Nemici, amici.
C’è sempre stato un rapporto di odio e amore fra noi due. Fin dal primo istante. Eri ancora cucciolo ma con un carattere ben determinato. In un primo momento ti avevo definito un essere tenero e smarrito, col tuo manto bianco e morbido e qualche macchia beige sparsa qua e là, le orecchie basse e gli occhi tristi. Ma eri solo spaventato dai petardi e dai fuochi d’artificio che erano stati sparati durante la notte di Capodanno. Chissà poi come eri arrivato in quel locale mischiandoti fra gli invitati un po’ alticci che si dimenavano in chilometrici trenini con tanto di cappellini e trombette!
La tua prima dimora era stato il garage di mia zia. Fu proprio lei a trarti in salvo dall’essere calpestato da qualche tacco vertiginoso. Non potendo tenerti con sé perché già condivideva il suo appartamento con due gatti, un setter nero e me, chiamò in causa Mauro, il mio fidanzato.
Fu amore a prima vista fra voi due. Anche se, a causa di sua madre, che non voleva animali in casa, ti accolse un’altra famiglia, il vostro destino era già segnato.
Non eri felice in quella casa. Troppe persone sempre di corsa, troppo indaffarate per fermarsi a giocare con te e persino troppo occupate, ognuno con la propria vita, per insegnarti le regole basilari. L’assurdo era stato ritrovarti legato al tavolo della cucina continuamente sgridato perché non facevi capire quando era il momento di espletare i tuoi “bisognini”.
A Mauro furono sufficienti pochi minuti per capire la tua misera condizione. Slegò il laccio che ti concedeva 70 cm. di libertà, ti prese fra le mani e guardandoti dritto negli occhi disse:
- Non meriti una vita così, ti porto con me. -
Sua madre non ti accolse con il sorriso sulle labbra, ma lui fu irremovibile nella sua decisione di adottarti. Da quel giorno siete diventati l’uno l’ombra dell’altro. Eri talmente piccolo che ti portava ovunque andasse rinchiuso nel suo giubbotto invernale come fosse il caldo marsupio di mamma canguro. Ti sentivi protetto, al sicuro e ascoltavi il suo cuore battere così come avresti sentito quello di tua madre se ti fossi addormentato nel suo grembo. Ogni tanto lui abbassava la cerniera per paura che non potessi respirare a sufficienza e tu facevi capolino appoggiando la testolina fra i due lembi dell’accogliente marsupio. Eravate tenerissimi insieme e attiravate l’attenzione dei passanti che spesso si fermavano estasiati a guardarvi. Restavi immobile, in posa, finche qualche sventurato non allungava la mano per accarezzarti e lì facevi bella mostra del tuo singolare caratterino digrignando i denti e scoraggiando anche il più temerario. Neanche io, l’altra metà dell’antica coppia, osavo toccarti quando eri tanto vicino a lui perché eri aggressivo anche nei miei confronti.
Ti eri anche preso il mio posto in auto e viaggiavi accucciato sul sedile accanto al posto di guida. Il sabato pomeriggio quando venivate a prendermi e aspettavate sotto casa, capitava spesso che, nell’aprire la portiera, trovavo ad accogliermi il sorriso del mio fidanzato e i tuoi denti in bella mostra, quasi a dirmi:
- Se mi tocchi, ti mozzico! –
- Ok, ok! Come non detto… mi siedo dietro! – richiudevo la portiera e salivo in auto come un’ospite. Il tuo spirito libero ti ha sempre reso speciale, un esserino unico, senza precedenti e senza uguali, ti distinguevi in ogni occasione. Instancabile maratoneta dal corpo tozzo e zampette corte correvi senza sosta fino allo sfinimento e, solo allora diventavi tenero e ti lasciavi accarezzare, mentre scivolavi in un sonno mai tranquillo. I tuoi sogni erano burrascosi e ti regalavano tremori e lamenti. Hai distrutto tutto quello che hai trovato sul tuo cammino. Scarpe nuove e vecchie erano la tua passione e riuscivi a farla in barba a tutti perché trovavi sempre un nascondiglio dove consumare il tuo “bottino”. Senza contare due milioni (in lire) di danni per aver completamente distrutto a morsi l’interno dell’auto, lasciando intatti solo i sedili!
