Enrichetto, esile come una spiga di grano, somigliava vagamente a Stan Laurel. Bianco in volto, come fosse allergico al sole, non usciva quasi mai dalla piccola casa che divideva coi fratelli, dedito alla sua gestione millimetrata come la carta dei disegni delle medie, rosso su campo bianco. Ti chiamava con la sua voce asmaticamente flebile quando si affacciava, di tanto in tanto, per tirare di sotto dalla finestra del piccolo bagno i resti della verdura incartati in buste di carta, da dare alle galline. Lo si poteva vedere solo così, a mezzo busto, incorniciato in una piccola televisione.
Il suo regno era la casa che manteneva pulita ed in ordine. Ogni angolo, ogni superficie era oggetto di una cura scrupolosa, come se l’incedere del tempo potesse essere fermato con una scopa, un panno, o con l’ordine assoluto degli oggetti. Enrichetto si svegliava presto ogni mattina, quando ancora il cielo era di un grigio pallido e le ombre delle case si allungavano sui vicoli stretti. Sedeva al tavolo della cucina, con il caffè che faceva borbottare nel piccolo pentolino, e annotava tutto su un quaderno a righe, dove segnava le sue mansioni giornaliere: "Controllo rubinetti", "Pulizia pavimenti", "Cambia acqua alle piante", "Sistemare la legna".
Ogni cosa aveva il suo posto, ogni rumore il suo significato. Il fruscio della carta straccia quando veniva lanciato nel bidone, il ticchettio dell’orologio appeso sopra il lavabo, il respiro della casa che sembrava quasi un’entità vivente, come se aspettasse con ansia che ogni cosa fosse a posto. Enrichetto non era mai stanco, mai disordinato. La sua vita si consumava nell’assoluta fedeltà alla routine. Il sole che non lo baciava mai non gli impediva di essere un meticoloso artigiano della pulizia.
Eppure, tra i gesti quotidiani, c’era qualcosa di triste, come se Enrichetto cercasse di trattenere qualcosa che sfuggiva, come se la sua dedizione maniacale all’ordine fosse una forma di lotta contro l’imprevedibilità della vita. Non c’erano mai sorprese nella sua giornata. Non c’erano mai deviazioni dal piano prestabilito. Ogni volta che qualcuno bussava alla porta, lui faceva uno sforzo per sembrare meno isolato, ma nel suo sguardo, quando il viso si affacciava con discrezione dalla finestra, c’era una sorta di inquietudine, come se temesse di dover affrontare qualcosa che non riusciva a controllare.
Nei rari momenti in cui riusciva ad allontanarsi dai suoi doveri, Enrichetto si rifugiava nel piccolo salotto, dove una televisione con la schermata a righe statiche sembrava l'unico legame con un mondo più grande di quello che riusciva a controllare. Le immagini che scorrevano lentamente sullo schermo non lo divertivano, ma sembravano offrirgli una forma di compagnia silenziosa, di quelle che non chiedono nulla, che non richiedono alcuna interazione. In quei pochi momenti, il suo viso di ceramica sembrava più morbido, più umano.
I suoi fratelli, più robusti e meno ossessionati dalla pulizia, spesso ridevano di lui. Non capivano perché Enrichetto fosse così ossessionato dal mantenere ogni cosa in perfetto ordine. Ma lui non spiegava mai, non dava mai ragioni, preferiva tenere le sue spiegazioni per sé, nell’intimità del silenzio che gli permetteva di respirare, di esistere senza dover giustificare ogni suo movimento.
Le galline, nel cortile, erano l’unico vero contatto con la vita che andava oltre la casa. Il momento in cui gettava loro gli scarti di verdura era quasi sacro. Enrichetto osservava con attenzione come beccavano e si contendevano i resti, il loro movimento frenetico e irregolare sembrava affascinarlo, come se in quel caos ci fosse un’ordine che sfuggiva alla sua razionalità.
Ogni tanto, qualcuno passava nel vicolo e lo salutava, ma lui rispondeva sempre con un gesto appena accennato, un cenno della mano o un sorriso che non arrivava mai veramente agli occhi. Era un saluto che sapeva di rito, una cortesia che si consumava senza lasciar traccia, senza che nulla si modificasse davvero.
