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Romeo

La giornata era limpida, il cielo stendeva il suo vivido azzurro sulla pianura e i prati circostanti.Il sole tiepido, di un’inoltrata primavera, riempiva l’aria di delicate essenze e la natura esplodeva di colori con le bellissime fioriture della ginestra, del sambuco nero, della malga selvatica e del geranio sanguigno. Anna ed io, salivamo con passo sicuro le scure e frastagliate rocce del Monte Cinto che s’innalzavano decise tra un fitto bosco di castagni e aceri. Giunti in cima, due enormi massi facevano da sentinella a un panorama da togliere il fiato.Estasiati e increduli, ci sedemmo sulla parte piana di un masso ad ammirare quel mare sconfinato di prati, campi e vigneti, tutti ben tenuti, curati e perfettamente in linea con gli inconfondibili profili dei colli che giganteggiavano in mezzo a quelle geometrie di verde. Più lontano, sfumate di rosa, una serie di creste facevano da sfondo abbracciando tutta la pianura. Eravamo soli, in quel momento. Nell’oasi di pace che ci circondava, sentivamo solo l’invisibile soffio dell’aria che ci avvolgeva e che muoveva, in un lento andare, le foglie degli alberi in un continuo e sommesso chiacchierio. Restammo per qualche minuto in silenzio in balia del vortice che coinvolgeva totalmente i nostri sensi; da un momento all’altro ci aspettavamo di essere portati via dalle correnti e volare lontano, leggeri, al canto sussurrato del vento. Il clima era mite e una leggera brezza di tanto in tanto, veniva a farci visita scompigliando i lunghi capelli di Anna che, alla fine, li raccolse come poteva con un fermaglio, facendo risaltare ancora di più la luminosità del suo volto. Mi fermai a guardarla con gli occhi di chi vede davanti a sé, il grande amore della vita. Avrei voluto sussurrarle parole dolci, d’amore, ma non so perché, le soffocai in gola e le tenni dentro, custodite in un angolo del mio cuore. A un certo punto vidi salire dalla stradina che fiancheggiava il grande prato un signore, sulla settantina, alto, fisico asciutto, occhi ravvicinati e scuri, camminava con passo lento e misurato affrontando con fatica la costante salita del sentiero. Indossava una camicia di pile a grandi quadri di un colore giallo appariscente, dei pantaloni a coste di velluto grigio fumo e degli scarponi da montagna consunti e impolverati.Si avvicinò a una delle panche, posò lo zaino e tirò fuori una bottiglietta d’acqua che bevve con avidità. Guardai quell’uomo di una certa età con gli occhi compassionevoli di un figlio, seduto sulla panca con le lunghe gambe tese e divaricate, che a più riprese si dissetava per darsi forza e riprendere fiato. Scoprii, mentre consumavamo insieme uno spuntino, che si chiamava Romeo. Non era sposato e viveva da solo. Nella sua vita gli è sempre piaciuto essere uno spirito libero, senza padroni che lo incalzassero dicendogli cosa fare o non fare, senza l’assillo di dover rendere conto a qualcuno e senza la smania di arrivare per forza in orario a un appuntamento. A quarant’anni, Romeo, dopo la scomparsa del padre, aveva iniziato un’attività in proprio con un negozio di ferramenta acquistato con i risparmi racimolati in tanti anni di vita da agricoltore, quella stessa che, a malincuore, aveva dovuto abbandonare e alla quale era profondamente legato. Uno dopo l’altro, i suoi fratelli se n’erano andati altrove dove i guadagni erano facili e le fatiche certamente minori. Romeo era stato l’ultimo ad arrendersi. Solo, con la madre inferma da accudire giornalmente, si era trovato ora ad affrontare un nuovo lavoro con altri ritmi e altre responsabilità, ma non per questo si era abbattuto, anzi. Lavorava duro, come aveva sempre fatto e, nel corso degli anni, si prese le sue belle soddisfazioni. L’unica cosa che invece non cambiò in Romeo, fu il suo innato spirito libero di cavallo