La biancheria stesa ad asciugare era un altro dei tuoi passatempi e sceglievi con cura spietata solo uno dei due calzini, lasciandoli tutti senza compagno. Urla, rimproveri e pacche sul sedere con il giornale arrotolato, non servivano a gran che perché ripartivi subito a caccia della prossima preda. Non si salvava neanche la biancheria dei vicini, avevi trovato il sistema di intrufolarti nel loro giardino passando sotto la rete di recinzione e non solo! Sei riuscito a togliere le mutande di plastica a Sissi (la loro cagnolina in calore) e metterla incinta. Ma eri talmente adorabile con quelle pagliuzze dorate che facevano brillare i tuoi occhi e, mentre restavi in attesa della reazione che avevi scatenato o del possibile castigo, piegavi la testa da un lato e solo quando eri certo d’aver ottenuto il perdono, ti prostravi a leccare gambe e mani, come a promettere che da quel momento saresti diventato buono.
Sì, buono! Sei sempre stato una peste! Il terrore di tutti i portalettere che puntualmente aggredivi aspettandoli mansueto finche non imbucavano la posta e poi ti avvinghiavi ai loro calzoni.
Ricordo ancora, un sabato pomeriggio, dopo una settimana interminabile di pioggia, si era formata un’enorme pozzanghera nel vialetto che divideva la nostra casa da quella dei vicini. Noi lavoravamo nello scantinato e tu stavi dormendo avvolto nell’inseparabile copertina di Snoopy dentro la cesta e, all’improvviso il suono del campanello a mettere scompiglio. Lo sventurato, un testimone di Geova, in un impeccabile vestito a giacca marrone scuro, ridotto uno straccio bagnato e infangato dopo averlo rincorso attraverso quell’enorme pozzanghera! Non era mai stato umiliato tanto in vita sua! Non accettò neppure di essere rimborsato per le spese di lavanderia pur di allontanarsi in fretta e tornare a casa! Mi sono sempre dovuta scusare con tutti a causa tua e tu continuavi a prediligere Mauro a me. Ma poco importava. Mi ero prenotata per avere un bellissimo cucciolo di pastore tedesco che sarebbe stato “solo mio”.
Poi arrivò una meticcia, simile a un Pincer, che in realtà doveva essere ospitata solo per qualche giorno, in attesa che fosse adottata da una signora, che tuttavia non si decise mai. Il primo “calore” fu fatale. Sfornò quattro cuccioli di cui il primo era la tua esatta fotocopia! Trovammo una destinazione per due di loro, ma non riuscimmo a separarci dai rimanenti. Ci ritrovammo così con cinque cani, un lavoro in proprio che ci assorbiva interamente per sei giorni e mezzo la settimana, la responsabilità di 5 apprendisti tutti “under sedici” e l’inizio della condivisione di una “vita a due”.
Non fu per niente facile trovare il sistema di conciliare tutto in una sincronizzazione di tempo e spazio, ma la nostra giovane età ci favorì con un dinamismo inaspettato.
Tu non cambiavi mai, neanche col passare del tempo, nemmeno con la consapevolezza di essere diventato padre, restavi ingestibile. Il terrore di quasi tutti i fornitori che suonavano il campanello per consegnare il materiale, escluso uno: il signor Cremonesi, soprannominato “gigante buono”. Alto 1,90, occhi azzurri, capelli radi e bianchi. Sapeva che la nostra era una produzione in serie e non voleva che l’aiutassimo a scaricare il furgone. Così faceva la spola dal suo veicolo al laboratorio tenendo due sacchetti di perni in ottone per ogni mano e naturalmente TE arrampicato sulla sua schiena, avvinghiato con i denti al maglione ringhiando per il tutto il tempo.
- Cioppy! Scendi subito da lì! – urlavo dalla mia macchina a pedale.
- Lascialo stare, non importa. E’ il suo modo di farmi le feste. – rispondeva pacato Cremonesi.
Era una scena davvero buffa, che si ripeteva ogni volta.
