A volte capitava la concessione di rimanere entrambi, dormendo uno da capo e uno da piedi nel lettino per gli “ospiti”, che ospiti non erano.
La mattinata cominciava con l'odore del caffè che preparava nonna, era l'avvisaglia che la colazione era in procinto di cominciare, dopo la sveglia.
L'arrivo di nonno con la schiacciata del Tomei, appena sfornata, dava l'inizio alle danze.
Partiva con la bici dal viale del Tirreno per arrivare in piazza Bartolommei dove la sfornavano.
Lo strano sapore che mischiava il dolce del caffellatte zuccherato e il salato della schiacciata calda era un connubio di grande gusto. L'unica cosa che non mi piaceva era vedere le chiazzette di olio, che la schiacciata rilasciava, galleggianti, nella tazza.
Chiudevi gli occhi, però, e le chiazzette non c'erano più.
La vista lasciava il campo al sapore.
Al mare si poteva andare, solitamente, in due posti: al moletto o alla pompa.
La pompa era un posto nel quale ho trascorso tanta parte dell’estate da bambino, una piccola spiaggietta di rena e sassi e un molo sempre più diroccato, distrutto anno dopo anno dal libeccio “oragioso” che in quel punto dava sfogo alla sua furia.
Il moletto diroccato portava alla “piana”, lo scoglio del sale, ultima terra prima di immergersi in acque abbastanza profonde, degne di una nuotata.
La piana, però, era da conquistare! Il percorso, dopo una breve camminata fra piccoli scoglietti, in poca acqua, che erano molto fastidiosi, specie se non si usavano le ciabattine da mare, che però facevano molto di schizzignoso. Sugli scogli si va con i piedi scalzi! Non siamo mica di Fauglia!
Per passare meglio il tempo, alla pompa, si poteva pure pescare con le “correntine” fatte in casa, o se te ne scordavi, acquistarle dal “Renai” belle e fatte.
Un semplice amo, un piombo, e l’esca dei “garagoli”, le chiocciole di mare, trovati sul posto. Bisognava prendere, però, quelli con le gambette, non quelli con l'occhio. Chissà perché, forse le bavose dovevano essere razziste... o “stucche”!
La pesca consisteva nel giro delle buchette a cercare di catturare qualche ghiozzo, ma più spesso, appunto, le bavose, con il dito indice che teneva su la piccola corda di nylon in attesa di sentire il tocco del pesce.
Al moletto del porticciolo c'era molto di più! Soprattutto si potevano fare i tuffi, risalendo da una scaletta molto comoda. Le specialità erano la “seggioletta”, di testa o la “bomba” e l'ardimento era farlo da altezze crescenti. Si potevano montare via via gli scalini della scaletta in pietra e alzarsi di livello fino al molo. Poi il salto dal molo alto, come ultimo livello, dal quale si controllava anche che non arrivassero imbarcazioni in entrata, oltre a quelle in uscita che erano individuabili facilmente.
Il volo con l'acqua che si avvicina e poi... le bolle dell'aria che ti trascini dietro.
Sul quel moletto l'umiliazione più grande che ricordo! Una volta volevo fare il bagno solo se avevo le pinne, che ovviamente mi ero dimenticato. Una bizza, niente più. Mio nonno allora chiese a uno dei ragazzetti più grandi, Mario, se andava a casa, con la bici, a farsele dare da mia nonna. In cambio li dette cento lire, che negli anni 60 erano una mancetta.
Stetti ad aspettare il suo ritorno.
Capii che una persona che ti serviva per denaro, non mi faceva stare così bene. Ebbi le mie pinne, ma mi sentii un po' una merda.
Qualche anno dopo, più grandicelli, invece eravamo ai bagni Roma dove mio nonno, sempre alla ricerca di qualcosa da fare per avere qualche soldo in più faceva il bagnino. Lo faceva anche in vista della villeggiatura a Porretta Terme - per non pesare come diceva lui, sul bilancio familiare Così eravamo spesso ospiti del rimessaggio dei surf e delle canoe. E facevamo il bagno ai “Roma “ il bagno degli antignanesi un po’ più sostenuti.
Al ritorno verso casa di nonna, alla periferia del paese, una sosta rinfrescante alla fonte vecchia, i vecchi lavatoi del paese. Un posto freschissimo da raggiungere ma poi da lasciare dopo una bella scarpinata, che mi ha sempre fatto chiedere per quale ragione li avessero fatti così in basso rispetto al paese. Tre grandi vasche in sequenza e una fonte d'acqua sempre aperta, senza il rubinetto, un tubo color ruggine largo tre volte l'acqua che ci usciva.
Il ritorno a casa di nonna per il pranzo. Quando non eravamo in due, si poteva usufruire della canna della bici di nonno. Scomodo, a dir la verità, ma sempre meglio che farsela a piedi, stanchi, dopo il mare.
Il pomeriggio, dopo pranzo, il riposino nella frescura delle persiane socchiuse.
Alle cinque la merenda con pane e pomodoro, pane e zucchero, e, quando andava bene pane e nutella.
A seguire la discesa nell'orto a giocare col “Pongo” per costruire supereroi e trame che prendevamo dai fumetti ma che inventavamo anche con le caratteristiche più disparate.
La caratteristica del Pongo era la sua versatilità, i suoi colori, il fatto che non seccava mai!
La passione vera era seguente al fatto che il materiale, con l'uso, si sporcava. Cominciava così ad avere un colore grigio sempre più scuro!
Chi l'ha detto che i colori dell'iride, se mischiati, davano il bianco? Col Pongo si dimostrava il contrario.
Con la poltiglia grigia scura si facevano gli eroi più belli, quelli originali, gli antagonisti dei “griffati” Marvel. Poi potevano essere fatti enormi, tanto di materiale ce ne era sempre di più che di quello colorato!
La sera, il ritorno a casa. Ci veniva a prendere mamma e si tornava sul viale Alfieri, in città. O a Livorno, come dicevano gli antignanesi, volendo distinguersi dal capoluogo labronico.
Quanti giorni mancavano ancora all'inizio della scuola?
Pochi!
Speriamo di farcene incastrare ancora qualcuno.... ad Antignano!
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