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Perle

Perché volesse ucciderlo è un problema che esula dall’ambito di questa storia. È un problema che neanche le apparteneva più, ormai disperso e sepolto dall’odio mentre guardava fisso quegli occhi che non ama e che non l’amano. Non sono mai esistite persone più vicine eppure più lontane, entrambe avvolte nelle stesse lenzuola ma perse ciascuna in un modo all’altro del tutto sconosciuto. La donna ritmicamente muoveva l’indice in piccoli circoli sulla federa bianca del cuscino, circonferenze perfette che si rincorrevano senza sosta in un girotondo di ansie e rimpianti. L’uomo che un tempo era stato per lei la via di fuga da una vita che odiava adesso si era trasformato, così, senza che potesse accorgersene, in una gabbia di dolore che la stava facendo sprofondare in un abisso ancora più oscuro di quello dal quale l’aveva sottratta. Le bottiglie vuote di Rum liscio che dormivano sul pavimento accanto a lui le ricordarono che doveva fare qualcosa, che forse non era ancora troppo tardi per riprendersi la sua vita, la sua sicurezza e quella di sua figlia. Tutte le soluzioni che era riuscita a trovare avevano come fondamento comune l’allontanarsi da lui ed il farlo in fretta, finche poteva ancora evitare che la bambina si accorgesse di cosa fosse diventato suo padre.
La via più veloce sarebbe stata quella di farlo fuori e poi di lasciarlo in qualche vicolo finche il sole della mattina seguente non lo avrebbe trovato sepolto tra scatoloni e bottiglie mezze vuote. Nessuno avrebbe fatto troppe domande, un ubriacone trovato morto, forse per ipotermia a causa del gelo di febbraio, in uno dei tanti vicoli della città. Tutto quello che doveva fare era muoversi con discrezione e non le sarebbe accaduto nulla. Eppure, malgrado ci pensasse in continuazione, anche ora mentre lo continuava a fissare dritto negli occhi, finiva sempre con il posticipare, con l’esitare. Non era un’assassina e per quanto potesse avere paura della furia di cui lui era capace, per quanto potesse provare un forte senso di nausea nel vedere il buco nella porta della camera che il marito aveva aperto con un pugno pochi giorni prima dopo l’ennesimo bicchiere di troppo, malgrado tutto, malgrado i lividi, malgrado le lacrime non riusciva trovare la forza o la follia necessaria per poter riiniziare a vivere.
Se si fosse allontanata, se fosse scappata, in qualsiasi luogo lui l’avrebbe ritrovata, l’aveva sempre fatto, non sopportava l’idea di perdere qualcosa di suo e per qualche strano motivo quell’uomo continuava a considerarla come una sua proprietà, una sua cosa.
Dove era finito suo marito? Quell’uomo che mentre le allacciava il girocollo di perle che le aveva appena regalato sussurrava di amarla strappandole un bacio, quell’ uomo che aveva avuto il coraggio di dirle “ti amo” e di crederci.
Più lo guardava e più aveva voglia di gridare al pensiero di tutto quello che avevano un tempo e che ora hanno perduto. Nulla dura per sempre, lo aveva capito, qualsiasi cosa può scivolarti via dalla mani con la stessa facilità con cui ci si versa un bicchiere di whisky.
Spesso si dice che la gioia sia nel dare, ma lei non riusciva più a crederci, era stanca di dare, di dare ogni cosa senza ricevere nulla. Fu per questo che quando la chiamarono dall’ospedale per informarla che suo marito era stato coinvolto in un brutto incidente non riuscì a provare dolore. In verità sperò che morisse, che il destino ponesse fine a questa sofferenza reciproca ma né la vita né i dottori vollero aiutarla e fu così che dopo mesi di terapia intensiva l’uomo venne dimesso. Aveva subito gravissimi danni cerebrali permanenti e per di più risultava completamente paralizzato dalla vita in giù. Forse sarebbe dovuta scappare, lasciarlo ora che non l’avrebbe più potuta inseguire, sarebbe stata una giusta punizione per l’essersi bevuto tutta la vita ma non ce la fece, quello che le era rimasto non era che l’involucro dei ricordi di un passato ormai perso. Suo marito non c’era più, era diventato una silenziosa presenza che guardava nel vuoto come cercasse una via d’uscita da quell’inferno. Un fantoccio di cui lei si sarebbe presa cura perché per tutta la vita non aveva saputo fare altro, perché in realtà, dentro di sé non aveva mai smesso di credere che la vera gioia sia nel dare, non importa quanto ci costi, diamo e diamo fino a quando inizia a far male e poi diamo ancora, ancora un po’ di più.


E così puoi vederla nelle calde sere d’estate, quando il sole inizia a sparire dietro le cime degli alberi, che spinge la sedia a rotelle del marito lungo il viale alberato nel parco. Procede decisa come se fosse sicura che quella sia la cosa giusta da fare. Non si ferma quasi mai fatta eccezione per il grande salice alla fine del viale, sotto quell’albero si erano dati appuntamento per la prima volta lei ed il marito in quella che ormai le sembrava un’altra vita. Era l’unico momento della giornata in cui gli occhi di lui sembravano vivere di nuovo, come se per qualche istante quel luogo potesse riportarlo fuori dal suo oblio e ricondurlo da lei. Ogni volta che vedeva quello sguardo, quella luce, lei gli sorrideva come per salutarlo mentre una lacrima silenziosa le scendeva lungo la guancia. Non durava molto ma per quei pochi secondi lei era sicura che lui riuscisse a capirla, a ricordarla, poi però la luce spariva e con essa il suo sorriso, così, ogni volta, prima di ricominciare a camminare verso casa la donna stringeva il pugno intorno al suo girocollo di perle come per ricordare a se stessa che tutto questo è realmente accaduto, che, almeno per una volta, lei era stata amata.




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Opera scritta il 14/07/2014 - 21:25
Da Simone Coriandoli
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