Poi arrivò il nostro turno di diventare genitori. Avevo superato il termine da tempo, ma il mio bambino non voleva saperne di nascere, stava bene dove si trovava. Ero già stata in ospedale il giovedì mattina, dopo una notte insonne di fitte che partivano dal basso ventre e risalivano dietro la schiena, ma mi avevano rispedita a casa dicendomi di non scocciarli finche si fossero presentate le “vere doglie”. In realtà tutto quel movimento non era servito a gran che, mi dissero di non scomodarmi finche i dolori non fossero stati consecutivi da almeno due ore con cadenza di due, tre minuti l’uno dall’altro, senza pause d’interruzione. Cominciarono dopo cena, il venerdì sera del 3 agosto con un caldo insopportabile. Mauro controllava l’orologio e io annotavo a penna su un foglio la sequenza: 2’-3’-10’-20’….2’-3’-10’-20’. Sembravamo due tecnici che misuravano le vibrazioni sismiche del terreno! Ogni tanto ci guardavamo sconsolati: le pause erano troppo lunghe! Alle 2.00 del mattino il mio consorte era crollato sul divano mentre io, semi distesa in poltrona, ero ancora alle prese con il mio foglietto, l’orologio e fitte atroci che mi dilaniavano la schiena. Ma a quel punto tutto era cambiato, i tempi coincidevano perfettamente: 3’-2’-2’-3’-3’... speravo solo che non cambiassero nelle prossime due ore. La situazione alle 3.00 era immutata, scaraventai orologio, penna e foglio il più lontano possibile. Non volevo più controllare niente, non ragionavo più, volevo solo che quelle fitte smettessero di essere tanto atroci e piansi (cosa che ormai era all’ordine del giorno!). Tu eri stranamente accucciato ai piedi della poltrona e ogni tanto alzavi la testa, cercavi il mio sguardo e mi leccavi un polpaccio.
- Smettila! – urlai all’improvviso, presa da una furia cieca e dalla voglia di scaraventare anche te contro la parete. Non muovesti un passo, mi guardasti con le tue pagliuzze dorate negli occhi e poi leccasti nuovamente il mio polpaccio. Fui colta da una fitta allucinante e da un’improvvisa folgorazione. Quando ripresi a respirare, mi alzai dalla poltrona, raccolsi l’orologio e tornai nella posizione precedente.
Esattamente due minuti dopo tu riprendesti a guardarmi e mi leccasti la gamba… sentii partire un’altra fitta: due cani immaginari si litigavano a morsi i miei reni. Non avevo più bisogno dell’orologio, tu avvertivi il dolore poco prima che esplodesse nel mio corpo, così come avvertivi il tuono durante un temporale, poi mi guardavi triste come a dirmi: - Preparati, sta per arrivarne un’altra! – e mi leccavi per farmi coraggio. Nel momento più difficile della mia vita ti eri dimostrato un amico fedele e un ostetrico perfetto, non mi avevi lasciata sola. Scivolai dalla poltrona fino a distendermi accanto a te sul pavimento, ti strinsi forte a me e ti baciai fra le lacrime. Non ero più in grado di trattenerle.
Mio figlio nacque alle 11.00 del mattino del 4 agosto.
Cinque giorni più tardi, dimisero entrambi dall’ospedale e fui felice di rivedere la mia casa che mi sembrava tanto diversa da come l’avevo lasciata. Era solo un’illusione ottica per essere stata abbagliata dal bianco asettico dell’ospedale, ma qualcosa ancora non tornava. Entrai in ogni stanza presentandola al nuovo arrivato che tenevo ancora stretto fra le braccia e non riuscivo a capire cosa fosse cambiato. Mancava qualcosa.
- Ho capito! – dissi ad un tratto
- Hai capito cosa? – chiese Mauro stupito.
- Lo senti? Riesci a sentirlo? – di colpo mi tornò il nodo in gola.
- Ma cosa senti? – mi seguiva senza riuscire a capire di cosa stessi parlando.
- Non senti … il silenzio? Hai detto di aver chiuso tutti i cani in garage, eppure nessuno di loro ha abbaiato da quando siamo entrati in casa. Hanno capito. Rispettano in silenzio il suo arrivo perché è piccolo! -
- Ma dai, non dire stronzate, si saranno addormentati! – Rispose lui divertito.
- Sarà, ma io adesso scendo da loro e glielo faccio vedere– Dissi aprendo la porta che portava in garage.
- Non scendere con lui, gli salteranno addosso e lo leccheranno, vai tu sola a salutarli. –
Il mio istinto mi diceva tutt’altro. Fino a quel momento erano stati loro i miei “bambini”.
