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Sei ancora qui? (Seguito precedente racconto: Sei tu il mio redentore?)

Dovere fuggire da tutto e mai scappare, dovere rincorrere tutto e mai raggiungerlo. Le gambe volano quanto più possono estenuarsi, solo ad immaginare con quale velocità, tutti m'invidierebbero per essere loro vincitori in qualsiasi gara; ma questa mia velocità gira a vuoto. Solamente rimane dolore, gemono le gambe dall'immenso sforzo, ma non riescono a muovere il corpo, veloci sono le gambe da superare i massimi velocisti del secolo ventunesimo. Inutilmente si scaldano le gambe, ma tremano per la fatica, un remare nell'aria, la mente è sgomenta. Cedono le ginocchia, finché sprofonda il busto a terra, non sorretto, si insudicia della melma rimasta dalla liquefazione degli arti. E qui arrendersi alla belva che ti braccava; e da qui vedere gli amici che ti hanno seminato.
E si ripetevano i sogni della corsa, diverse e molteplici situazioni nello stesso arido luogo con la stessa tipicità: tutti mi braccavano, tutti mi fuggivano. Un luogo che fu verdeggiante, adesso col suo fango raggrinzito di un giallo oscuro, la vasta uniformità della sete. Incontrai stavolta un viandante, camminava spedito e leggero, si fermò dinanzi al mio orgoglio. Mi vide pronto e deciso, dinamico in mezzo al nulla, sempre fermo sulle gambe ben allenate alla corsa che m’aspetterà.
«Di nuovo?», mi chiese.
«Eternamente», risposi. Egli esibì il suo corpo agile, la sua assenza di fatica, la non necessità di bere, e mi fece penetrare nella profondità dei suoi occhi, mi colse il terrore di una profonda tristezza, e l'uomo sparì. E di nuovo morivano le mie gambe, e m'ero preparato alla corsa, ancora sicuro di vincere tutte le competizioni. Gli amici mi seminavano, incombevano le belve.
Il viandante ritornò, ma fu come se lo vedessi per la prima volta. Gli stessi sogni mi si presentavano sempre nuovi. Quell'uomo mai lo riconoscevo, come egli mai mi riconosceva. Ma una volta si mise a parlare fra se, io ero solo un contorno appartenente a quell’ambiente.
« Dolci compagni trascinavo nel cammino così amabili ma deboli. L’ invitai a proseguire, insieme, li presi in braccio ch’ erano leggeri, ma divennero stanchi e pesanti. Vidi la mia colpa, perché io ingrossai umili sogni, di sosta in sosta, di più illusioni, di falso poi li rivestii. Commiato diedi loro nel crocicchio. Dolore da chi mai fu da me separato. Ciascuno prese la sua bisaccia e un miraggio tra me e loro mai più apparve nel vedere il mondo. Ed ora penso come insieme fummo disprezzo, eppure li nascondevo, anche se mi affollavano il petto. Ma tra la folla si mescola ogni male; superbe, sempre al loro seguito, le paure m’ hanno fatto temere. Le lasciai con loro. Chi ci separava non capirono, ma con flebile speranza, tra me dissi: qualcuno di loro mi ritroverà nelle ore di luce. Ma ora scoraggia questa tenebra che spegne la vita; questa fiamma che attinge dalla riserva, d' impeto una fiammata, e poi si spegne e mi fa vagare nel nulla, il resto è arso. Nasconditi, mondo, o brucia! E minacciata dai tuoni, colpita dal lampo, assediata la terra dalla flotta oscura, lo spirito risvegliai, e sommerso dalla pioggia dico: è questo il buono del mondo. Cedimi quel lampo di vita dallo spregio rapito. Iniziai bene quando ho barato nella prova Americans bastards. Ti ricordi il film Apocalypse now? Charlie col megafono insultava, voleva intimorire gli americani sotto le bombe. Il fuoco, i fumi, le esplosioni tra morti e lamenti, col nemico che ti grida al megafono bastardo e finocchio. Immergiti in questa situazione quando devi scegliere la tua via, se t'accorgi che neanche le bombe ti distoglieranno da quel libro, da quel lavoro, da quel pensiero, da quello strumento, ebbene, la strada è per te. Vedi, se pigli un indirizzo con padre e madre a mantenerti, con una media intelligenza riuscirai a terminare il percorso, e pure ottimamente, prescindendo dall’attitudine; ma devi pensare all’imponderabile futuro: potrà accadere di perdere un padre, la madre, tutta la famiglia, o tu stesso potresti essere divorato dalla malattia, o dalle umiliazioni, se, sommerso da ogni tipo di preoccupazione, continui a non toglierti dalla testa di risolvere quel problema irrisolvibile, di dare forma ad una ottima traduzione, di completare quel disegno, di terminare quel progetto, di non staccarti da quella storia, e così via per tutto quello che si fa, allora la strada è la tua. Un rimase fisso nei suoi calcoli mentre gli annunciavano la morte della moglie.
