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Larissa

All'idea di restar solo, cominciò ad avvertire un senso d'inquietudine. A mano a mano che la notte era avanzata, mentre, immerso nei suoi pensieri, camminava senza neppure una meta precisa da raggiungere, allo stesso modo aveva visto la città spegnersi attorno a sé. Certo, una cosa normale, direte voi. Ma per lui era come se tutti volessero abbandonarlo di proposito, lasciandolo vagare, con le sue angosce e le sue paure, come uno spettro solitario per le strade della città. Perciò anche voi ne potete immaginare il sollievo che ci fu nel suo cuore quando svoltò in quella stradina, un luogo fino ad allora sconosciuto ai suoi occhi, e vide l'insegna luminosa di un piccolo bar notturno, dove avrebbe potuto trovare un po' di ristoro prima di ritornare a casa. Ne varcò la soglia e una tiepida luce, con musica jazz come sottofondo, lo accolsero. Si guardò attorno. A quell'ora della notte c'era poca gente. Ad un tavolino un uomo e una donna stavano seduti l'uno di fronte all'altra, in un altro due uomini a voce bassa conversavano animatamente, forse impegnati in qualche discussione d'affari. Prima d'avvicinarsi per un attimo osservò il bancone di legno, rifinito in acciaio e ottone col frontale in vetro decorato, poi andò ad accomodarsi su uno sgabello e ordinò un whisky e soda. Ma subito dopo che il barman lo ebbe servito, da dietro gli arrivò una voce: «Avrebbe la gentilezza di offrirne uno anche al sottoscritto?». Si voltò di scatto verso la sua destra, il ragazzo e la ragazza e i due uomini erano spariti e al suo fianco vide un vecchio che fissava con bramosia il suo bicchiere di whisky. «Guardi che io sto parlando con lei! Allora, avrebbe la gentilezza di offrirne uno anche al sottoscritto?», disse di nuovo il vecchio sconosciuto accostandosi al suo braccio. Il protagonista della nostra storia, che per comodità narrativa da ora in poi chiameremo Arturo, rimase per qualche attimo interdetto prima di rispondergli, ma appena si riscosse, fece cenno al barman di servirlo. «Lei è un uomo molto gentile», fece il vecchio. Arturo replicò con un finto sorriso, sperando che il vecchio si sarebbe poi allontanato una volta servito, ma non fu così... perché questi gli disse: «Però sediamoci a un tavolino. Avremo così l'occasione di scambiare quattro chiacchiere in modo più tranquillo e riservato. I due whisky ce li porta lì?». «Certo, nonnino!», rispose il barman. Infastidito dalla sua invadenza, Arturo stava quasi per cacciarlo via in malo modo, ma vinto dalla curiosità su cosa mai avesse da dirgli quel vecchio barbuto, fu proprio lui che gli indicò il posto più adatto dove mettersi seduti. Dopo che il barman li servì, il vecchio sollevò il bicchiere, diede appena un piccolo sorso, giusto per schiarirsi la voce e poi, mentre una strana luce brillava nei suoi piccoli occhi azzurrini, esclamò: «Complimenti, lei è stato scelto!». «Scelto per cosa?», rispose Arturo sorpreso. «Lei è stato scelto per porre fine alla sua solitudine, fine alle sue sofferenze e, cosa più importante, per la mia ultima e più perfetta creatura che costruirò prima che io mi congeda definitivamente dal mio lavoro». Arturo rimase perplesso a sentire quelle frasi strambe fatti da un tipo che assomigliava tanto a un Babbo Natale, però più piccolo e magro, di cui poco ne comprendeva il significato e di cui altrettanto gliene importava, ma non disse nulla che potesse offenderlo e neppure si mise a ridere di lui, e ironicamente rispose:
«E perché sono stato scelto io?».
«Perché lei è una persona gentile».
«Solo perché poco fa le ho offerto un bicchiere di whisky?».