Scesi la scala che portava in garage e nessuno si fece avanti. Dovetti chiamarli per nome: Johnny, Cioppy, Ombra, Pinny, Bonzo… si avvicinarono timorosi annusando l’aria impregnata dal nuovo profumo di neonato. Seduta sugli ultimi due gradini avvolgevo con un braccio il mio bambino e con l’altra mano accarezzavo le loro teste morbide parlando loro come avevo sempre fatto. Erano curiosi di vederlo e lo annusavano estasiati, leccando il mio braccio, la mano, la guancia senza mai toccare la sua pelle.
Ancora una volta le pagliuzze dorate dei tuoi occhi brillarono illuminati dalla luce che filtrava di traverso da una delle finestre del seminterrato. Non erano necessarie le parole per esprimerti tutta la gratitudine per la notte trascorsa insieme. Ci univa un’intesa speciale che ci avrebbe accompagnato per sempre.
La tua prima dimora era stato il garage di mia zia. Fu proprio lei a trarti in salvo dall’essere calpestato da qualche tacco vertiginoso. Non potendo tenerti con sé perché già condivideva il suo appartamento con due gatti, un setter nero e me, chiamò in causa Mauro, il mio fidanzato.
Fu amore a prima vista fra voi due. Anche se, a causa di sua madre, che non voleva animali in casa, ti accolse un’altra famiglia, il vostro destino era già segnato.
Non eri felice in quella casa. Troppe persone sempre di corsa, troppo indaffarate per fermarsi a giocare con te e persino troppo occupate, ognuno con la propria vita, per insegnarti le regole basilari. L’assurdo era stato ritrovarti legato al tavolo della cucina continuamente sgridato perché non facevi capire quando era il momento di espletare i tuoi “bisognini”.
A Mauro furono sufficienti pochi minuti per capire la tua misera condizione. Slegò il laccio che ti concedeva 70 cm. di libertà, ti prese fra le mani e guardandoti dritto negli occhi disse:
- Non meriti una vita così, ti porto con me. -
Sua madre non ti accolse con il sorriso sulle labbra, ma lui fu irremovibile nella sua decisione di adottarti. Da quel giorno siete diventati l’uno l’ombra dell’altro. Eri talmente piccolo che ti portava ovunque andasse rinchiuso nel suo giubbotto invernale come fosse il caldo marsupio di mamma canguro. Ti sentivi protetto, al sicuro e ascoltavi il suo cuore battere così come avresti sentito quello di tua madre se ti fossi addormentato nel suo grembo. Ogni tanto lui abbassava la cerniera per paura che non potessi respirare a sufficienza e tu facevi capolino appoggiando la testolina fra i due lembi dell’accogliente marsupio. Eravate tenerissimi insieme e attiravate l’attenzione dei passanti che spesso si fermavano estasiati a guardarvi. Restavi immobile, in posa, finche qualche sventurato non allungava la mano per accarezzarti e lì facevi bella mostra del tuo singolare caratterino digrignando i denti e scoraggiando anche il più temerario. Neanche io, l’altra metà dell’antica coppia, osavo toccarti quando eri tanto vicino a lui perché eri aggressivo anche nei miei confronti.
Ti eri anche preso il mio posto in auto e viaggiavi accucciato sul sedile accanto al posto di guida. Il sabato pomeriggio quando venivate a prendermi e aspettavate sotto casa, capitava spesso che, nell’aprire la portiera, trovavo ad accogliermi il sorriso del mio fidanzato e i tuoi denti in bella mostra, quasi a dirmi:
- Se mi tocchi, ti mozzico! –
- Ok, ok! Come non detto… mi siedo dietro! – richiudevo la portiera e salivo in auto come un’ospite. Il tuo spirito libero ti ha sempre reso speciale, un esserino unico, senza precedenti e senza uguali, ti distinguevi in ogni occasione. Instancabile maratoneta dal corpo tozzo e zampette corte correvi senza sosta fino allo sfinimento e, solo allora diventavi tenero e ti lasciavi accarezzare, mentre scivolavi in un sonno mai tranquillo. I tuoi sogni erano burrascosi e ti regalavano tremori e lamenti. Hai distrutto tutto quello che hai trovato sul tuo cammino. Scarpe nuove e vecchie erano la tua passione e riuscivi a farla in barba a tutti perché trovavi sempre un nascondiglio dove consumare il tuo “bottino”. Senza contare due milioni (in lire) di danni per aver completamente distrutto a morsi l’interno dell’auto, lasciando intatti solo i sedili!
