Metà uomo e metà moto-carrozzella: Emilio era un personaggio mitologico. Un incrocio tra la figura di un eroe leggendario e la modernità delle strade che correvano veloci intorno a lui. La sua presenza era inconfondibile: sulla sua sedia a rotelle adattata, con la parte anteriore che si fondeva con il motore di un vecchio “Surace”. Perché avesse perso le gambe non lo ricordo bene; forse una malattia giovanile, o per lo stupido gioco di saltare sul tram in corsa nel secondo dopoguerra. Di certo, a suo modo, si sentiva invincibile, come un centauro moderno, padrone della strada e di quel piccolo mondo che aveva saputo costruire intorno a sé.
Era un grande consumatore di enigmistica, con un gusto particolare per l'indovinello. Non c'era giornata che non trascorresse con la testa china sul suo quaderno, cercando di risolvere giochi di parole o numeri misteriosi. Ma il vero piacere per Emilio non risiedeva solo nel risolverli, ma nel creare enigmi, nel fare domande che obbligavano chi le ascoltava a riflettere a lungo, a ragionare sui dettagli, a mettersi alla prova. Non per niente lo chiamavano il "maestro degli enigmi" nel paese.
Un giorno, mentre sedeva sul muretto della casa sul viale del Tirreno, proprio sotto la vecchia pianta di ulivo che il vento aveva inclinato verso sud, fece due cerchi perfetti con il gesso. Poi, con un sorriso enigmatica, mi guardò e disse: “Uniscili per formare il numero 8”. Non capivo subito dove volesse arrivare, ma provai ugualmente. Cercai di unire i due cerchi nella maniera che mi sembrava più ovvia, ma qualcosa non andava. I cerchi rimanevano separati, come due mondi paralleli che non potevano congiungersi. Mi concentravo, cercando di trovare una soluzione, ma ogni tentativo sembrava fallire. “Va bene, mi arrendo”, dissi, ormai rassegnato.
Lui non disse nulla, ma con un gesto rapido e preciso, afferrò il gesso e scrisse sopra i cerchi due lettere, tracciando due T tra di loro. “OTTO,” disse, sorridendo soddisfatto. In quel momento, tutto mi apparve chiaro, ma anche un po’ più complicato: il numero 8, simbolo dell’infinito, si era formato non solo con la connessione dei cerchi, ma con un gesto che univa un'idea matematica a un gioco di parole. Ogni suo enigma, anche il più semplice, racchiudeva una piccola lezione sulla vita, su come a volte le risposte non siano mai scontate e che la bellezza di una soluzione risieda nell’approccio inusuale e curioso.
Poi, senza dire una parola di più, si alzò con agilità dalla sua sedia, avviò il motore del “Surace” e infilò lo scivolo. Il suono acuto del cinquantino si disperse nell'aria mentre si allontanava, dirigendosi verso il paese. Lo vedevo scomparire in lontananza, la sua figura metà uomo e metà macchina che si fondeva con il paesaggio, come un centauro moderno, padrone della strada e della sua stessa leggenda. Era come se Emilio non avesse bisogno di alcuna risposta definitiva per ogni enigma che creava; il suo essere, il suo modo di vivere, erano già la risposta.
Era un grande consumatore di enigmistica, con un gusto particolare per l'indovinello. Non c'era giornata che non trascorresse con la testa china sul suo quaderno, cercando di risolvere giochi di parole o numeri misteriosi. Ma il vero piacere per Emilio non risiedeva solo nel risolverli, ma nel creare enigmi, nel fare domande che obbligavano chi le ascoltava a riflettere a lungo, a ragionare sui dettagli, a mettersi alla prova. Non per niente lo chiamavano il "maestro degli enigmi" nel paese.
Un giorno, mentre sedeva sul muretto della casa sul viale del Tirreno, proprio sotto la vecchia pianta di ulivo che il vento aveva inclinato verso sud, fece due cerchi perfetti con il gesso. Poi, con un sorriso enigmatica, mi guardò e disse: “Uniscili per formare il numero 8”. Non capivo subito dove volesse arrivare, ma provai ugualmente. Cercai di unire i due cerchi nella maniera che mi sembrava più ovvia, ma qualcosa non andava. I cerchi rimanevano separati, come due mondi paralleli che non potevano congiungersi. Mi concentravo, cercando di trovare una soluzione, ma ogni tentativo sembrava fallire. “Va bene, mi arrendo”, dissi, ormai rassegnato.
Lui non disse nulla, ma con un gesto rapido e preciso, afferrò il gesso e scrisse sopra i cerchi due lettere, tracciando due T tra di loro. “OTTO,” disse, sorridendo soddisfatto. In quel momento, tutto mi apparve chiaro, ma anche un po’ più complicato: il numero 8, simbolo dell’infinito, si era formato non solo con la connessione dei cerchi, ma con un gesto che univa un'idea matematica a un gioco di parole. Ogni suo enigma, anche il più semplice, racchiudeva una piccola lezione sulla vita, su come a volte le risposte non siano mai scontate e che la bellezza di una soluzione risieda nell’approccio inusuale e curioso.
Poi, senza dire una parola di più, si alzò con agilità dalla sua sedia, avviò il motore del “Surace” e infilò lo scivolo. Il suono acuto del cinquantino si disperse nell'aria mentre si allontanava, dirigendosi verso il paese. Lo vedevo scomparire in lontananza, la sua figura metà uomo e metà macchina che si fondeva con il paesaggio, come un centauro moderno, padrone della strada e della sua stessa leggenda. Era come se Emilio non avesse bisogno di alcuna risposta definitiva per ogni enigma che creava; il suo essere, il suo modo di vivere, erano già la risposta.

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