FELICITA\' A BASSO COSTO
E questo era possibile perché mia madre faceva la casalinga e perché i miei nonni ci ospitavano a Capo Comino.
Erano i primi anni '70 e subito dopo la chiusura delle scuole per mia sorella e mio fratello e l'asilo per me e l'altro fratello, mia madre preparava i pochi bagagli e li stipava in grosse sporte e poi aspettava il fratello Salvatore che con la sua 124 ci avrebbe portati a destinazione.
La mia famiglia, essendo più numerosa delle altre, veniva alloggiata nella casa del pane, composta da due stanze e dove i muri erano impregnati del profumo polveroso della farina e dove il forno, anche spento, riusciva a regalare ogni istante l'aroma del pane carasatu.
Mia zia Francesca e la sua famiglia occupavano l'adiacente fienile, un camerone che veniva svuotato e diviso con una semplice tenda tirata su due chiodi a separare la zona giorno dalla zona notte.
Mio zio Pasquale invece, con la moglie e le due bambine, venivano sistemati nella stalla che pulita a mestiere diventava un confortevole monolocale.
Dentro la mangiatoia si incastravano alla perfezione le cassette di legno, quelle che a settembre sarebbero servite per la vendemmia, con le poche vettovaglie utili per passare le vacanze.
A cavallo del canale di scolo per le urine delle mucche veniva sistemato il box per le mie piccole cugine.
Tutti gli altri zii allora non erano ancora sposati per cui abitavano nella grande casa colonica che era il fulcro di tutte le costruzioni ed appariva come una solida ed invincibile matriarca, esattamente come la donna che la abitava.
Eravamo in tanti tra zii, zie e cugini e la mattina alle prime luci del giorno uscivamo dalle porte come topolini insonnoliti ad affollare il piazzale antistante le case per fare nuovi progetti.
Dovevamo essere richiamati per la colazione, che consisteva in un bel bicchierone di latte che mio nonno aveva appena munto dalle mucche sfrattate e su cui con le mani chiuse a coppa facevamo ricadere del pane carasatu frantumato, il precursore dei Kellog’s.
Dopo ci si preparava e si scendeva a piedi in un gruppo numeroso verso il mare, passando per la strada al margine del podere, per arrivare sulle bianche dune dopo aver attraversato quel piccolo tratto di verde, adornato da giunchi e da quegli arbusti che avevano dato origine al suo nome così romantico e pittorico, “Sa paùle 'e su sauccu”, la palude del sambuco.
Mio zio e mio fratello seguivano lo sterrato su cui facevano rotolare una bombola del gas vuota a cui ci saremmo aggrappati in acqua, dove non si toccava, poi avrebbero fatto la stessa strada al rientro, anche se stanchi e leggermente in salita. Ma questo finché non sistemarono un fondo di legno ad una gomma del trattore, trasformandola in un canotto artigianale. Escluso qualche turista tedesco accampato sotto i ginepri e le famiglie degli altri coloni, la spiaggia era deserta, priva degli odierni rischi e pura, priva dei moderni rifiuti, scarti delle nostre numerose necessità.
Mentre mia madre e mia zia facevano centrini all'uncinetto sedute sulla sabbia, noi, nell'attesa dell'ora del bagno facevamo le capriole buttandoci da sa duna manna, la duna più alta che con il passare degli anni è divenuta come le altre, o forse essendo io cresciuta la vedo in un’altra prospettiva, anche se credo che in me sia semplicemente sopraggiunta la disattenzione.
Ricordo ancora la delusione quando il vento le rubava qualche centimetro di sabbia e l'entusiasmo con cui accoglievo la notizia che un altro vento glieli aveva riportati. Era bello sentire le cose vive, parte importante delle nostre giornate, sentirne l'amicizia ed anche il senso del possesso, provando una forte gelosia se qualche estraneo osava occuparla. Personalmente lo avvertivo come una violazione di domicilio.
Ogni tanto, cioè ogni tre minuti, uno di noi dalla cima della duna strillava verso la propria madre "Omma', ora est?" con l'impazienza che tutti i bambini hanno di tuffarsi in acqua.
I bagni erano lunghi e frenetici cui mettevano fine solo le ciabatte mostrate da mia madre per la terza volta. Poi con la pelle saponata, o come si dice da queste parti “che ava posta a modde”, come le fave messe a bagno, un asciugamano sulle spalle ed un panino in mano passeggiavamo su quella lunga e paradisiaca spiaggia.
Questo avveniva nei giorni feriali mentre la domenica era diversa già dalla mattina, da quando la colazione era integrata da un sorsetto di Vov che ci davano come rinforzo, mentre le campane della vicina chiesa suonavano incessantemente: il povero parroco, don Fancello, si aggrappava alla fune e la mollava solo quando vedeva il sopraggiungere dei suoi parrocchiani.