La biancheria stesa ad asciugare era un altro dei tuoi passatempi e sceglievi con cura spietata solo uno dei due calzini, lasciandoli tutti senza compagno. Urla, rimproveri e pacche sul sedere con il giornale arrotolato, non servivano a gran che perché ripartivi subito a caccia della prossima preda. Non si salvava neanche la biancheria dei vicini, avevi trovato il sistema di intrufolarti nel loro giardino passando sotto la rete di recinzione e non solo! Sei riuscito a togliere le mutande di plastica a Sissi (la loro cagnolina in calore) e metterla incinta. Ma eri talmente adorabile con quelle pagliuzze dorate che facevano brillare i tuoi occhi e, mentre restavi in attesa della reazione che avevi scatenato o del possibile castigo, piegavi la testa da un lato e solo quando eri certo d’aver ottenuto il perdono, ti prostravi a leccare gambe e mani, come a promettere che da quel momento saresti diventato buono.
Sì, buono! Sei sempre stato una peste! Il terrore di tutti i portalettere che puntualmente aggredivi aspettandoli mansueto finche non imbucavano la posta e poi ti avvinghiavi ai loro calzoni.
Ricordo ancora, un sabato pomeriggio, dopo una settimana interminabile di pioggia, si era formata un’enorme pozzanghera nel vialetto che divideva la nostra casa da quella dei vicini. Noi lavoravamo nello scantinato e tu stavi dormendo avvolto nell’inseparabile copertina di Snoopy dentro la cesta e, all’improvviso il suono del campanello a mettere scompiglio. Lo sventurato, un testimone di Geova, in un impeccabile vestito a giacca marrone scuro, ridotto uno straccio bagnato e infangato dopo averlo rincorso attraverso quell’enorme pozzanghera! Non era mai stato umiliato tanto in vita sua! Non accettò neppure di essere rimborsato per le spese di lavanderia pur di allontanarsi in fretta e tornare a casa! Mi sono sempre dovuta scusare con tutti a causa tua e tu continuavi a prediligere Mauro a me. Ma poco importava. Mi ero prenotata per avere un bellissimo cucciolo di pastore tedesco che sarebbe stato “solo mio”.
Poi arrivò una meticcia, simile a un Pincer, che in realtà doveva essere ospitata solo per qualche giorno, in attesa che fosse adottata da una signora, che tuttavia non si decise mai. Il primo “calore” fu fatale. Sfornò quattro cuccioli di cui il primo era la tua esatta fotocopia! Trovammo una destinazione per due di loro, ma non riuscimmo a separarci dai rimanenti. Ci ritrovammo così con cinque cani, un lavoro in proprio che ci assorbiva interamente per sei giorni e mezzo la settimana, la responsabilità di 5 apprendisti tutti “under sedici” e l’inizio della condivisione di una “vita a due”.
Non fu per niente facile trovare il sistema di conciliare tutto in una sincronizzazione di tempo e spazio, ma la nostra giovane età ci favorì con un dinamismo inaspettato.
Tu non cambiavi mai, neanche col passare del tempo, nemmeno con la consapevolezza di essere diventato padre, restavi ingestibile. Il terrore di quasi tutti i fornitori che suonavano il campanello per consegnare il materiale, escluso uno: il signor Cremonesi, soprannominato “gigante buono”. Alto 1,90, occhi azzurri, capelli radi e bianchi. Sapeva che la nostra era una produzione in serie e non voleva che l’aiutassimo a scaricare il furgone. Così faceva la spola dal suo veicolo al laboratorio tenendo due sacchetti di perni in ottone per ogni mano e naturalmente TE arrampicato sulla sua schiena, avvinghiato con i denti al maglione ringhiando per il tutto il tempo.
- Cioppy! Scendi subito da lì! – urlavo dalla mia macchina a pedale.
- Lascialo stare, non importa. E’ il suo modo di farmi le feste. – rispondeva pacato Cremonesi.
Era una scena davvero buffa, che si ripeteva ogni volta.