selvaggio, una qualità (o un difetto?) che la gente che lo frequentava, imparò col tempo a conoscere e ad accettare perché in fondo era un brav’uomo, onesto e leale: questo bastava. Perché allora questo insistente desiderio di solitudine? Forse per un perduto amore? O per una scommessa personale? Oppure per dimostrare agli altri che ce l’avrebbe fatta anche da solo? Romeo non seppe darmi una risposta, restò in silenzio e nel suo volto, calò improvvisamente un velo di malinconia. Il vento dei ricordi sembrava essersi impossessato della sua persona, del suo essere. La dura scorza di uomo forte e deciso lasciava spazio alla memoria della sua lontana gioventù. Poi, posando l’ultimo pezzo di panino sul tavolo, proseguì a raccontare: “ Ero il terzo di otto fratelli, cinque maschi e tre femmine. Antonio e Francesco, i due più vecchi, stavano al fronte a combattere una guerra assurda. Fin da piccolo sono stato abituato dai miei genitori, al lavoro duro e faticoso dei campi e alla vita umile e solitaria del contadino. Sebbene fossimo in tanti, non ci è stato fatto mancare nulla, non ci sentivamo poveri, anche se di povertà a quei tempi ce n’era tanta. Avevamo campi coltivati a granturco, vigneti che ci davano del buon vino, alberi da frutta dove coglievamo dolci primizie che, sotto le mani esperte e pazienti di nostra madre, diventavano gustosissime marmellate e l’orto, dalla terra buona e fertile, dove si piantava tutto quello che la stagione offriva in quel periodo. Nel complesso, quindi, mi ritenevo un ragazzo fortunato. Vivevamo, insieme ai miei genitori, in una casa costruita negli anni della Seconda Guerra, molto semplice, tirata su a pietre e calce ed era composta di due piani.Sotto stava la cucina, quattro metri per quattro, che dava direttamente sul cortile e dove si passava gran parte della giornata. Su una parete, al centro, vi era un grande focolare che però, nelle giornate fredde d’inverno, riscaldava a fatica. A fianco, un’altra stanza serviva da deposito. Ci si metteva dentro di tutto: conigli, capre, mucche, rastrelli, forche, zapponi; c’era il posto per le sgàlmare , che mettevamo quando si andava a lavorare i campi e quello per le scarpe buone, che indossavamo nei giorni di festa: sembrava l’Arca di Noè! Una parte di questo deposito era adibito a “cantina”, dove mio padre teneva custodite delle piccole botti di legno che conservavano il vino fatto con l’uva delle nostre vigne. Nella parte opposta al focolare, vi era una scala che portava al piano di sopra, dove stavano le camere. Eravamo sprovvisti di servizi igienici e quando ci “scappava”, dovevamo andare fuori, dove mio padre aveva costruito una baracca che fungeva da latrina. Nei mesi caldi non ci badavi e andava bene, ma quando iniziava il freddo era una sofferenza!”. Dopo una breve pausa, riprese: “ Non vi erano altre case nelle vicinanze. A volte capitava di restare senza riso o senza grano da macinare o addirittura senza qualche attrezzo che serviva per lavori di manutenzione. Allora si partiva a piedi o in bicicletta e si andava a prendere quello che ci serviva percorrendo anche diversi chilometri prima di arrivare a destinazione. Quanto ho pedalato! Ricordo che avevo una bicicletta presa in eredità da mio nonno che mi lasciò quando si accorse che non poteva più usarla per problemi alle gambe. Per me, era come possedere una macchina. La tenevo come una reliquia. Pulivo e oliavo gli ingranaggi quasi ogni giorno e se qualcosa non funzionava, ero pronto a ripararla. La usavo, il più delle volte, per delle consegne o per fare un giro intorno al paese, poi la ripulivo e la parcheggiavo agganciandola per le ruote a due grossi ganci da macellaio che calavano dal soffitto della stanza-deposito. E per farvi capire di quanto fosse importante, all’epoca, possedere una bicicletta, vi racconto anche questa. A quei tempi, durante la