«Dovresti chiamarla la prova di Gauss».

La notte era un continuo di messaggi di qualcuno su qualcosa. Ma capii che ero io ad esaminare me stesso. Tutte le notti, per una settimana intera, furono uno sforzo cerebrale che m’impediva di vivere una giornata serena, efficiente, finché decisi di mettermi per alcuni giorni in malattia. Ed in questo tempo, come era mio desiderio, non vidi nessuno, tranne il dispiacere di mio padre nel vedermi inerme, senza attitudine alla reazione. Fu esso a consigliarmi di trasferirmi per un po' di tempo in un altro paese, magari lo stesso dove insegnavo. Apprezzai e convenni che era la soluzione giusta. Ritornò una gioia inaspettata, e pensai a Lucilla, gli telefonai mostrandogli tanto entusiasmo che la feci rallegrare. Esposi i progetti per i prossimi giorni e lei fu d’accordo, perfino mi consigliò una casa di una sua parente che, emigrata da anni, teneva sempre chiusa in quel paese di Casalvecchio Siculo.
«Ci vediamo domani stesso davanti alla casa», così Lucilla mi salutò.


Nessuna preoccupazione per i giorni a venire, e ripensai a un giorno qualunque, trascorso felicemente con Lucilla, che s’era gettata tra l’erba fresca, profumata; e nascose al mio sguardo la sua forma leggiadra tra la reclinata vegetazione, immaginai lei immersa a guardare il cielo, e il cielo immaginai nei suoi occhi impresso.


Quale ai prati lieve forma compagna
d'amore adagia! vedi l'eguale ordire
d'intrecce fronde, l' adorna abbellire
chioma con più fattura, come bagna
pioggia perenne l'arsa inter campagna,
da laghi a rivi fin marine spire,
ch' ora rugiada vuole al cielo fluire,
la maggiore purezza a sé guadagna.
È d'amar sempre e nuovo il cogli l' atto,
intona gli antri l'eco del bel canto.
Ritorna un soffio, supplica la voce,
or prova il senno chi tu credi il matto,
a novellar le gesta cresce vanto:
risponde, e cheta il rugghio più feroce.
Il giorno dopo io e Lucilla eravamo dinanzi alla mia nuova abitazione, m’infornò che sua zia richiedeva un fitto simbolico.
I miei giorni passarono con le solite lezioni d’italiano e storia finché in un giornale della provincia comparve il titolo: Gli alunni scoprono di avere l’insegnante violento. Shock alle medie. L’educatore dei ragazzi a processo per violenza su animali. Da noi contattato si rifiuta di rispondere.
Non potevo credere che quell’articolo si riferiva proprio a me. Ma purtroppo lo era, il mio nome era ossessivamente ripetuto frammezzo l’articolo. Sprofondai in una tremante tristezza, entrai in classe temendo lo sconcerto degli studenti, il loro volto atterrito. Ma quel titolo era fuorviante, nessun alunno sapeva che io ero indagato per quello scempio che li avrebbe scioccato; e nemmeno i miei colleghi, ma il preside mi convocò. Io entravo nel suo ufficio e lui rideva, disse: «Ho davanti a me il terrore dei micetti, ti chiamerò “Pepe o sfracellatore”». E così lui mi trasse dalla tristezza che stava per inghiottirmi, mi tirò fuori un sorriso.
