che t’inerpichi fra i filamenti del mio lamento
e biascichi al vento ninnenanne di morti,
mi spingi verso un confine sconosciuto
dove esequie ed effigi dorate si alternano all’oblio.
Ho oscurato i pensieri con manti di avi
che hanno combattuto d’onore
ma io non sono mai stato un degno soldato,
non ho lasciato gli occhi tra i seni di Coppelia
né bevuto il veleno di Giove.
Com’è cruento quest’apolitico rimorchio di leggi
che scavano come tarli tra i semi del cuore,
e non fu un dio a liberarci dalle ossessioni
ma la follia ci diede in dono una spada,
una lucente piaga tra le mani annerite.
Portammo stole di sacerdoti ignari
e demmo ai figli di Gerusalemme
le chiavi delle messe profane.
“Aprite le terre,
derubate le fortezze
voi generali sconvolti da battaglie infami!”
Poi le lingue furono dolci vipere di sinedri
e tu, amata creatura dai capelli invecchiati,
mi davi le spighe di prati modesti
ed io non guardavo oltre i tuoi occhi
e il tuo pensiero faceva nodi sui miei capelli,
seppelliva il respiro e benediva il mio cuore
con pulsazioni defunte.
Amami ora che la notte ha chiamato gli dei.
Amami qui sul fango di Minerva.
Butta ogni censura tra le mie mani inermi,
sarà l’apocalisse che danzerà sui demoni!
Noi saremo linee di papaveri,
daremo forza a blasfeme poesie
noi saremo l’attimo di pioggia
addormentato in una rosa.
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