Poi arrivò il nostro turno di diventare genitori. Avevo superato il termine da tempo, ma il mio bambino non voleva saperne di nascere, stava bene dove si trovava. Ero già stata in ospedale il giovedì mattina, dopo una notte insonne di fitte che partivano dal basso ventre e risalivano dietro la schiena, ma mi avevano rispedita a casa dicendomi di non scocciarli finche si fossero presentate le “vere doglie”. In realtà tutto quel movimento non era servito a gran che, mi dissero di non scomodarmi finche i dolori non fossero stati consecutivi da almeno due ore con cadenza di due, tre minuti l’uno dall’altro, senza pause d’interruzione. Cominciarono dopo cena, il venerdì sera del 3 agosto con un caldo insopportabile. Mauro controllava l’orologio e io annotavo a penna su un foglio la sequenza: 2’-3’-10’-20’….2’-3’-10’-20’. Sembravamo due tecnici che misuravano le vibrazioni sismiche del terreno! Ogni tanto ci guardavamo sconsolati: le pause erano troppo lunghe! Alle 2.00 del mattino il mio consorte era crollato sul divano mentre io, semi distesa in poltrona, ero ancora alle prese con il mio foglietto, l’orologio e fitte atroci che mi dilaniavano la schiena. Ma a quel punto tutto era cambiato, i tempi coincidevano perfettamente: 3’-2’-2’-3’-3’... speravo solo che non cambiassero nelle prossime due ore. La situazione alle 3.00 era immutata, scaraventai orologio, penna e foglio il più lontano possibile. Non volevo più controllare niente, non ragionavo più, volevo solo che quelle fitte smettessero di essere tanto atroci e piansi (cosa che ormai era all’ordine del giorno!). Tu eri stranamente accucciato ai piedi della poltrona e ogni tanto alzavi la testa, cercavi il mio sguardo e mi leccavi un polpaccio.
- Smettila! – urlai all’improvviso, presa da una furia cieca e dalla voglia di scaraventare anche te contro la parete. Non muovesti un passo, mi guardasti con le tue pagliuzze dorate negli occhi e poi leccasti nuovamente il mio polpaccio. Fui colta da una fitta allucinante e da un’improvvisa folgorazione. Quando ripresi a respirare, mi alzai dalla poltrona, raccolsi l’orologio e tornai nella posizione precedente.
Esattamente due minuti dopo tu riprendesti a guardarmi e mi leccasti la gamba… sentii partire un’altra fitta: due cani immaginari si litigavano a morsi i miei reni. Non avevo più bisogno dell’orologio, tu avvertivi il dolore poco prima che esplodesse nel mio corpo, così come avvertivi il tuono durante un temporale, poi mi guardavi triste come a dirmi: - Preparati, sta per arrivarne un’altra! – e mi leccavi per farmi coraggio. Nel momento più difficile della mia vita ti eri dimostrato un amico fedele e un ostetrico perfetto, non mi avevi lasciata sola. Scivolai dalla poltrona fino a distendermi accanto a te sul pavimento, ti strinsi forte a me e ti baciai fra le lacrime. Non ero più in grado di trattenerle.
Mio figlio nacque alle 11.00 del mattino del 4 agosto.
Cinque giorni più tardi, dimisero entrambi dall’ospedale e fui felice di rivedere la mia casa che mi sembrava tanto diversa da come l’avevo lasciata. Era solo un’illusione ottica per essere stata abbagliata dal bianco asettico dell’ospedale, ma qualcosa ancora non tornava. Entrai in ogni stanza presentandola al nuovo arrivato che tenevo ancora stretto fra le braccia e non riuscivo a capire cosa fosse cambiato. Mancava qualcosa.
- Ho capito! – dissi ad un tratto
- Hai capito cosa? – chiese Mauro stupito.
- Lo senti? Riesci a sentirlo? – di colpo mi tornò il nodo in gola.
- Ma cosa senti? – mi seguiva senza riuscire a capire di cosa stessi parlando.
- Non senti … il silenzio? Hai detto di aver chiuso tutti i cani in garage, eppure nessuno di loro ha abbaiato da quando siamo entrati in casa. Hanno capito. Rispettano in silenzio il suo arrivo perché è piccolo! -
- Ma dai, non dire stronzate, si saranno addormentati! – Rispose lui divertito.
- Sarà, ma io adesso scendo da loro e glielo faccio vedere– Dissi aprendo la porta che portava in garage.
- Non scendere con lui, gli salteranno addosso e lo leccheranno, vai tu sola a salutarli. –
Il mio istinto mi diceva tutt’altro. Fino a quel momento erano stati loro i miei “bambini”.