«Non solo!», e fece una risata che lo irritò alquanto, così Arturo ebbe l'azzardo di dirgli:
«Senta, mi sta simpatico. Però non capisco perché lei si mette alle tre di notte a infastidire la gente che incontra per caso con le sue ciance senza senso», il vecchio rise di nuovo.
«E lei perché, invece, passa intere notti insonni a rimuginare su niente aspettando, tra casa e lavoro, solo che il tempo passi il più velocemente possibile?».
«Lei come fa a sapere queste cose di me?».
«Sensibilità o intuito, faccia lei», replicò il vecchio.
«Sensibilità? Intuito? Ora non dica frottole! Ci ha provato e ha indovinato, tutto qui!».
«Lei è un uomo che ha smesso di sognare. E gli uomini che smettono di sognare sono sempre inquieti e spaesati. Lei è soltanto un po' esaurito, come dicono oggi i dottori».
«Io esaurito? Certo, se non lo è uno che fuma più di due turchi messi assieme, beve caffè a litri, passa notti insonni a ingozzarsi di cibo e a bere birre. Che non ha più relazioni verbali e affettive con la moglie che è troppo presa dal suo lavoro e sempre fuori di casa o. E che si arrangia a pranzo e a cena con scatolette di tonno, di carne in scatola e piatti surgelati pronti: chi allora?».
«Ma questa notte lei è stato fortunato ad incontrarmi. Io sono un mercante di bambole».
«Bambole?», lo riprese sempre più perplesso Arturo.
«Non semplici giocattoli, come pensa lei - nel frattempo che diceva questo, cavò fuori una valigia da sotto il tavolino e la aprì -. Bambole che possono aiutarla a riaccendere la sua fantasia spenta da già troppi anni. Ma venga più vicino a me, non sia timido. Guardi il campionario. - Arturo spostò la sua sedia e si mise seduto accanto al vecchio, osservando con inquieta meraviglia il contenuto di quella valigia, mentre il vecchio, insistendo, lo invitava a toccare alcuni campioni-. Guardi i capelli, le diverse sfumature di colore, i particolari delle mani, la forma delicata delle dita e delle unghie, noti i più minuti dettagli del viso, gli occhi, e di tutto il resto del corpo, ne valuti la fattura, ne tocchi la morbidezza».
«In effetti, sembrano veri», constatò Arturo.
«E saranno sempre più veri in proporzione alla fantasia che lei ci metterà nel crederli tali. Ora però chiuda gli occhi e pensi ad un possibile ideale di bellezza femminile che a lei piace e poi gli dia anche un nome. Ricordi che il nome è importante, perché ciò che non ha nome non può esistere».
In quegli attimi Arturo era completamente soggiogato da quell'essere bizzarro che lo avrebbe assecondato in ogni cosa che gli avesse chiesto di fare. Così serrò gli occhi, portò gli indici alle tempie e cercò nella sua mente, tra le tante figure femminili che aveva conosciuto o visto nella sua vita, quella che più gli piacesse. La sua memoria volò fino agli anni del liceo e nella nebbia dei suoi pensieri, che piano piano si diradava, gli apparve un viso, ma non riuscì subito a distinguerlo bene, solo i contorni, simile all'immagine riflessa da uno specchio opaco. Poi si concentrò maggiormente e, come quando un vetro ghiacciato che esposto al sole scioglie la sua patina di ghiaccio e riprende la sua trasparenza, ugualmente quel viso riacquistò la sua nitidezza e gli apparve esattamente come era allora: fresco, giovane e bello. Un frutto acerbo, con la pelle pallida come la Luna, gli occhi scuri, e i capelli, neri e lucenti che lisci e lunghissimi le cadevano dietro le spalle. I suoi genitori per esigenze di lavoro si erano trasferiti dalla provincia e lei era entrata nel suo corso solo per frequentare l'ultimo anno. Non le aveva mai veramente parlato, se non per scambiare poche e banali parole, eppure il suo nome era sempre stato un richiamo per il suo sangue bollente. Si chiamava Larissa.


