INCIPIT
Le istruzioni sono:
Da questo incipit scrivi un racconto breve:
Una sera, nella hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: ”La conosco da sempre”.
Una sera, nella hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: ”La conosco da sempre”.
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Magia di una notte
Una sera, nella hall, mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: ”La conosco da sempre”.
< Ne è proprio sicuro? Forse mi ha scambiata per un’altra persona perché non credo di averla mai incontrata >.
Un impercettibile sorriso appare sulle sue labbra mentre infila il suo braccio sotto al mio e mi invita a seguirlo in un’area meno affollata.
E’alto, longilineo, distinto. Indossa un abito grigio chiaro, un’impeccabile camicia bianca leggermente aperta al collo, un paio di mocassini in cuoio. Sportivo ed elegante al tempo stesso. Il viso rilassato e sicuro di sé, incorniciato da capelli cortissimi e argentati che lasciano intravedere la fronte spaziosa interrotta da folte sopracciglia scure e ben disegnate, lo sguardo magnetico, penetrante. Il timbro di voce caldo e inflessibile mi fanno pensare ad un uomo molto determinato.
Cammino al suo fianco immaginando di essere una sua collega di lavoro. Chissà perché mi costringo sempre a trovare una risposta agli sguardi altrui.
Non passiamo inosservati. Potremmo benissimo essere un uomo d’affari accompagnato dalla segretaria.
I miei tacchi fanno apparire più alta la mia statura e assottigliano maggiormente la figura magra e slanciata. Non sono bella, mi hanno sempre definita “un tipo”. Un tipo di che? Non l’ho mai capito. Così come non ho mai capito la definizione: “Carina”. Carina è l’aggettivo per una bambina. Una donna può essere brutta o bella, ma non carina. Comunque non mi sono mai piaciuta. Sono una maniaca della perfezione e non accetto compromessi. Se non posso essere bella e, decisamente neanche brutta, allora potrei definirmi passabile. Accanto a quest’uomo mi sento ”attraente”.
Forse perché lui lo è veramente.
Ci accomodiamo su un divano, nella zona conversazione accanto al bar e, siamo quasi subito raggiunti da un cameriere che ci chiede se desideriamo bere qualcosa.
< Prenderei volentieri un aperitivo, grazie! Un prosecco per me e per la signora…>.
< Un Martini bianco, grazie! >.
< Perfetto, signori, torno subito! >.
Il cameriere si allontana e il mio interlocutore, appoggiando la sua mano sulla mia in modo del tutto naturale, riprende il discorso.
< Tua madre si chiama Virginia Lazzari, non è così? > Dice guardandomi dritto negli occhi.
< Sì, esatto. Ma io non conosco lei. >
< Mi riconoscerai fra poco. Tua madre mi ha sempre parlato di te. Mi ha tenuto informato in tutti questi anni per tutto ciò che ti riguarda. Le scuole che hai frequentato, il lavoro, il matrimonio, i figli… > .
Mentre mi faccio cullare dal suono della sua voce sposto l’attenzione alla colonna di marmo veneziano alle sue spalle.
Mia madre. Quante volte l’avevo implorata di parlarmi di lui. Era sempre stata vaga nelle risposte, sfuggente. Mi aveva anche imposto di non cercarlo mai perché ne sarei rimasta delusa. Perché? Chiedevo, ma lei abbassava lo sguardo e cambiava discorso. Era un muro impenetrabile contro il quale andavo a sbattere continuamente. Nemmeno le mie domande a trabocchetto avevano dato risultati soddisfacenti. Rispondeva sempre con la stessa domanda:
< Ti manca forse qualcosa? >
Mi mancava tutto. Volevo conoscerlo nei dettagli, sapere se assomigliavo a lui, se avevo lo stesso carattere, gli stessi occhi, le stesse mani e soprattutto mi mancava un padre che mi amasse.
Ora conosco le risposte. Guardo lui e vedo me stessa. Le mani grandi, le dita lunghe, il portamento fiero, il modo di gesticolare mentre parla con il tono di voce calmo e controllato anche se nasconde l’emozione e gli occhi dal taglio un po’ a mandorla che non si staccano mai dai miei, quasi a leggermi dentro.
Avrei mille domande da fargli, vorrei conoscerlo davvero, sapere cosa pensa, come vive, se è felice.
Ma il monito di mia madre arriva sfrecciando fra i mille pensieri che si rincorrono senza tregua:
< Non cercarlo, perché ne rimarrai profondamente delusa, lascia perdere. >
Mi stringe le mani fra le sue e mi chiede se può fare qualcosa per me, qualunque cosa.
< Sì, puoi abbracciarmi per favore? >
Sorride, allarga le braccia e, mentre mi stringe a sé, sussurra:
< Solo questo? Non vuoi chiedermi nient’altro? >
< Solo questo >.
< Ne è proprio sicuro? Forse mi ha scambiata per un’altra persona perché non credo di averla mai incontrata >.
Un impercettibile sorriso appare sulle sue labbra mentre infila il suo braccio sotto al mio e mi invita a seguirlo in un’area meno affollata.
E’alto, longilineo, distinto. Indossa un abito grigio chiaro, un’impeccabile camicia bianca leggermente aperta al collo, un paio di mocassini in cuoio. Sportivo ed elegante al tempo stesso. Il viso rilassato e sicuro di sé, incorniciato da capelli cortissimi e argentati che lasciano intravedere la fronte spaziosa interrotta da folte sopracciglia scure e ben disegnate, lo sguardo magnetico, penetrante. Il timbro di voce caldo e inflessibile mi fanno pensare ad un uomo molto determinato.
