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Ciò che eri

La stanza era in ordine come sempre, gli occhiali riposti su di una vecchia rivista sul tavolino dinnanzi la poltrona, l’astuccio dei colori, semi aperto, accanto. Uno specchietto nella tasca di un grembiule bianco, sporcato sull’ estremità della manica da qualche chiazza rossa della prima colazione, probabilmente marmellata. La donna che accudiva mia madre era piegata in avanti, dinnanzi a me, con le mani che si congiungevano sul viso, bagnate di lacrime, i singhiozzi scandivano i secondi a intermittenza regolare. Notai per la prima volta le forme così delicate e giovani che si nascondevano in tutta quella stoffa grigia che costituiva il completo da lavoro di quella donna. Quella sera il suo volto era in dolore come mai lo avevo visto. Le labbra si stringevano ai denti che affondavano nella loro carne fino a farle quasi sanguinare, lo chignon si era scomposto in una massa di capelli neri, crespi ed informi che le coprivano interamente il viso. Continuava a chiedermi perdono, lo implorava, contorcendosi su sé stessa, farfugliava qualche incomprensibile parola, portando il suo sguardo, nascosto dalle lacrime, nei miei occhi. Continuavo a rassicurarla, cercavo di spiegarle che non era una sua colpa ma lei continuava, non riusciva a placare quel suo così forte pentimento, la sua ira la devastava, le si riversava con impeto nel petto senza farla smettere di respirare, come desiderava. Mi alzai ed andai a prepararle un thè, l’ora di cena era ormai passata e nessuno di noi aveva trangugiato qualcosa, avevamo solo bevuto le nostre lacrime. Ritornai nel salone dove mio fratello e la donna che accudiva mia madre erano seduti. Mio fratello aveva il capo rivolto all’ indietro, gli occhi galleggiavano in uno stato di piena assenza dalla realtà. Aveva partecipato alle operazioni di ricerca tutto il giorno, ormai quella giovinezza sfiorita sul suo volto si definiva ancor meglio ed ogni giorno gli portava via sempre più energie fino al giorno in cui non ne avrebbe avute abbastanza per risvegliarsi. Lo portai nella camera della sua giovinezza e della sua innocenza passata. Si addormentò poco dopo che ebbi richiuso la porta. Il thè era pronto, io e quella donna lo bevemmo entrambe molto in fretta e l’accompagnai nella sua stanza per riposare. Lei si rifiutava, piangeva, aveva una voce sempre più greve e profonda, come se il pozzo della sua anima si fosse prosciugato di ogni brezza, lasciando posto solo al dolore. Dopo diverse insistenze la convinsi a recarsi nel suo letto, le promisi che appena avrei avuto notizie l’avrei svegliata, le feci capire che doveva riposare, in quello stato non sarebbe stata di nessuna utilità. Si convinse ed andò a coricarsi. Stando attenta a non far rumore per evitare di svegliare mio fratello mi misi sul divano e caddi in sogno senza avere la forza di rendermene conto. Quando mi svegliai le prime luci dell’alba si riversavano tra le fessure delle mie palpebre, girai il capo verso il vecchio orologio sulla parete sinistra: erano le 5:45. La casa era infestata da lunghi intervalli di silenzio che si alternavano ai rumori della campagna circostante. Le ricerche non erano state interrotte, continuarono per tutta la notte, ma mia madre non era ancora rincasata, ormai erano passate più di 30 ore. Nella mente iniziava a palesarsi l’idea di non rivederla mai più. Stavo soccombendo a quel pensiero, il mio volto era sopraffatto dalle lacrime, snaturato da espressioni di dolore. Allungai la mano a cercar un fazzoletto tra le pieghe di quella coperta a motivo scozzese che mi separava dal gelo. Ripensai alle mie parole e d’ improvviso quelle lacrime mi parvero non avere più valore. “ Mia madre non la rivedrò mai più” ,dissi, con un filo di voce appena percettibile. “ Che paradosso!” pensai. Quella porta sarebbe stata varcata da una donna che per me poteva essere una donna qualunque se non per una fisionomia simile a quella di mia madre. Già, “simile”, anche la sua fisionomia, la sua voce, ormai ridotta a gridolini, pianti e risatine era scomparsa in meandri del suo corpo a me sconosciuti. Mia mamma non esisteva, dovevo accertarlo, non poteva tornare a casa perché quella non era la sua casa, quella era la casa di mia madre e mia madre non esisteva, era sparita, divorata lentamente dalle sue stesse membra. Non era mia madre, ma aveva sul ventre la cicatrice del mio cesareo, a distanza di 30 anni, ancora visibile, non era mia madre, ma sulla caviglia aveva una voglia di forma ovale come quella di mia madre. La mia testa scivolò sul bracciolo di legno del divano, volevo piangere, dar sfogo a tutte le mie sofferenze, mia madre aveva reso l’ anima a Dio sotto i miei occhi, lentamente, in tutti quegli anni, senza che io potessi fare niente, senza che me ne accorgessi, mia madre era morta, ma non aveva ancora una tomba ed io non potevo piangere. La lancetta di quel vecchio orologio si era posata sulle 6: 30 del mattino e nella casa il silenzio era il rumore più forte. Mi affaccia sulla finestra della cucina mentre l’infuso del thè si liberava nell’ acqua bollente. Lo sguardo mi cadde su un vecchio dondolo in giardino, l’edera gli si avviluppava attorno, il legno era ormai deteriorato, al solo soffio di Aura e Zefiro, avvolti nei loro panneggi, quel vecchio mausoleo avrebbe distrutto ogni traccia dei ricordi di mia madre nella mia infanzia, lei, che mi teneva stretta al suo petto nelle sere d’ estate sotto le stelle aspettando ch’io m’ abbandonassi ad Hypnos . Il campanello suonò, non feci in tempo a deviare lo sguardo verso la porta che mi fratello e la donna che si occupava di mia madre avevano spalancato l’uscio di casa , lasciando penetrare nelle stanze i primi spifferi settembrini ed il volto di una donna che riconobbi essere mia madre. Dopo un primo momento di spaesamento iniziò a piangere, mentre quella donna dai capelli corvini la stringeva a sé come fa una mamma con la propria figlia. Volsi lo sguardo nuovamente sul giardino, il dondolo era scomparso. Mia madre era morta. Una lacrima bruciò lungo i lineamenti del mio viso riversandosi nel thè. Potevo piangere. Pregai per qualche istante e mi diressi a conoscere quella nuova donna che abitava nella casa che apparteneva a mia madre.



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Racconto scritto il 27/09/2018 - 23:03
Da Sildom Minunni
Letta n.916 volte.
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Commenti


Complimenti, senza parole

laisa azzurra 28/09/2018 - 23:19

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Bellissimo...

Grazia Giuliani 28/09/2018 - 18:01

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