guerra, di fame e povertà ce n’era tanta, troppa. I miei genitori, come ho già detto, ci hanno tirato su tutti e otto con enormi sacrifici, in silenzio e con dignità. Spesso capitava che ci servisse del frumento da macinare, per cui dovevamo andarlo a prendere da dei parenti che abitavano a Vicenza. Allora lasciavamo le sgàlmare in un posto che sapevamo solo noi, ci infilavamo ai piedi le scarpe buone e partivamo in bicicletta a prendere il frumento. Ritornati a casa, ci caricavamo i sacchi in spalla e andavamo a macinarlo nel mulino che stava distante un chilometro. Finito di macinare, ci caricavamo di nuovo i sacchi in spalla e poi via, spingendo a più non posso sui pedali della bicicletta per arrivare a casa prima che facesse buio. Quante volte mi è capitato di andarci con Cesare!...” D’improvviso, dai suoi occhi spuntò una lacrima che segnò, lentamente, il profilo dello zigomo e con la voce rotta dall’emozione, riprese: “ Cesare era il più piccolo dei miei fratelli, ci separavano solo un paio d’anni. Con lui ho condiviso i momenti più belli e spensierati della mia vita, gli volevo un gran bene e andavamo d’accordo. Parlavamo di tutto, mi sentivo libero di esprimermi e di confessargli ogni problema, ogni piccola cosa che mi angosciava o mi faceva stare male: lui aveva sempre una parola di conforto che mi risollevava il morale. Era sempre sorridente e pronto alla battuta. Un maledetto giorno d’inverno intriso di nebbia, mentre tornava in bicicletta da una consegna, una macchina non lo vide e lo falciò. Il codardo, invece di soccorrerlo continuò, senza fermarsi, la sua folle corsa assassina. Nonostante l’aiuto di qualche anima pietosa, spirò qualche ora dopo all’ospedale di Monselice”. A questo punto Romeo, prese a ricordare i bei momenti vissuti insieme: “ Quanto mi sono divertito con Cesare!. Ricordo i bei giorni di primavera, quando si tornava dal mulino e si faceva a gara a chi arrivava per primo al grande albero di ciliegio: chi perdeva, doveva dar prova di coraggio salendoci sopra e prendendo il maggior numero di ciliegie nel minor tempo possibile, prima che il padrone se ne accorgesse e ci cacciasse in malo modo”. Un lieve sorriso fece breccia tra le sue labbra.“Ho sempre sgobbato tanto nella mia vita. Lavorare la terra, all’epoca, era molto faticoso per questo il contadino ha imparato presto ad arrangiarsi e a vivere sin da giovane la propria solitudine, dove niente ti era riconosciuto e dove tutto era dovuto. Non c’era spazio per la spensieratezza, il divertimento, per una carezza, una parola affettuosa: si doveva diventare uomini subito. Non potrò mai dimenticare quell’anno in cui, nel giorno del mio compleanno, i miei genitori mi fecero la sorpresa di regalarmi un paltò. Un paltò, capite! Chi lo aveva visto prima di allora, un paltò!. Lo presi senza dire una parola, in quel momento non me ne veniva nessuna e restai lì, inebetito per alcuni minuti, a guardarmelo e riguardarmelo addosso. Fu il mio primo, vero regalo: avevo quasi trent’anni”. E proseguì ancora, ricordando: “ Nei freddi inverni, quando la terra si faceva dura come il marmo ed era difficile da lavorare, per proteggerci dal freddo, oltre alle sgàlmare, ci mettevamo anche i calzini di lana. Questi, in breve tempo, diventavano umidi per cui avevamo continuamente i piedi bagnati. Allora, prima di coricarci, li mettevamo sotto il piumino che era posto in fondo al letto. Il mattino seguente, quando al risveglio li andavamo a riprendere, li trovavamo asciutti e induriti come due pezzi di ghiaccio; questo perché le camere erano sempre immerse nell’umidità e nel gelo. In tutto questo, però, c’era anche il lato buono e divertente, quello che andava fuori dalla realtà quotidiana e faceva sognare noi bambini. Quando fuori nevicava e il freddo ci induriva le ossa, i vetri delle finestre, pieni di condensa, si gelavano dando origine