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Waltz.

Mentre scrivo cerco di ricordare il suono del piano di mia madre perché la ricordo come una delle più grandi pianiste della mia vita. Rimango affascinato dal suono a volte triste e altre allegro, un po' come la vita stessa che cade e si risolleva. Un po' come la mia, per la quale passo da un periodo di totale spensieratezza a un periodo in cui penso di doverla far finita. Momento in cui ricordo le cose peggiori di me, le cose che mi hanno infastidito e punto fino a farmi desiderare di morire. Quei ricordi un po' offuscati e immensi nel passato che vorrei, per sempre, dimenticare. E quei momenti di allegra gioia dovuti alla mia penna, a qualche ricordo della mia infanzia, a mia madre che mi cullava fra le sue tenere braccia e a mio padre che faceva l'eroe per me. Legati ad esperienze che nell'età matura non ho mai, e dico mai, ripetuto.
Ogni tanto mi capita di pensare, in quei frangenti felici, a delle amicizie rimaste o perdute che siano ma che mi hanno reso l'esistenza più leggera di quel che la vedo io. Di quel che me la son sentita io. Più leggera in senso buono, non frivola ma solo più leggera. Più leggera dagli affanni e dai complessi che il mio cervello si portava dietro.
E ascolto ancora quel favoloso quel suono che le dita di mamma producevano, un suono che alterna fra una melodia per la quale vorresti chiedere scusa con la mano sul petto e una melodia per quale vorresti solo scappare, danzare e lasciare tutto e tutti.
Che il mio cervello si portava dietro, che il mio cervello si porta dietro sarebbe più corretto. Non sono guarito ma ci sto provando da quando sono nata e, come questo ricordo, sento di poterci riuscire.
Di rinascere sotto forma di un essere diverso, sotto forma di un animale con sei zampe per camminare meglio e munito di un paio d'ali per spiccare il volo dove vuole senza sentirsi in gabbia. E piedi ben solidi per ballare come in questo Waltz che se mi capitasse una melodia tanto bella non saprei rifiutare.
Che se mi capitasse una fanciulla e intelligente non saprei dirle di no, una fanciulla inesistente nella mia vita ed esistente solo nella mia fervida fantasia con la quale scrivo e ascolto il Waltz. Una donna che nella realtà non si accorge di quanto io possa amarla ma che nell'irrealtà freme nel volermi tutto per sé. Un mondo di fantasia nel quale la mia bellezza sorge al di sopra di ogni altra bellezza e fattezza, al di sopra di ogni altra mia somiglianza. Il mio mondo, quello immaginario dove la mia mente pensa e si rilassa e si consuma e si perde in cose che non posso toccare con le mie mani ma solo con il mio cuore.
E poi ripenso a quelle amicizie malfidate della quali, invece, mi sono fidato. E poi ripenso a quelle amicizie che vorrei far volteggiare in questa melodia come fosse vento forte, come fosse tempesta che le “frulla” senza sosta, che le fa ammalare senza pietà. Ammalare di una malattia contagiosa per la quale si contagiano a vicenda, dalle quale io sono immune sempre. Una malattia incurabile che si può guarire solo con il mio perdono che non giungerà. Mai. Come fossero anime dannate, come Paolo e Francesca, anime dannate che volteggiano nell'aria senza metà e senza fermarsi in nessuno posto preciso. E poi vorrei sentirle urlare di dolore fino al boato più assoluto che mi sussurra l'ora della loro morte.



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Racconto scritto il 04/06/2019 - 15:48
Da FraAaron 759
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