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La mia gonna rossa.

L’uomo era alto e così magro che sembrava sempre di profilo. La sua pelle era scura, le ossa sporgenti e gli occhi ardevano di un fuoco perpetuo.Era tutta la sera che mi fissava, tra un bicchiere di birra ed uno di vino continuava a spogliarmi con lo sguardo. Io cercavo di far finta di nulla, di non farmi pesare più di tanto la situazione. Quasi mi ero pentita di aver indossato la gonna quella sera. Ma credevo in una cosa chiamata "parità dei sessi." Non era vero. Non esisteva nessuna parità, era solo una continua guerra tra umani. Quando mi avvicinai al bancone del bar per lasciare il mio bicchiere vuoto, quell'uomo mi sfiorò i lineamenti del viso con l'indice.Tra la folla persi i miei amici, così cercai di dirigermi verso l'uscita. Mentre stavo per tirar fuori la sigaretta e l'accendino dalla borsa, lui cercò nuovamente con insistenza di parlarmi. Gli chiesi gentilmente di lasciarmi stare, che non avrei voluto essere disturbata, ma cercai sempre di curare le mie parole cosicché lui non si potesse sentire in qualche modo "attaccato" dalla mia sfrontatezza. Avevo il cuore in gola, le mani sudate e le labbra secche per i miei respiri affannati. Si mise a ridere, poi si avvicinò e cominciò a baciarmi il collo partendo dalle spalle. Sentii, poi, qualcosa che pungermi alla fine della schiena. Abbassai lo sguardo. Era un coltello. Mi sussurrò all'orecchio di seguirlo nella stradina dietro il bar. Solo in quel momento capii che era la fine della mia spensieratezza. Mi spinse contro il muro, avevo la guancia a contatto con il freddo della pietra, a causa dell'umidità della sera. Pregavo quel Dio che molti uomini avevano rinnegato, talvolta anche io, e che per questo sapevo non mi avrebbe aiutata. Poggiò il suo corpo sulla mia schiena, e mentre si slacciava i pantaloni una sua mano mi alzò la gonna ed entrò dentro di me. Avevo lo sguardo perso e le lacrime una dopo l'altra mi rigavano il viso. Avevo vent'anni, ma in quel momento sentii di averne dieci per la fragilità che avvertivo. Ogni movimento che facevo per liberarmi era sempre un passo in più verso il burrone che avrebbe dovuto porre fine alla mia vita. E mentre lui godeva, io morivo. Morì la mia femminilità, morì la donna che cresceva in me. Morì la voglia di diventare madre e di poter concepire una dolcissima bambina. Come potrei perdonare l'umanità se anche a lei proverebbero a fare il male che quell'uomo stava facendo a me? Non esiste perdono per azioni di questo genere. Della sua debolezza riuscii a farne un mio punto di forza. Gli sfilai di mano il coltello e lo colpii in testa dalla parte del manico. Lo lasciai lì a sentire il freddo che sentii io quando le sue mani mi possedevano. Quando rimasi sola pensai di non volerne fare parola con nessuno, fingere che non fosse successo niente era l'unica alternativa. Rinchiusi nei miei occhi neri come la pece, la paura e il tormento di quel giorno. Avrebbero così continuato a reputarmi una donna e non una sgualdrina.



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Opera scritta il 12/05/2016 - 14:36
Da Chiara Spada
Letta n.1171 volte.
Voto:
su 3 votanti


Commenti


Un racconto d'esordio duro e molto realistico nella sua esposizione fantasiosa.
Che dire!
Molto ma molto brava.
*****

Giovanni Santino Gurrieri 13/05/2016 - 07:20

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Bello il tuo racconto, complimenti 5*

donato mineccia 12/05/2016 - 18:47

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Giusto commentare un'opera tanto coraggiosa, anche se partorita dalla fantasia. Qui la rabbia viene descritta con la stessa durezza della violenza.
5*

salvo bonafè 12/05/2016 - 17:04

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