fermo. Sembrava un treno merci carico di frutta e verdura, uno di quei tanti treni che dal Sud portavano le nostre primizie ai mercati del Nord Europa, che mi capitava di portare spesso prima della guerra. Quando stavamo per agganciare la vaporiera, però, capii che c’era qualcosa che non andava. I carri merce sembravano effettivamente quelli della frutta, ma non erano caricati di frutta, né di verdura o di altri prodotti commestibili”.
“E cosa c’era dentro, allora?”, chiesi stupito, “Armi? Munizioni?".
“No, niente di tutto questo!”, rispose il nonno con lo sguardo perso nel vuoto come se stesse rivivendo quelle sensazioni di allora, “Non c’erano armi, o altra mercanzia! C’era dentro gente….”.
“Della gente, nonno!? E chi erano? Soldati?”.
“No, non erano soldati”, rispose il nonno ricacciando indietro una lacrima, “Erano uomini, donne e bambini che sembravano fantasmi. Indossavano una divisa da carcerati, con una specie di stella gialla cucita sopra. Piangevano e si lamentavano, mentre i soldati facevano la guardia accanto al binario, tenendo al guinzaglio grossi cani lupo. Alcuni di loro erano riusciti a infilare le braccia al di fuori delle piccole finestrelle dei carri, come se volessero ghermire l’aria per cibarsene o aggrapparsi al cielo per non essere trascinati via….”.
Il nonno mi accarezzò il viso e continuò, sempre con lo sguardo assente, “Mi ricordo che le loro braccia erano magrissime, come asciutte, e....e poi il colore della pelle era pallido, quasi bianco”.
“Ah, sarà stato per il freddo, nonno! Sai, anche a me d’inverno ogni tanto capita che....”.
“No, non era per il freddo!”, mi interruppe, “Il freddo non asciuga così. Era la fame….”.
“E poi cosa avete fatto?”, lo incalzai letteralmente terrorizzato.
“Poi, partimmo, sempre con due soldati di guardia in cabina, e lentamente risalimmo tutta la valle ed arrivammo al confine. Durante il viaggio capitava di fermarci in qualche stazione per un incrocio o per rifornire di acqua il tender e allora i lamenti dei prigionieri si sentivano, eccome se si sentivano, anche se il fumaiolo soffiava peggio di un vulcano ed il compressore martellava a più non posso!”.
“E poi….”, cercò di proseguire, ma una fitta dolorosa gli ricordò la vecchiaia che, come un puledro imbizzarrito, correva a perdifiato nelle sue giunture. Ma, poco dopo, si riprese e continuò: “E poi, ad ogni stazione c’erano drappelli di soldati che minacciavano con le armi tutti quelli che volevano avvicinarsi ai binari per portare da bere a quei disperati che chiedevano acqua!”. “Quando finalmente arrivammo al confine ci fecero staccare la vaporiera e ci ordinarono di tornare subito indietro”.
“E cosa è successo, poi, al treno dei prigionieri, nonno?”. “Il treno continuò la sua corsa. Non seppi dove portarono tutta quella gente. Non lo seppi fino a che la guerra non terminò. Un giorno lo saprai anche tu e allora ti ricorderai di questa storia e del tuo vecchio nonno e farai in modo che certe cose non accadano mai più!”.
Le ultime parole non le sentii perché dentro di me continuavano a scorrere le immagini di gente stipata a forza dentro i carri merce. Quei disgraziati, pensai, potevano effettivamente sembrare dei mostri, ma solo per via del loro aspetto, solo perché erano laceri, affamati e disperati. Ma non erano mostri. Pensai che i veri mostri fossero altri. I soldati cattivi vestiti di nero, ad esempio, ma anche quelli che sapevano e che non hanno mai parlato e, per finire, anche quelli che….
Interruppi di colpo questo ragionamento e guardai il nonno fisso negli occhi. Poi lasciai libera quella domanda che stava per esplodermi dentro e che avrei fatto meglio a dimenticare.
“E tu, nonno, perchè li hai portati via?”.
