L'opera “Filumena Marturano” del 1946 di Eduardo De Filippo è forse la più conosciuta del grande drammaturgo napoletano. Ha in sé la rottura di diversi schemi che caratterizzano il teatro del dopoguerra e pone le basi ad un modo diverso di concepire il teatro come premessa di sviluppo della vita sociale e non già come intrattenimento piacevole davanti ad un fatto di cronaca oppure rispetto ad un dramma dai contenuti e dall'intreccio interessante ed avvincente. Entra nel tessuto sociale dell'Italia di quel tempo dal momento che sia le autorità ecclesiastiche che politiche ne fecero parte attiva. Pio XII ospitò la compagnia in San Pietro per una breve rappresentazione (la preghiera alla Vergine) esponenti governativi e parlamentari assistettero ad una rappresentazione. Da dove nasce questa attenzione per quella che era solo un'opera teatrale? L'idea non era neanche troppo originale, tutto in teatro si ripete e si rinnova: storie di prostitute mantenute e riabilitate si hanno ne “La signora delle camelie” da cui si ispirò Verdi per La Traviata” in Pirandello ne “L'abito nuovo” ed anche De Filippo stesso aveva utilizzato il tema nella piece “Sarà stato Giovannino” da cui si trasse anche un film del 1935 dal titolo “Sono stato io”. Il dramma nasce da una consuetudine cattolico-perbenista di perfezionare un matrimonio in extremis di una donna perduta, anche questo argomento già visto in cinema nel 1942 con “Stasera niente di nuovo” in cui il pathos e la commozione per una donna che muore munita dai conforti religiosi viene salvata e riscattata da una vita aspra. Ma Eduardo rivolta le consuetudini sceniche e rinuncia alla scena madre e rende la malattia finzione ma porta la scena al momento immediatamente successivo: quando tutto è già accaduto e Filumena si è già alzata ed è già il tempo di litigi e recriminazioni. La storia in breve è questa: Domenico Soriano, figlio di un commerciante proprietario di una pasticceria e che a sua volta ha incrementato la sua fortuna con numerose vincite alle corse dei cavalli, toglie dalla casa di tolleranza Filumena Marturano e per 25 anni la tiene con sé, prima con aiuti in denaro, poi segregandola in una casetta in un piccolo paese della Campania e infine accogliendola nella sua casa ma con la dovuta distanza a causa della “reale situazione” esistente fra i due. Nel frattempo fa la sua vita, ha moglie, rimane vedovo, in seguito ha molte storie d'amore e, ipocritamente, sposa la compagna di una vita solo quando questa viene creduta in punto di morte. Si tratta però di una finzione: Filumena vuole farsi sposare per avere un nome, una famiglia e la meritata sistemazione sociale per sé e per i suoi tre figli, tutti nati da frequentazioni occasionali. Drammaturgicamente la storia sarebbe il passaggio da una consapevolezza e da una maturità che la donna ha sempre avuto per averla conosciuta dalla miseria (“tieni tredic' anni ti stai facenn' gruossa e cca' non ci sta che mangià”) ricordatagli dal padre, dalle differenze di condizione con le amiche che la iniziarono (“Incontrai na cumpagna do' mia ca manc' a' ricunuscette tanto stava vestuta bene ma all'epoca ma parette bell' qualunqua cosa e me dicette: vien' cu' mme) e dalla pratica di strada che le nega ogni bene ed ogni affetto ma la rende fredda calcolatrice, aggressiva e capace di bastarsi da sola anche e soprattutto economicamente. Di contro Domenico Soriano, personaggio cui l'autore trae ispirazione non confessa dal maggiore dei suoi fratellastri e comunque il gaudente ricco ipocrita e prepotente era un prototipo abbastanza presente nella vita quotidiana della Napoli del tempo. Anche qui Eduardo ha una intuizione diversa dal consueto: non basta più un pentimento con lacrime in punto di morte per il riscatto, è necessaria la consapevolezza di un gesto, un matrimonio che non è un semplice “sì” davanti ad un sacerdote più o meno convinto per implicazioni morali o religiose ma l'assunzione di un impegno da assolvere con serietà e coscienza. Metaforicamente Domenico Soriano è la società che deve fornire le basi di sostentamento ad un territorio ed ai suoi elementi. I figli di Domenico Soriano, solo uno è veramente suo (altra intuizione drammaturgica geniale dell'autore, balenatagli anche in circostanze del tutto casuali: la sua gatta Bellella che gli salta fra le carte mentre scrive) dicevo, questi figli altro non sono che gli stati sociali cui tutti apparteniamo: uno scrittore, un operaio, un commerciante e tutti e tre hanno diritto a mettere a disposizione con profitto le loro competenze. In questo la modernità dell'opera. La centralità della donna che conosce i fatti del mondo prima di altri per saperli vivere e soffrire visceralmente (Eduardo ebbe tanta paura del personaggio, lo voleva reprimere per paura di essere censurato, le prime rappresentazioni a Napoli andarono maluccio, esplosero nel successo solo quando si convinse a liberare dai gioghi mimici e linguistici la sorella Titina facendone un personaggio epocale). Questo sentire intimo della donna in modo comico, aggressivo, petulante, matriarcale, timido, commosso, apprensivo, amorevole, camorreggiante e triviale è un punto di partenza anche oggi ma deve essere seguito da una società che avrebbe in sé bellezze e mezzi per esprimere il meglio. La sua destinazione naturale devono essere le classi sociali: chi sa vendere producendo ricchezza, gli uomini di cultura e i ceti meno abbienti in grado di esercitare lavoro manuale. Non già una reggenza gaudente capace solo di guardarsi allo specchio incurante degli anni che passano, che non sa crescere e non matura mai. Assolutamente non una lettura della situazione politica ma una presa di coscienza di uomini che non lo sono ancora. Le donne sì, quasi tutte. Ma è logico, pagano di persona.
Racconto scritto il 03/09/2014 - 19:39
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