a curiosi disegni cristallini che noi ragazzi andavamo a toccare, increduli a quel magico effetto: una volta bastava poco per catturare la nostra attenzione e farci volare con la fantasia”. Romeo era un fiume in piena. Continuando a raccontare la storia della sua vita, srotolava in continuazione i bei momenti vissuti in quei luoghi a lui cari. “ Quando la primavera bussava alle porte, era consuetudine, a casa nostra, cambiare il pavimento che era fatto in terra battuta. Si realizzava, di solito, una volta l’anno, poco prima di Pasqua, quando il tempo si metteva al bello e il sole cominciava ad asciugare il terreno. Con le giornate umide e piovose dell’inverno, l’ingresso era sempre ricoperto da uno spesso strato di poltiglia che noi uomini di ritorno dai campi e gli animali che circolavano in cortile, portavamo inevitabilmente dentro casa. Così, con il passare dei giorni, il fango si ammucchiava sempre di più formando nel pavimento, tante piccole montagnole. Allora nostra madre ci richiamava, dicendoci: “ Su tosi, che stamatina a terasèmo!” ( Su ragazzi, che questa mattina livelliamo! ) Quindi, prendevamo la carriola, il badile, il piccone, la vanga e asportavamo quelle fette di terra per sostituirle con quella nuova. La stendevamo mettendoci sopra della cenere, la bagnavamo un po’ e infine la battevamo, livellandola. Ma poi succedeva che per una decina di giorni, quando ci si sedeva, le sedie si piantavano sulla terra morbida e non si riusciva a spostarle prima che questa, non ritornasse ancora una volta, dura e compatta ”. Avevamo ascoltato Romeo con particolare interesse. Quel suo racconto ci toccò sensibilmente. Era come se ci avesse preso per mano e portato a conoscere un mondo nascosto, sconosciuto, lontano dai nostri occhi e dai nostri pensieri. Invece lui l’aveva vissuto realmente, in prima persona e questo ci fece sentire piuttosto a disagio. Prima di andarcene,però,volevamo salutare come si deve il nostro caro amico che ci aveva regalato parte del suo tempo a raccontarci un pezzo importante della sua esistenza insegnandoci cos’è veramente la vita. Ci venne spontaneo abbracciarlo e lui, timidamente, abbassò lo sguardo: capimmo subito che non era abituato a simili atteggiamenti. Diede un bacio affettuoso sulla guancia di Anna mentre a me strinse con vigore la mano che, nella sua, sembrava proprio piccola. In quella stretta, sentii quanto sincero fosse quel saluto. Osservai ancora quelle mani che, oltre ad essere grandi, erano anche un libro aperto sulla sua vita. Erano le tre del pomeriggio di un’incantevole domenica di giugno. Da quel giorno, non ebbi più occasione di rincontrarlo. Una mattina, sfogliando il giornale, vidi l’immagine di Romeo sulla pagina dei necrologi, ci addolorò vedere la sua foto inserita tra la gente scomparsa. Ancora oggi, quando ci capita di ricordare quell’itinerario, un po’ di nostalgia ci vela il cuore e fa luccicare ancora i nostri occhi, immaginando la figura esile e severa di Romeo attraversare, insieme al fratello Cesare, i rigogliosi sentieri del paradiso celeste.



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Racconto scritto il 27/09/2014 - 11:11
Da Massimo Guercini
Letta n.1249 volte.
Voto:
su 6 votanti


Commenti


Qualcuno queste storie del tempo che fu, deve pur raccontarle. Un tempo si viveva così, è giusto che i giovani sappiano, sempre che ne abbiano tempo e voglia. Scritto molto bene.

Franco Melzi 28/09/2014 - 10:13

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Esposizione semplice, ma corretta. Buono l’incipit, belle le descrizioni dei panorami, molto dettagliata la figura di Romeo e commovente la sua storia. Mi piace poi l’idea di sfumare la presenza dell’amata Anna, che inizialmente poteva sembrare la protagonista dell’opera.

Ugo Mastrogiovanni 28/09/2014 - 10:06

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