La mia mente ancora fresca di bambino non poteva concepire come mai un uomo così buono e generoso come nonno Mario avesse potuto fare una cosa così orribile. Non riuscivo a capire perchè quel uomo, che mi faceva giocare e divertire tutte le estati, avesse potuto aiutare i mostri cattivi a fare del male a tutte quelle persone.
“Ma cosa potevo fare?”, rispose il nonno trattenendo a stento le lacrime, “Avrebbero sbattuto nel carro anche me, o peggio, mi avrebbero sparato, lì direttamente sui binari!”. “Ti giuro che avrei voluto fare qualcosa! Ma ero sempre marcato stretto dai soldati e non potevo fare altro che stringere con forza la leva del regolatore, fino quasi a scarnificarmi le dita, tacere e lasciare che le lacrime rigassero la fuliggine che mi tingeva la faccia!”.
Solo allora mi accorsi dell’inutilità e indelicatezza della mia domanda. Solo allora compresi che né il nonno né la vaporiera, che pure era un grosso mostro, avrebbero potuto vincere contro quei mostri cattivi. Così, lo abbracciai forte e gli stampai un grosso bacio sulla fronte.
Il nonno si diede una gran soffiata di naso strombazzante, mi fece una carezza e mi disse: “Vieni, andiamo a fare due passi fino alla fontana: è estate e fuori c’è ancora un po’ di luce!”.
Salutammo nonna Ida, che, vinta la battaglia con i piatti si apprestava ad iniziarne un'altra con la Settimana Enigmistica, e ci addentrammo nella fresca sera di montagna. Il firmamento si stava popolando ed il silenzio della valle era rotto solo dallo scrosciare di mille ruscelli e dai richiami dei gufi che rimbalzavano di bosco in bosco.
Mentre passeggiavamo il nonno mi disse: “E’ passato tanto tempo, ormai, ma quelle persone che sembravano spettri non mi hanno mai abbandonato....”.
“Ma nonno, non è possibile!”, obiettai, “No! Quella gente c’è ancora!”, mi rispose, dando uno sguardo alla vallata, dove le luci dei paesini lontani sembravano tante stelle stampate sopra un cielo scuro, “Per anni, quando ero a bordo della mia vaporiera li vedevo fermi, al lato dei binari, dopo la salita di Viel o fuori della galleria delle Lastre. E anche quando la vecchiaia mi ha separato dal mio mostro meccanico, i loro volti sofferenti, le loro braccia pallide e smagrite, protese fuori dalle finestrelle, non hanno mai smesso di tormentarmi!”.
Guardai il nonno con gli occhi grandi più dei fanali della vaporiera, “E....e ancora oggi li vedo!”, continuò, “Forse perché, da vecchi, le barriere sono più sottili e il passato si fa più presente, o forse perché quei volti sono stati un po’come lo sfondo di tutta la mia vita, ma io li vedo, maledizione! Li vedo giù all’osteria, fuori dalla chiesa o su per il sentiero che va alla baita di Alvise....”. “E sono qui per me! E un bel giorno verranno a prendermi….”.
Pensai che il nonno stesse vaneggiando. Era senz’altro molto divertente sentirlo raccontare storie di tanto tempo fa, ma questa era grossa davvero. Adesso erano solo fantasie di un povero uomo che, roso da un rimorso ingiustificato, si rifiutava il fatto di accettare che quei fantasmi non esistevano.
Stavo per ribadirglielo ancora una volta, quando la mia attenzione fu catturata da un rumore flebile, lontano, quasi impercettibile. Mi fermai di soprassalto e tesi l’orecchio. “Che ti succede?”, chiese il nonno preoccupato dal mio comportamento. “Niente, nonno…”, risposi riprendendo il cammino, mentre eravamo già in vista della nostra casa. In realtà non volevo ammetterlo, nemmeno a me stesso, ma in quel preciso istante mi era sembrato di sentire, giù verso il fondovalle, un fischio ed il lento sbuffare di un treno.
Una volta a casa, con gli occhi fissi al soffitto della mia stanzetta, continuavo a pensare a quel fischio e a quegli sbuffi, ripetendo a me stesso che i fantasmi non potevano esistere. Non solo, la linea ferroviaria era stata elettrificata parecchi anni prima e le anziane vaporiere non circolavano più da un bel pezzo.