Cammino al suo fianco immaginando di essere una sua collega di lavoro. Chissà perché mi costringo sempre a trovare una risposta agli sguardi altrui.
Non passiamo inosservati. Potremmo benissimo essere un uomo d’affari accompagnato dalla segretaria.
I miei tacchi fanno apparire più alta la mia statura e assottigliano maggiormente la figura magra e slanciata. Non sono bella, mi hanno sempre definita “un tipo”. Un tipo di che? Non l’ho mai capito. Così come non ho mai capito la definizione: “Carina”. Carina è l’aggettivo per una bambina. Una donna può essere brutta o bella, ma non carina. Comunque non mi sono mai piaciuta. Sono una maniaca della perfezione e non accetto compromessi. Se non posso essere bella e, decisamente neanche brutta, allora potrei definirmi passabile. Accanto a quest’uomo mi sento ”attraente”.
Forse perché lui lo è veramente.
Ci accomodiamo su un divano, nella zona conversazione accanto al bar e, siamo quasi subito raggiunti da un cameriere che ci chiede se desideriamo bere qualcosa.
< Prenderei volentieri un aperitivo, grazie! Un prosecco per me e per la signora…>.
< Un Martini bianco, grazie! >.
< Perfetto, signori, torno subito! >.
Il cameriere si allontana e il mio interlocutore, appoggiando la sua mano sulla mia in modo del tutto naturale, riprende il discorso.
< Tua madre si chiama Virginia Lazzari, non è così? > Dice guardandomi dritto negli occhi.
< Sì, esatto. Ma io non conosco lei. >
< Mi riconoscerai fra poco. Tua madre mi ha sempre parlato di te. Mi ha tenuto informato in tutti questi anni per tutto ciò che ti riguarda. Le scuole che hai frequentato, il lavoro, il matrimonio, i figli… > .
Mentre mi faccio cullare dal suono della sua voce sposto l’attenzione alla colonna di marmo veneziano alle sue spalle.
Mia madre. Quante volte l’avevo implorata di parlarmi di lui. Era sempre stata vaga nelle risposte, sfuggente. Mi aveva anche imposto di non cercarlo mai perché ne sarei rimasta delusa. Perché? Chiedevo, ma lei abbassava lo sguardo e cambiava discorso. Era un muro impenetrabile contro il quale andavo a sbattere continuamente. Nemmeno le mie domande a trabocchetto avevano dato risultati soddisfacenti. Rispondeva sempre con la stessa domanda:
< Ti manca forse qualcosa? >
Mi mancava tutto. Volevo conoscerlo nei dettagli, sapere se assomigliavo a lui, se avevo lo stesso carattere, gli stessi occhi, le stesse mani e soprattutto mi mancava un padre che mi amasse.
Ora conosco le risposte. Guardo lui e vedo me stessa. Le mani grandi, le dita lunghe, il portamento fiero, il modo di gesticolare mentre parla con il tono di voce calmo e controllato anche se nasconde l’emozione e gli occhi dal taglio un po’ a mandorla che non si staccano mai dai miei, quasi a leggermi dentro.
Avrei mille domande da fargli, vorrei conoscerlo davvero, sapere cosa pensa, come vive, se è felice.
Ma il monito di mia madre arriva sfrecciando fra i mille pensieri che si rincorrono senza tregua:
< Non cercarlo, perché ne rimarrai profondamente delusa, lascia perdere. >
Mi stringe le mani fra le sue e mi chiede se può fare qualcosa per me, qualunque cosa.
< Sì, puoi abbracciarmi per favore? >
Sorride, allarga le braccia e, mentre mi stringe a sé, sussurra:
< Solo questo? Non vuoi chiedermi nient’altro? >
< Solo questo >.
Sei la magia di una notte, il sogno di una vita, sei l’infinito punto di domanda che rimarrà senza risposte, ma sono certa che, da qualche parte, in un punto imprecisato del pianeta, esista l’altra metà di me stessa e… se adesso apro gli occhi, è anche merito tuo.
Scrittura creativa scritta il 14/08/2014 - 14:24
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Commenti
Grazie a tutti voi per i commenti, molto graditi. Ad essere sincera sono stata tentata di togliere il pezzo con le ordinazioni, perché non convinceva neanche me. Poi ho optato per lasciarlo perché nel contesto serviva a sdrammatizzare il momento. Del resto, si sa... i sogni sono frutto dell'immaginazione, non sono teleguidati e può accadere di tutto, anche le cose più strampalate! Mi serviva uno spunto per descrivere un "desiderio" inappagato e mi è stato suggerito dall'incipit della redazione. Grazie di cuore a tutti per esservi soffermati a leggere.
Candlelight Candle 18/08/2014 - 15:38
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Lo so che gli uomini, di solito, nei momenti imbarazzanti preferiscono mascherare le loro emozioni...Io, mio Padre, non avrei voluto incontrarlo, per la prima volta, in una hall di albergo, col solo paravento di un...prosecco per lui, un Martini per me. Ma forse, a sottolineare le mie impressioni, è la fluidità del racconto, questa senz'altro encomiabile.
Vera Lezzi 15/08/2014 - 09:16
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ciao , l'unica cosa che non mi è piaciuta , il Martini Bianco, io
preferisco il Rosso, x il resto ci sta,
ciao da Salvatore
preferisco il Rosso, x il resto ci sta,
ciao da Salvatore
salvatore alvaro 14/08/2014 - 20:06
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Un racconto che si veste di poesia in un atmosfera romantica. Fantastico.
Rocco Michele LETTINI 14/08/2014 - 17:53
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