IL GUARDIANO DEL FARO
Era una notte d’estate, molto tranquilla e Antonio riposava nella stanza del vecchio moletto da dove decenni prima veniva imbarcato il carbone verso il continente. Quel carbone veniva dai boschi vicini che coprivano i lievi pendii che movimentavano la campagna verso l’interno e dove oggi, nonostante l’intento di ricoprirli con nuove piante, le ferite sono ancora aperte e le querce ed i lecci secolari non adornano più quei paesaggi e non regalano più fresco ristoro.
Antonio si trovava lì con le mucche al pascolo, dopo la transumanza che lo aveva visto due mesi prima attraversare parecchie e scoscese colline e riposava dopo la giornata passata a vigilare i suoi animali nei campi attorno fino alle dune e talvolta spingendosi fino a riva e dopo, come spesso capitava, passava il pomeriggio con Vincenzo, uno dei fanalisti del vicino faro che in quel periodo, a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta ancora necessitava dell’opera dell’uomo per il suo funzionamento.
I guardiani erano due, in modo che potessero darsi il cambio durante le notti, ma Vincenzo aveva mandato il suo collega a casa, in Campania, due giorni prima della data stabilita “Tanto qui ci sto io e tu puoi stare in famiglia qualche ora in più.”
Così Vincenzo quelle sere era solo a illuminare il faro.
Qualche ora prima, fino all’imbrunire, era rimasto con Antonio a parlare del più e del meno per scacciare il fantasma della solitudine che viveva in quel tratto di mondo isolato da tutto.
Le sue urla infransero la magia di quella notte estiva, spruzzata di pura rugiada che spandeva i profumi della macchia e dove le cicale, lo scampanellio delle mucche e lo sciabordio del mare erano perfettamente sistemate sul pentagramma della più alta armonia.
“Sto male Antonio, aiutami!”
Antonio saltò subito in piedi ed andò in soccorso di Vincenzo che giaceva a terra, piegato dagli atroci dolori.
Erano soli laggiù, senza telefoni e senza nessuno che potesse accorrere in loro aiuto neanche se avessero strillato. Così Antonio non ci pensò su due volte e alzato il suo amico lo sorresse e lo obbligò, nonostante la sofferenza, a camminare per poter raggiungere la prima abitazione della borgata distante qualche chilometro.
Lo sterrato era visibile con il suo profilo in quella notte dove la luna fu testimone con la sua piccola fioca e solidale luce, ma Vincenzo per ben tre volte scivolò dalle braccia di Antonio cadendo a terra. Il percorso si faceva sempre più duro e difficile, tanto che quando il fanalista stramazzò inerme sulla strada sterrata Antonio lo abbandonò per correre alla casa colonica ormai vicina dove alloggiava il signor Cocco, l’impiegato dell’Etfas. Bussò con tutte le sue forze alla porta finché non gli fu aperto. “Venite, aiutatemi, ho lasciato Vincenzo lì, ma ormai…”
I due accorsero e trovarono il poverino gemente che ancora si contorceva dai dolori. Signor Cocco non esitò a prendere la sua auto, forse l’unica su tutta la borgata, e caricato Vincenzo si diresse insieme ad Antonio verso il paese, distante quindici chilometri, a cercare cure presso un medico.
Vista l’ora della notte il paese era deserto e avvolto dal buio pesto e non ebbero difficoltà ad arrivare finalmente alla porta del medico, che però non aprì loro nonostante l’urgenza.
Imprecando lasciarono quel portone sprangato e si diressero verso la casa di un altro medico mentre la voce di Vincenzo iniziava a perdere forza e ad arrochirsi per il troppo soffrire.
Erano disperati, lo erano ormai anche Antonio e signor Cocco, incerti del buon esito del loro soccorso. Ma lo furono ancora di più quando anche il secondo medico si rifiutò di intervenire.
Il povero Vincenzo era ormai allo stremo ed i due provarono la loro ultima carta, l’ultimo medico presente in paese, dottor Zonchello, che aprì immediatamente, visitò il malcapitato, scribacchiò la ricetta e si rivolse egli stesso al farmacista, suo vicino di casa, che consegnò il farmaco.
I tre si trovarono in strada, soli nel cuore della notte, con il farmaco e neanche un goccio d’acqua con cui farlo bere a Vincenzo. A quell’epoca infatti le pubbliche fontane venivano chiuse durante la notte e nessuno avrebbe aperto loro a quell’ora per timore che fossero banditi.
In quel frangente Antonio riconobbe due donne con dei sacchi sul capo che a quell’ora si dirigevano verso la casa di una parente per fare il pane, le chiamò ed una di queste, impaurita, mise subito mano alla sua pattadesa per potersi difendere. Ma capita subito la situazione di emergenza rientrò in casa e porse dell’acqua da una brocca di terracotta.
Vincenzo finalmente poté prendere la medicina sotto lo sguardo dei suoi soccorritori ormai esausti, soddisfatti ma soprattutto speranzosi che i loro sforzi fossero davvero serviti a salvare la vita al fanalista.
Mentre dal mare saliva una palla di sole ad illuminare il mondo e a porre fine a quella movimentata nottata, Vincenzo venne riportato al faro rimasto al buio ed incustodito per tutta la notte. Comunicò con i suoi superiori e venne portato all’isola della Maddalena, alla cui Capitaneria di porto faceva capo il faro di Capo Comino.
Per qualche tempo il faro fu alimentato da un altro fanalista e di Vincenzo non arrivarono notizie, tanto che si pensava che…
“Antonio, Antonio!!” L’aria tiepida di fine estate ed i pensieri silenziosi di Antonio con le mucche al pascolo vennero spezzati da un’allegra voce “Antonio, vieni che ti abbraccio! Mi hai salvato la vita!” Era Vincenzo, il fanalista, rimessosi in forza dopo quello che i medici dissero fosse stato un attacco cardiaco, ed era lì, di nuovo al lavoro in quel pezzo di terra lontano da casa ma dove anche lì poteva contare sull’aiuto di persone vere.
Millina Spina, 11 Marzo 2016
Note: la storia è vera, raccontatami spesso da uno dei protagonisti, Antonio, mio padre.
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Buona giornata!
UN PREGNO DI PROFONDE EMOZIONI... ATTIMI AMARI DI VITA VISSUTA...
IL MIO ELOGIARTI E IL MIO SERENO FINE SETTIMANA.
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Grazie cara!
Grazie!!
Il mio semplice grazie è poca cosa e non riesce ad esprimere appieno la mia completa gratitudine.
...ma Grazie!