«Per favore non ridere», continuò il preside, e soffocai il sorriso, ma quell'uomo, che fino a pochi secondi prima fu per me un che di autorità abusava spregevolmente, divenne l'uomo giusto e buono; simpaticamente inaspettato ora mi veniva quel suo dispregio costante per le regole sia statuali che etiche. Non so se fosse una battuta, ma mi confidò la sua passione per il tiro al piattello. « Qualche volta dovresti venire con me al tiro a segno», disse,« Lancerai in aria degli esseri viventi...».
E via con battute sadiche d'ogni genere, mi venne il dubbio se il suo scopo non fosse altro che quello di molestarmi in un punto dolente o: cercava di provocare una mia confessione? Se non fosse che nello stesso momento egli, rispondendo alla telefonata della giornalista autrice dell'articolo, disse: «No, aspettiamo che la giustizia faccia il suo corso, nel mentre i gatti stiano alla larga dalla mia scuola». E allora capii che la sua era una avversione sincera contro gli inquisitori, mi congedò consigliando di travestirmi da gatto quando fossi uscito da scuola, oppure di stare guardingo e con passo felpato. Cosa cambiava? Ma quel consiglio mi rivelò la sua acutezza mentale, e fu una previsione per il futuro. Se travestirmi esplicitamente da animale non potevo, imitare il comportamento sfuggente del gatto mi sarebbe stato davvero utile in avvenire, ecco: trasformati nella tua vittima. E proprio oggi, dopo tanti anni, vorrei chiedergli se credesse che io fossi davvero colpevole di quel misfatto, poiché mi trovai nella assurda situazione di stimare ed amare un uomo che altrimenti non avrei mai apprezzato. E tutto perché egli, ritenendomi colpevole, ha trovato un sodale, compresi le parole del salmo: «Poni una custodia alla mia bocca, sorveglia la porta delle mie labbra. Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori».
Eseguii alla lettera i consigli del mio preside. Finite le lezioni, ricercai e mi annotai le varie porte secondarie: nelle scale v'era una per l'uscita d'emergenza con le maniglie antipanico, faceva comodo per l'oggi, ma pensai di dover ricercare una che mi consentisse d'entrare inosservato oltre che uscire; feci un sopralluogo di tutto l'edificio con la mente, allora mi ricordai della palestra, che sin dai primi giorni d'ingresso ricordavo ogni mattina aperta. La raggiunsi in fretta, e i miei alunni facevano i loro esercizi ginnici sotto la guida del professore che mi dava le spalle, compivano gli allungamenti, in posizione piegata s'afferravano le caviglie, e guardavano tutti il pavimento, fui sollevato, comodamente percorsi la linea di bordo campo, ma all'ordine: «In piedi, posizione eretta», tutti mi notarono ed uno ebbe l'ardire di chiamarmi, in seguito fu un coro di «Professore dove va?»; il professore d'educazione fisica, prima di rimproverarli si assicurò di che cosa si trattasse, mi salutò, così poté perdonare l'insubordinazione. Io nascosi il mio imbarazzo con un sorriso demente.
Ed in ogni angolo vedevo un cronista in agguato, un poliziotto pronto ad arrestarmi, un ragazzetto che mi canzonava. Mi ero deciso di convincermi che, in fondo, la mia era solo una ossessione, un piccolo sintomo che se non l'avessi serrato sotto miglior consigli, sarebbe esploso in patologia seria. Accettai di considerare ogni sottinteso, riso, sorrisetto e allusione, come realtà deformata. Sguardi, parole, atti, tutti deformati dal mio stato psicologico momentaneo; ma nello stesso momento risposi al telefono ed era mio cognato, con la sua buona dose di sdegno, terrorizzato per l'eventualità che i suoi avversari potessero scoprire il suo legame stretto con l'assassino degli animali, per colpa mia la sua campagna elettorale può andare in malora. E tornai di nuovo a tormentarmi: allora non è una ossessione, la gente mi odia e di un odio incommensurabile. Ma lo sdegno di mio cognato mi diede delle ore di reazione orgogliosa, e mi consentì di addormentarmi profondamente per tutta una notte, per svegliarmi come una tigre e affrontare senza timore degli infimi esseri.