«Molto Bene! L'ho vista anch'io la sua Larissa. Ora mi dia tempo un mese e un giorno e gliela spedirò direttamente a casa», disse il vecchio.
«E per il pagamento? Se lei è un commerciante, vorrà essere giustamente pagato».
«Mi ha già pagato: non ricorda?».
«Come?».
«Con la sua gentilezza e il suo bicchiere di whisky».
«Le basta solo quello?».
«Null'altro! Ma mi raccomando però, non parli mai a nessuno di questa storia: massima discrezione!».
«Io abito in via...», ma non ebbe il tempo di completare la frase che il vecchio disse: «Kaboom!». Allora Arturo riaprì gli occhi e dinanzi al lui il vecchio era sparito e fuori stava facendo giorno.
«Il vecchio che era qui con me questa notte che fine ha fatto?», chiese al barman che con pala e scopa in quel momento spazzava a terra e che rispose facendogli le spallucce.
Credendo di aver fatto solo uno strano sogno, Arturo uscì da quel locale e andò al lavoro.


Ma quello di Arturo non era stato un sogno, e il vecchio mantenne la sua promessa. Ora la bambola era a casa sua già da quindici giorni e sua moglie e nessun altro si erano accorti di nulla. Al vettore UPS aveva raccontato che lui era un artista, un pittore, e che in quel pacco, che sembrava contenere una cassa da morto, c'era uno di quei manichini a grandezza naturale usati per orientarsi meglio nel tracciare le proporzionalità del corpo nelle varie posture. Dopo che la disimballò dal cartone, i gusci di polistirolo e il cellophane che la avvolgeva, la nascose sotto il lettino della cameretta dove era solito dormire. Ma quel posto non gli piacque tanto, e pensò che neppure alla bambola potesse piacerle: troppo increscioso per lui e troppo claustrofobico per lei. Allora ebbe la bella idea di crearle una zona della casa che fosse tutta sua. Così ripulì la soffitta. La rimodernò con moquette verde, carta da parati a fiori sulle pareti e tende bianche a velare la piccola finestra. Poi, con dei mobili, rimediati con pochi soldi da un vecchio rigattiere prossimo a ritirarsi dal commercio, la arredò e piazzò lì la bambola.
Larissa da principio era fredda e rigida, come bloccata, verso Arturo. "Normale, si sente spaesata, è nata solo da pochi giorni", pensò lui. Poi, piano piano, si era ambientata, tuttavia era rimasta sempre un po' timida. Ma era di compagnia e ogni sera lei e Arturo cenavano a lume di candela. Larissa amava la cucina francese: viande au café de paris, salade de chou crémeuse, œufs brouillés, coq au vin, crepes au chocolat erano i suoi piatti preferiti. Non conversavano molto. Ma quando ciò avveniva, lei, non conoscendo quasi nulla del mondo e di come vanno le cose della vita, parlava sempre un po' a casaccio. Così le capitava spesso di commettere delle gaffe da far accapponare la pelle, ma era molto dolce e carina nel suo modo di atteggiarsi e di parlare che lui le perdonava tutto. “Imparerà, col tempo”, diceva tra sé. Però, Arturo aveva notato che a volte s'immalinconiva. Una settimana prima, infatti, per caso l'aveva sorpresa piangere accanto alla finestra. «Larissa, perché piangi?», le chiese. «Perché sono soltanto una bambola, non potrei mai renderti veramente felice». «Ma io sono già felice con te! Da quando tu sei entrata nella mia vita, sono rinato. Vado in palestra, non fumo più come prima, mangio in modo salutare e dormo bene. Tutte cose che non mi capitava più di fare da anni. Perché adesso so che c'è qualcuno che mi aspetta quando torno a casa dal lavoro, che ha voglia di pranzare con me, di chiacchierare con me, di guardare un film o ascoltare musica assieme. Ti voglio bene, Larissa», e dopo aver detto ciò, le diede un bacio sulla fronte. Ma Larissa continuava a piangere. Le sue lacrime le scivolavano sulle guance come tante piccole gocce di rugiada su uno stelo d'erba e andavano a formare una piccola pozza iridescente ai suoi piedi. Mentre cadeva, Arturo ne aveva raccolta una nel cavo della mano e la aveva assaggiata. Era dolce, non salata come le nostre.