Enrichetto viveva così, nel suo piccolo mondo fatto di regole immutabili e di silenzi. Un mondo che, per quanto perfetto, nascondeva sempre un’ombra di solitudine, un'assenza che non riusciva a colmare nemmeno con l'ordine millimetrico della sua vita.
Il suo regno era la casa che manteneva pulita ed in ordine. Ogni angolo, ogni superficie era oggetto di una cura scrupolosa, come se l’incedere del tempo potesse essere fermato con una scopa, un panno, o con l’ordine assoluto degli oggetti. Enrichetto si svegliava presto ogni mattina, quando ancora il cielo era di un grigio pallido e le ombre delle case si allungavano sui vicoli stretti. Sedeva al tavolo della cucina, con il caffè che faceva borbottare nel piccolo pentolino, e annotava tutto su un quaderno a righe, dove segnava le sue mansioni giornaliere: "Controllo rubinetti", "Pulizia pavimenti", "Cambia acqua alle piante", "Sistemare la legna".
Ogni cosa aveva il suo posto, ogni rumore il suo significato. Il fruscio della carta straccia quando veniva lanciato nel bidone, il ticchettio dell’orologio appeso sopra il lavabo, il respiro della casa che sembrava quasi un’entità vivente, come se aspettasse con ansia che ogni cosa fosse a posto. Enrichetto non era mai stanco, mai disordinato. La sua vita si consumava nell’assoluta fedeltà alla routine. Il sole che non lo baciava mai non gli impediva di essere un meticoloso artigiano della pulizia.
Eppure, tra i gesti quotidiani, c’era qualcosa di triste, come se Enrichetto cercasse di trattenere qualcosa che sfuggiva, come se la sua dedizione maniacale all’ordine fosse una forma di lotta contro l’imprevedibilità della vita. Non c’erano mai sorprese nella sua giornata. Non c’erano mai deviazioni dal piano prestabilito. Ogni volta che qualcuno bussava alla porta, lui faceva uno sforzo per sembrare meno isolato, ma nel suo sguardo, quando il viso si affacciava con discrezione dalla finestra, c’era una sorta di inquietudine, come se temesse di dover affrontare qualcosa che non riusciva a controllare.
Nei rari momenti in cui riusciva ad allontanarsi dai suoi doveri, Enrichetto si rifugiava nel piccolo salotto, dove una televisione con la schermata a righe statiche sembrava l'unico legame con un mondo più grande di quello che riusciva a controllare. Le immagini che scorrevano lentamente sullo schermo non lo divertivano, ma sembravano offrirgli una forma di compagnia silenziosa, di quelle che non chiedono nulla, che non richiedono alcuna interazione. In quei pochi momenti, il suo viso di ceramica sembrava più morbido, più umano.
I suoi fratelli, più robusti e meno ossessionati dalla pulizia, spesso ridevano di lui. Non capivano perché Enrichetto fosse così ossessionato dal mantenere ogni cosa in perfetto ordine. Ma lui non spiegava mai, non dava mai ragioni, preferiva tenere le sue spiegazioni per sé, nell’intimità del silenzio che gli permetteva di respirare, di esistere senza dover giustificare ogni suo movimento.
Le galline, nel cortile, erano l’unico vero contatto con la vita che andava oltre la casa. Il momento in cui gettava loro gli scarti di verdura era quasi sacro. Enrichetto osservava con attenzione come beccavano e si contendevano i resti, il loro movimento frenetico e irregolare sembrava affascinarlo, come se in quel caos ci fosse un’ordine che sfuggiva alla sua razionalità.
Ogni tanto, qualcuno passava nel vicolo e lo salutava, ma lui rispondeva sempre con un gesto appena accennato, un cenno della mano o un sorriso che non arrivava mai veramente agli occhi. Era un saluto che sapeva di rito, una cortesia che si consumava senza lasciar traccia, senza che nulla si modificasse davvero.
Enrichetto viveva così, nel suo piccolo mondo fatto di regole immutabili e di silenzi. Un mondo che, per quanto perfetto, nascondeva sempre un’ombra di solitudine, un'assenza che non riusciva a colmare nemmeno con l'ordine millimetrico della sua vita.

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