Il fischio e gli sbuffi, però, li avevo sentiti. Ero sicuro di averli sentiti.
All’improvviso una mano si posò sulla mia spalla, “È ora di dormire!”, disse nonno Mario, sorridendomi dolcemente.
Allora, presi fiato e sussurrai: “Ecco, non sono sicuro, ma là fuori....”. “Non ti preoccupare!” mi rassicurò il nonno, “Sarà stato il vento! Adesso però dormi!”. Poi il nonno mi rimboccò le coperte, mi diede un bacio sulla fronte ed uscì dalla stanza.
Il giorno successivo, e tutti gli altri giorni che seguirono, il nonno non tornò mai più su quella storia, né io lo sollecitai a raccontarmela di nuovo. Soprattutto, non mi parlò mai più di quei fantasmi, né più io sentii nella valle quel fischio e quel lento incedere di un treno sbuffante.
Le vacanze continuarono a scorrere serene e spensierate come sempre finché, un giorno, quel bambino, che correva tra prati e ruscelli, diventò grande ed abbandonò la valle, portato lontano dalle nuove divinità dell’adolescenza e dalla sete di nuove esperienze.
Ma due giorni fa ho ricevuto una telefonata e sono tornato. E quando ho passato il tornante di Zuel, il mio paese, i miei boschi e le mie montagne mi sono venuti incontro come un cane buono ed il ricordo di tutte le estati che avevo passato con i nonni, e di quanto mi ero divertito, è riaffiorato, dirompente, travolgente, come un fiume in piena.
Terminata la funzione, mi fermai un po’ in quella che era stata, in un tempo felice, la mia casa delle vacanze e mi sedetti nel piccolo giardino ad assaporare il silenzio della valle. Il sole diventava enorme, smisurato. Salutava tutti e si preparava a saltare oltre le cime dei monti. La brezza mi portava il profumo dell’erba appena falciata ed il canto armonioso dei pini che ondeggiavano leggeri.
Rimasi per un po' immobile ad osservare le nuvole che si rincorrevano nel cielo, quando, all’improvviso, mi sembrò di sentire un rumore flebile, lontano. Era un rumore familiare che mi ricordava qualcosa. Tesi l’orecchio e, per quanto inverosimile potesse essere, riconobbi fin troppo bene un fischio e lo sbuffare di un treno che, lentamente, si allontanava.
Tante cose mi tornarono in mente: le partite a dama, le lunghe passeggiate, le ardite dighe di sassi e le mille storie che Nonno Mario amava raccontarmi. Ricordi tenui e sopiti dell’infanzia, immagini di posti inondati dal sole e da tante nuvole bianche.
Poi chiusi gli occhi e vidi Nonno Mario, finalmente sereno a bordo del suo vecchio treno, che sorrideva e mi salutava agitando la mano fuori dalla cabina del suo grosso mostro meccanico. E vidi che, a bordo con lui, c’era tutta la gente che per tanti anni aveva scarrozzato avanti e indietro per la valle. C’erano gli emigranti con le loro valigie di cartone, i turisti con le macchine fotografiche, i rudi boscaioli e la gente normale che se ne andava al mercato, con tanto di galline al seguito. E c’erano anche gli aguzzini vestiti di nero e i prigionieri con la stella gialla, che ora ridevano e scherzavano insieme, accomunati finalmente dalla stessa sensazione di pace.
“Buon viaggio, Nonno, ovunque tu sia!”, mormorai allora aggrappato al muretto del giardino, lottando per ricacciare giù più di una lacrima. Poi, con un balzo, scavalcai il muretto e cominciai a correre. Correvo fino a farmi scoppiare i polmoni perché non volevo farmi sfuggire quel rumore amico che, come una sottile bava di ragno, ancora mi legava a quei ricordi.
Ma feci poca strada: il rumore poco a poco si affievolì e scomparve, e la valle ripiombò nel solito silenzio, rotto dal soffio leggero della brezza che mi cullava come una madre affettuosa al risveglio dopo un brutto sogno.
Opera scritta il 18/11/2020 - 12:10
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