Poi per farla ridere, cinse le sue braccia ai suoi fianchi e fecero il loro gioco.
«Tu sei la mia luna e io il tuo sole», le disse.
«Tu la mia notte e io la tua stellina», subito lei.
«La mia micia e io il tuo micino».
«Tu il mio mare e io la tua pesciolina».
In questo modo Larissa si acquietò e andò a distendersi sul lettino. Lui si mise seduto accanto a lei sul lato del materasso, e lei si addormentò con Arturo che le carezzava i capelli. Era anche molto romantica Larissa, quando lui non c'era, intonava sempre dolci melodie mentre con le mani intrecciava paglia di vimini e fiori per farne panieri e ghirlande.
Poi una notte, potevano essere le tre, era raro che stesse in piedi a quell'ora, la moglie lo scoprì nel frattempo che lui e Larissa cenavano; Arturo aveva dimenticato di chiudere la porta della soffitta a chiave. Colto in flagrante, si mosse con nonchalance, e con un sorriso stampato sulla faccia, fece:
«Cara, ti presento Larissa Sweet. Una mia vecchia amica di liceo». E la moglie, con voce impacciata e tremante, disse alla bambola: «Piacere, Vincenza. Vincenzina... per gli amici!», poi con gli occhi sbarrati guardò in faccia il marito come lui fosse diventato pazzo. Larissa, invece - era solo una bambola che altro poteva fare? - rimase immobile con i suoi splendidi occhi marroni, come spiritati, a guardare un punto indefinito avanti a sé e non spiccicò una sola parola. Quando la sera del giorno dopo Arturo rientrò a casa dal lavoro, trovò la moglie che stava preparando la cena, il pollo con le patate; il suo piatto preferito. Era da anni che non la vedeva cucinare qualcosa.
Cenò allegramente con la moglie, bevvero dell'ottimo vino Chardonnay e chiacchierarono piacevolmente a lume di candela. Quella sera gli apparve diversa Vincenzina e il suo volto più bello. Poi giunse l'ora di andare a letto, lui guardò l'orologio sul muro, segnava quasi le dieci, e di scatto si alzò dalla sedia.
«Vai da Larissa?», gli chiese la moglie.
«Dovrei, almeno per darle la buonanotte».
«Se vuoi, puoi venire a dormire con me».
«Potrei disturbarti, sai che io dormo con la TV accesa».
«Non fa nulla per la TV, la guarderemo insieme. Mi sono licenziata dal lavoro, ne cercherò un altro che mi prenda meno tempo, quindi posso anche fare tardi domani mattina».
Poi Vincenzina si alzò anche lei dal suo posto, lo afferrò per una mano e, dopo cinque anni, dormirono assieme nella loro stanza da letto. Però la televisione non la guardarono, e continuarono, diciamola pure così, a parlare tra loro, visto che avevano molte cose arretrate da dirsi. Dopo quella notte, dalla bambola che stava in soffitta, Arturo non andò mai più. Gli mancava il coraggio per farlo. Però, in certe notti, era come se da lassù sentisse provenire l'eco dolce della voce di Larissa intonare dolci melodie, magari mentre con le mani intrecciava paglia di vimini e fiori per farne panieri e ghirlande.




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Opera scritta il 08/07/2016 - 00:22
Da Antonio Giordano
Letta n.1241 volte.
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