Uscivamo dalla proprietà, priva di cancelli e di recinzioni, in un gruppo sfoltito visto che i maschi più grandi della famiglia erano esonerati dall'ascolto della parola. Ad aprire la fila, sempre puntuale e devota, mia nonna con a fianco mia zia Maria, l'angelo dal cromosoma in più, l'ulteriore ed inseparabile costola di mia nonna.
Noi seguivamo, giocando o dandoci calci con quella spontaneità che nessuna lezione di catechismo ci avrebbe tolto.
La piccola chiesa era spoglia per cui non potevamo neanche chiacchierare ché rimbombava tutto, facendo interrompere il prete che alzava lo sguardo miope a cercare la fonte del disturbo, mentre le donne della mia famiglia ci guardavano torve, perché allora bastava solo uno sguardo per far capire tutto, racchiudendo in sé la triste promessa di una severa punizione per l’onta subita.
Quella stessa chiesa anni dopo sarebbe stata gremita di persone e di lacrime, per mio nonno prima, per mia nonna poi ed infine per Maria, nella sua grande bara bianca ed il dolore lancinante per la perdita di pezzi della mia vita così importanti ancora echeggia nel vuoto del mio cuore.
La domenica, liberi dal lavoro, al mare venivano anche mio padre ed i miei zii, e con loro si poteva andare nell’acqua più alta, visto che mia madre e mia zia si bagnavano solo le spalle, prima la destra e poi la sinistra come se si stessero scrollando di dosso qualche fastidiosa mosca.
Mi ricordo che mio padre ci portava sulle spalle e camminava fino a quella che io chiamavo acqua alta alta! Anche se,a dirla tutta, mio padre è alto appena un metro e sessanta…
La sera, al buio, giocavamo a nascondino ed io, perennemente impaurita, mi nascondevo dietro mia nonna dove venivo scoperta subito. Con le scope davamo poi la caccia ai pipistrelli per finire stremati l'intensa giornata e ritirarci nelle nostre spartane dimore.
I ricordi di quelle estati sono tanti, come dei fili dorati che tessono una preziosa filigrana a custodire la mia anima e le persone della mia vita, i loro sguardi, le loro voci e tutto il loro amore fatto di immensa semplicità ma che hanno reso, con la loro impagabile presenza, la mia infanzia spensierata e felice.
Millina Spina, 20 Luglio 2016
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Ciao!
Nadia
un abbraccio ed aspetto tue nuove opere
nadia
5*
Grazie e...salutami Gennarino, ché mi manca tanto!
in altra occasione ho capito la meraviglia che ti ha destato Capo Comino, immagina cosa è stato per me scorrazzare tra i campi fino alle dune. Il tutto arricchito dalle persone che hanno riempito la mia vita ed il mio cuore.
Adiosu!
Spero di portarti in visione qualche altro film, ehm...racconto, a breve.
Ciao!
la mia gioventù è stata gioiosamente semplice e ricordarla mi permette di riviverla, di risentire ancora tanti profumi che non esistono più, di sfiorare alcuni visi impressi nelle mie lacrime di rimpianto.
E raccontare con nostalgia mi permette di riallacciare il dialogo e di ridare vita, con i colori della mia maturità, a quelle immagini che non voglio sbiadiscano mai.
La nostalgia è il ponte con cui il mio presente attinge al passato, e spesso per ridere e giocare e per continuare ad essere la bambina che ero.
...e semper faeddande su sardu!
A menzus videre!
Grazie per il tuo passaggio!
Mi piacerebbe leggere della tua esperienza e di quella vissuta da tua madre. Penso che a differenza mia che ci sono praticamente nata, la visione del mare in età adulta è qualcosa di travolgente e di significativo.
Aspetto il tuo racconto!
E' semplicemente la Vita.
Grazie!
la sardegna, quel mare che conosco bene, la nostalgia che trapela nel ricordo, insomma tutto è bello, genuino, colmo di un pathos che in genere solo la poesia sa donare. aveva ragione Gesuino, ma anche gennarino a dirmi: leggi Millina, mi raccomando, e salutacela....ahahahha...ciaociao e 5 stelle.
Capo Comino una meraviglia...mi sono tuffata nei ricordi di una splendida parte della Sardegna...bravissima. ciao 5*
la cosa che mi fa impazzire nei tuoi racconti, che tracanno con avidità, sono i meravigliosi modi di dire dialettali che rendono alla perfezione l'idea del reale, forse ancor più di tanti usi della lingua italiana. Beh, devo aggiungere che ho la stessa sensazione con il nostro dialetto. Deve essere stata bella e fortunata anche la tua spensierata gioventù, che sempre ci racconti in maniera mirabile e attuale come se continuassi a viverla. Inutile quindi ripetere quanto io apprezzi la tua scrittura che recentemente ci hai fatto mancare. Ciao donna speciale.
Salvo 5*
UNO STRAORDINARIO RACCONTO FORGIATO CON OCULATEZZA E... SPIRITO D'ALTRI TEMPI CHE DANNO GIOIA SOLO NOSTALGICAMENTE SOGNANDO.
IL MIO LODEVOLE GIUDIZIO E LA MIA LIETA GIORNATA MILLINA.
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