Ma le indagini continuavano: quella della burocrazia giudiziaria, quella del chiacchiericcio collettivo, e quella della giornalista che voleva far luce su di uno scandalo inconcepibile. E s'era appostata lì, davanti alla ringhiera della scuola, una signora con un taccuino in mano, cercava il modo di entrare; io vedevo che il bidello, signor Remiro, gesticolando nervosamente, la cacciava dal cancello d'ingresso, da lontano poi io potevo vederla allontanarsi, circumnavigava il perimetro del cortile, forse per trovare un nuovo varco; allora mi preparai alla corsa dissimulata: se quella avesse trovato il varco della palestra sarei entrato dall'ingresso principale. Appena la vidi scomparire nell'angolo, m'avviai di scatto e però l'orario, abbondantemente superato d'inizio lezioni, mi obbligava ad attendere innanzi al cancello serrato, suonai il campanello, mi misi a tremolare per l'agitazione e stavolta la paura m'appariva davvero reale. E il bidello ancora non apriva. «O no!», la signora tornava e «Signore, signore!», richiamava la mia attenzione, il panico prese il sopravvento, corsi per raggiungere l'entrata della palestra, ma la signora non m'inseguì. Fortunatamente, quando io scappai, il cancello automatico iniziò ad aprirsi e durante il passaggio della cronista fu quasi completamente aperto, lei s'infilò, ed io, fermatomi ad osservare, dopo un poco vidi uscire il bidello arrabbiato che gettava improperi verso la signora. Mi sono tranquillizzato, ma compresi pure quanto ero poco furbo: come avrebbe potuto sapere che ero io il criminale ambito? Sono fuggito se non per destare sospetto. Ma inavvertitamente, col maldestro tentativo di fuga, ottenni di sviarla dall'entrata segreta. La porticina della palestra, sul retro, era sempre accostata nelle mattine di lezione, mi venne il sospetto se altri non usassero quella porta di servizio per le loro non rivelabili attività, e finii per esserne davvero convinto entrando in palestra: nessuna lezione di educazione fisica era in corso. Raggiunsi la mia classe, affannato non per la stanchezza ma per le palpitazioni derivanti dall'apprensione. Ero terrorizzato anche di fronte ai ragazzini; entravo, e gli alunni, alzandosi come al solito, per nulla mostravano rispetto nei miei confronti: fu un riso indistinto, una massa d'acqua che da più sorgenti si univa a travolgermi; dovevo prenderli tutti e gettarli fuori a calci, tappare ad una ad una quelle cave di veleno; non ebbi il coraggio di interpellare una di quelle bocche, tutte contenenti lingue che, a discapito delle età, riscontravo maligne. Si risedettero ed io fuggendo sguardi diretti, dall'alto spiavo la classe per valutare eventuali assenze dai banchi vuoti, ma l' arena era stracolma di spettatori per l'ultimo spettacolo, tutti presenti. A nulla valse il solito artificio della paranoia da scongiurare, la finzione che tutto va bene, che tutto m'invento nella mente. Iniziai a risentire il miagolio, ad incrociare occhi perversi, a percepire una risatina. Sprofondai nella mia cattedra; nessuna simpatia esisteva in me verso quegli esseri, li odiai, non si rendeva doverosa alcuna reazione per instaurare la mia autorità, non m'era necessario conservare il mio posto tra quegli esseri: richiusi il registro, afferrai la borsa e me ne andai.
Franco




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Racconto scritto il 07/07/2020 - 18:09
Da Franco Tommaso
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