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KOCIS

Kocis. Per noi ragazzini del quartiere questo era il nome di Mario “el barbè”.
Mi portava mio padre “Tra quanto passo a ritirarlo?” Quel “ritirarlo” ero io, quasi come un pacco e come tale venivo trattato. “Siediti lì ! No ! Non sulla poltrona, sullo sgabello, prenditi Tex o Topolino e fai il bravo!” mi diceva Mario con sussiego assicurandosi che mio padre, conosciuto da tutti come “el prestinè” lo sentisse.
Dal mio sgabello puntavo la poltrona girevole bianca e nera dove si accomodavano gli uomini per essere sbarbati o per il taglio dei capelli. Quella poltrona mi piaceva perché era come una giostrina sulla quale contavo che se avessi seguito tutti i comandi di Mario, poi, mi avrebbe fatto fare due o tre giri.
Sul tavolino c’erano sempre La Gazzetta, Il Giorno e La Notte quasi a significare che lì dentro c’era tutto quello che dovevi sapere. A volte però qualche uomo bisbigliava all’orecchio di Mario che, interrompendo per un attimo il suo lavoro, scostava una pesante tenda di velluto rosso come un sipario, andava nel retro e rientrando porgeva al cliente una o due riviste che poi ho scoperto erano di donne nude.
In una vetrinetta erano messi in bella mostra profumi, brillantine e le foto di Clark Gable con i capelli all’indietro lisciati e lucidi di brillantina e di Alain Delon che invece aveva i capelli al vento come un’onda del mare. C’erano anche dei flaconi, in offerta speciale, che promettevano di arrestare la caduta dei capelli, non solo, ma che sarebbero anche ricresciuti. Evidentemente Mario non li usava perché il suo cranio era come una boccia, tonda e lucida in cui si rifletteva la luce al neon della bottega. A questo proposito il nome datogli da noi di Kocis gli stava a pennello, vuoi perché tra di noi si diceva che andar sotto le sue forbici era come se un indiano ti togliesse lo scalpo, vuoi perché ci era venuto il dubbio che anche il suo scalpo fosse stato la preda di un indiano oppure sempre preda ma di più umili pidocchi.
Per darsi un tono però curava con maniacale precisione un pizzetto brizzolato e due baffetti neri, si erano neri, che dividevano un naso appuntito e gibboso dalla bocca sottile che anche quando sorrideva riverente non apriva mai, forse, credevo, per nascondere brutti denti.
A fine servizio, così Mario chiamava il suo lavoro, allo schioccare delle dita sbucava da dietro la tenda rossa, beato lui, un ragazzo poco più alto di me che aveva il compito di raccogliere i caduti, intendendosi per caduti i capelli “Qui, lì!” diceva Mario ed intanto mostrava impettito al cliente il risultato della sua opera , spruzzava da una boccetta con appeso un filo che terminava con una pompetta nuvole di profumo dolciastro e, con un tempismo che doveva aver calcolato, una volta rimessosi in piedi il cliente, “Spazzola!” ed il ragazzo, già riposta la scopa, alzandosi sulle punte come un provetto ballerino, si arrampicava sulle spalle del cliente e metteva in funzione lo strumento facendo attenzione, come da istruzioni ricevute, di non far svolazzare peli e pelucchi rimasti su maniche e spalle del cliente, indirizzandoli verso il basso.
Finito e congedato con sorrisi e strette di mano il cliente rimesso a nuovo……
“Prego, s’accomodi ragioniere, tocca a lei”! Come un torero nell’arena con teatralità estraeva dal cassetto un lenzuolo di seta, lo sventagliava e lo avvolgeva con garbo attorno al cliente, mettendogli della bambagia intorno al collo e permettendogli comunque di aver le mani libere, qualora avesse voluto rilassarsi leggendo o fumando mentre lui lavorava.
