alla padrona Luna, che trafigge
in silenzio il vuoto vitreo della
finestra.
E' la sola luce, qui e ora,
a fendere l'immenso
buio di questa stanza; l'unica
scheggia luminosa trafitta
nel fianco di questa cupa sfera
che mai smette di girare.
Stendo un braccio e le dita
accarezzano il buio;
mi alzo in piedi e sono
parte del nero.
Solo qualche passo,
solo pochi, verso di lei,
che mi guarda impavida
aldilà dei campi incolti
sul versante stellato
di un lembo di questo
cielo che m'illudo sia
solo mio.
Incastonato vivo
tra le braccia levigate
di questa stanza, io non
sono che un pulsante
respiro avido di colore
che agogna morente
ad un sorso di luce
per poter evadere
e poi brillare sotto quella
pioggia scrosciante
e infine, tuffarmi ad
occhi chiusi nell'alone
dorato del disco calante,
fino a tatuarmi caldo sulla
pelle lo splendore etereo.
Rimango qui: sul fondo
vile dei miei fallimenti,
tra teschi di sogni
e ossa di speranze:
sdraiarsi sul fondo è facile,
altro è sfuggire al buio
e arrampicarsi incerti
sui pendii disseminati
di edere e rampicanti
seguendo chissà
che luce.
La peggiore delle certezze
è sempre meglio
di qualsiasi incertezza.
Sul pavimento freddo,
almeno, qui, ora
a piccoli passi,
tra un singhiozzo e
un sorriso, inseguo
quella piccola, unica
goccia di luce che lucida
guizza tra vene di marmo
e così so
riconoscere i miei contorni;
il mio principio; la mia fine.
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