Scesi la scala che portava in garage e nessuno si fece avanti. Dovetti chiamarli per nome: Johnny, Cioppy, Ombra, Pinny, Bonzo… si avvicinarono timorosi annusando l’aria impregnata dal nuovo profumo di neonato. Seduta sugli ultimi due gradini avvolgevo con un braccio il mio bambino e con l’altra mano accarezzavo le loro teste morbide parlando loro come avevo sempre fatto. Erano curiosi di vederlo e lo annusavano estasiati, leccando il mio braccio, la mano, la guancia senza mai toccare la sua pelle.
Ancora una volta le pagliuzze dorate dei tuoi occhi brillarono illuminati dalla luce che filtrava di traverso da una delle finestre del seminterrato. Non erano necessarie le parole per esprimerti tutta la gratitudine per la notte trascorsa insieme. Ci univa un’intesa speciale che ci avrebbe accompagnato per sempre.
Racconto scritto il 04/09/2014 - 16:13
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Voto: | su 8 votanti |
Commenti
Adoravo i miei cani-bambini! Sono cresciuti con me ed io con loro, insieme abbiamo condiviso molti anni della nostra vita. Ormai di loro non restano che le fotografie e mi mancano tantissimo. La loro vita è così breve rispetto la nostra che non siamo mai preparati a perderli. Grazie Paola e Marina per le vostre testimonianze e i vostri commenti.
Candlelight Candle 14/09/2014 - 01:27
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Toccante, coinvolgente. Splendida la narrazione.
Ho perduto il mio cagnolino da 6 mesi, aveva 16 anni. I miei figli sono cresciuti con lui.
Ti ho letta con autentico piacere, complimenti!!!
Ciao, Marina
Ho perduto il mio cagnolino da 6 mesi, aveva 16 anni. I miei figli sono cresciuti con lui.
Ti ho letta con autentico piacere, complimenti!!!
Ciao, Marina
Marina Assanti 05/09/2014 - 15:47
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E' stato un piacere leggerti... amo molto gli animali , i gatti e in particolare i cani. Li ho avuti da una vita. Avevo un dolcissimo cane, è mancata l'anno scorso.
La penso sempre.
Un racconto molto carino e divertente.
La penso sempre.
Un racconto molto carino e divertente.
Paola Collura 05/09/2014 - 15:24
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Grazie a tutti voi per esservi soffermati a leggere e per i vostri commenti graditissimi! Siete davvero degli ottimi compagni di "viaggio"!
Candlelight Candle 05/09/2014 - 14:43
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La storia di un cane per mettere in luce un narrare scorrevole, esatto e gradevole.
Ugo Mastrogiovanni 05/09/2014 - 13:49
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Anche io amo molto i cani: sono davvero amici straordinari. Nella mia stanza, tra i pochi quadri-ricordo, c'è anche quella del mio cagnolino morto e, accanto, la fotografia -famosa e deliziosa- di un gattino che, tra le zampe di un cane e contro il suo petto, trova, straordinario rifugio e conforto...
Vera Lezzi 05/09/2014 - 10:42
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i cani sanno essere più umani degli uomini,sentono quando le persone sono cattive dentro,tu sei buona e loro ti amano e ti rispettano,delizioso racconto.
genoveffa 2 frau 04/09/2014 - 23:24
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Accidenti, peggio del cane di mio figlio!
Ad ogni modo, alla fine, sono sempre degli umani più umani dell'uomo che, spesso, è più simile a un animale, ma mai ad un cane, che sarebbe già molto più nobile.
Molto bello il tuo racconto, complimenti!
Ad ogni modo, alla fine, sono sempre degli umani più umani dell'uomo che, spesso, è più simile a un animale, ma mai ad un cane, che sarebbe già molto più nobile.
Molto bello il tuo racconto, complimenti!
Salvatore Linguanti 04/09/2014 - 20:59
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Una storia simile, l'ho vissuta in prima persona... Una micetta, che chiamai Rossella, per via del pelo rossiccio, mi trovai, impaurita dai fuochi d'artificio della Festa della Madonna, raggomitolata sulla soglia della porta di casa. Da quella sera è stata la mia gioia per circa un decennio, gli mancava solo la parola... Un racconto scorso piacevolmente. IL MIO ELOGIO E LA MIA BUONA SERATA.
Rocco Michele LETTINI 04/09/2014 - 19:24
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