Stavo leggendo di Gambadilegno che si era introdotto nel forziere di Paperopoli quando “Forza giovanotto, tocca a te! Che taglio facciamo ?” io mi giravo verso i manifesti degli attori ma prima che indicassi il mio preferito, Kocis: “All’umberta. Ben corti come vogliono mamma e papà”. Si, il papà perché più corti erano e meno mi portava dal “barbè” e meno soldi scuciva; la mamma perché così si potevano lavare ben bene e tenere lontani i pidocchi che come un’armata sul piede di guerra era sempre pronta all’assalto per fare strage dei miei capelli.
Prima di farmi salire sulla poltrona metteva il rialzo che mi rialzava appunto di circa venti centimetri permettendo così a Mario di non curvarsi per tagliare. E pensare che a scuola la maestra mi metteva sempre in fondo perché diceva ero alto e se stavo davanti chi era dietro non poteva vedere la lavagna. E allora mi chiedevo: ma come alto a scuola, piccolo qui… ? Estraeva anche per me un lenzuolino, non di seta, di un ruvido cotone che mi ficcava attorno al collo, per me niente bambagia; poi mi guidava la testa sotto il rubinetto “ E’ calda ? E’ fredda ?. Qualunque risposta dessi la temperatura dell’acqua non cambiava mai, sempre fredda.
Mario, “il caffè”. C’era sempre qualcuno che offriva il caffè e Mario non si rifiutava mai, anzi si prendeva una pausa, un altro offriva una sigaretta ed intanto i miei capelli bagnati, rigorosamente senza shampo, si asciugavano e sentivo freddo alla testa.
Finito il suo caffè, fattosi accendere la sigaretta e fatti 3 tiri in rapida sequenza, posava la sigaretta nel posacenere in attesa del prossimo tiro e riprendeva le forbici; le teneva con pollice e medio quasi a voler sottolineare che lui non era un barbiere qualunque ma un artista che scolpiva. Apriva e chiudeva le forbici tenendole alte, zac, zac, zac e io mi irrigidivo; era il segnale del pronti, via. Ero immobile perché girava voce che una volta ad un ragazzino che si agitava e non voleva saperne di stare fermo avesse tagliato un pezzetto di orecchia.
Poi posava la sua mano sulla mia testa e mi manovrava come una marionetta, sinistra, destra, abbassa, infine tirava fuori dal cassetto una specie di tagliaerba e me lo passava sul collo con una certa forza il che mi provocava bruciore, Kocis vedeva il rossore e rimediava con una abbondante spruzzata di felce azzurra che si spargeva oltre che sul collo tutto intorno creando una nuvoletta che andava a scontrarsi con nuvole ben più minacciose di fumo che impregnavano tutta la bottega alimentate non dalle ciminiere della Falk ma da dagli uomini presenti, altrettanto se non più pericolose ancora.
“Ecco fatto, giovanotto” Saltavo giù dalla sedia e andavo dal papà che era arrivato poco prima. Ero l’ultimo cliente e approfittando di Mario che stava dando al papà il calendarietto tascabile io mi precipitavo sulla giostra, sicuro che alla presenza di mio papà Kocis non me lo avrebbe impedito e mi facevo parecchi giri gratis.



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Opera scritta il 12/04/2017 - 19:18
Da Roberto Colombo
Letta n.2016 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Ho colto l'occasione al volo e sono venuto a leggerlo...piaciuto molto, sia per il contenuto, per la storia( abbiamo pochi anni di differenza, ho visto il mio stesso barbiere)che per lo stile narrativo, scorrevole pur essendo denso di descrizioni particolareggiate. proprio un bel 5 stelle.
P.S. anche il mio racconto è autobiografico...ne ho scritti una quindicina di quel genere, e li ho riuniti in una raccolta. ciao.

Giacomo C. Collins 05/02/2019 - 18:32

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Sembrava di vedere la scena, bravissimo nella descrizione del personaggio, fatta con dovizia di particolari...un barbiere d'altri tempi, come diceva lui un artista.Quanto fare i capelli era quasi un rito...I miei complimenti Roberto

Anna Rossi 13/04/2017 - 00:09

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