IL PREZZO DEL PANE
Era il 3 Febbraio del 1955, festa della candelora e mentre le campane suonavano allegre, mio nonno vestito con gli abiti della festa, camicia bianca, giacca e pantaloni alla cavallerizza di velluto nero e gambali lucidi, usciva dalla messa cui ogni tanto si recava.
Quel giorno era emozionato per via di quell’appuntamento importante che lo attendeva.
Con il compare si diressero verso i locali della parrocchia dov’era fissato l’appuntamento con i funzionari dell’ente.
Era emozionato, incredulo, speranzoso come ogni buon credente ed impaurito come ogni normale essere umano, con famiglia a carico da sfamare.
Era la giornata in cui, per effetto della riforma agraria i funzionari dell’Etfas - Ente per la Trasformazione Fondiaria ed Agraria in Sardegna - avrebbero venduto le terre da coltivare agli assegnatari ed alle loro famiglie, persone dalla grande volontà, o forse incoscienza, pari alla loro disperata fame.
A mio nonno venne dato il podere numero 25 a Capo Comino e a ricordarlo c’è ancora una targa in marmo sulla parete della casa colonica, con l’alloggiamento per il vessillo nazionale ed il nome di san Giovanni, il suo nome appunto.
Quelle terre erano allora distese di pietre, polvere ed erbacce che s’allungavano fino alle dune di sabbia bianca e l’opera per renderle fertili fu davvero notevole in termini di sacrifici, rinunce e grande isolamento.
I miei nonni allora avevano sette figli, tra cui uno appena nato, e iniziarono a lavorare quei campi da subito. Prendevano il pullman dal paese, distante quattordici chilometri e raggiungevano il podere dove, a seconda dei lavori da completare, restavano lì per giorni, senza alcun alloggio, se non la protezione di un telo steso sotto il carro.
Scrivo questi ricordi grazie ai racconti di mia madre, la primogenita, che mentre mi elenca date ed eventi torna indietro nel tempo con lucida sofferenza per asserire senza tentennamenti che il lavoro svolto su quelle terre li aveva resi schiavi. Infatti non tutti ressero e qualche famiglia rinunciò dopo qualche mese ad una vita fatta di sola fatica in una terra avara ed isolata, lontana da tutto e da tutti.
Per qualche anno lavorarono i campi da pendolari. Entrarono nella casa colonica il 5 gennaio del 1958 e quella notte nessuno dormì, per l’emozione del cambiamento che da una piccolissima dimora in una corte, oltre il porticato in paese li aveva portati in quell’enorme casa, dove le loro voci rimbombavano nel vuoto delle alte pareti che la luce delle candele non riusciva ad illuminare, e per l’attesa della befana. Chissà con quale spirito e con quali paure mia nonna donò in quella notte una manciata di mandorle ai suoi figli. E’ ormai tardi per chiederglielo, ma è lì che tanti anni dopo, bambina, vissi una splendida magia, quando vidi la befana nitidamente stagliata sullo specchio luminoso della luna piena. Nelle case non c’era ancora acqua, né luce. L’acqua per i campi veniva portata da una sorta di pozzo, in realtà uno scavo aperto nei pressi della piccola salina, dove l’acqua era salmastra e d’estate si seccava. Per l’acqua potabile invece, lei e mia zia Francesca andavano ad una sorgente distante tre chilometri, si caricavano la brocca sul capo e ripartivano verso casa.
Una volta accadde che giunte nei pressi di casa, una folata di vento fece volare la brocca dal capo di mia zia, frantumandosi a terra e spargendo il prezioso liquido, ormai irrecuperabile e vanificando tutta la fatica.
Negli anni successivi ogni mattina arrivava un trattore con la botte dell’acqua potabile, che stazionava nella borgata e così le famiglie potevano approvvigionarsi più agevolmente. D’inverno i panni si lavavano nel piccolo torrente che ancora oggi scende verso il mare, mentre d’estate circa una volta a settimana, mia madre o mia zia, riempito un sacco venivano in paese con il pullman, e poi si dirigevano alla fonte nella lontana periferia, dove si incontravano con le altre ragazze, scambiandosi notizie e pettegolezzi e finalmente qualche risata. Lavavano i panni sulle pietre, li stendevano ad asciugare e poi rifacevano tutto il percorso a ritroso, fino a casa con la corriera. Racconta mia madre che una volta mentre era alla fonte, arrivò mia nonna per darle il cambio e mandarla insieme ad altre ragazze dell’Etfas ad una gita organizzata dall’ente. Ma mia madre, testarda ed orgogliosa non ne volle proprio sapere. Le ho chiesto quale fosse la mèta della gita ed ho capito che forse non si era persa niente: le sue coetanee erano state portate in visita in altre Etfas dell’isola, altre zone isolate dove altre ragazze sacrificavano la propria giovinezza per un pezzo di pane.
Mentre i primi tedeschi si accampavano sotto i ginepri, i miei zii sotto il sole cocente e gli scatti fotografici dei turisti incuriositi, spietravano i campi: raccontano che in un solo anno tolsero 70 carrelli di pietre e ancora oggi il colpo della zappa non si insinua con facilità nel terreno.
I campi erano coltivati a grano mentre nei pressi delle case coltivavano un piccolo orto, con ortaggi primaverili, come fave, piselli e patate cui bastava l’acqua piovana, mentre d’estate non c’era possibilità di annaffiare il terreno. Per gli ortaggi estivi si dovette aspettare il 1962, quando in quella primavera arrivò finalmente l’acqua corrente, ed anche il decimo figlio per i miei nonni. La casa iniziò ad essere illuminata dalle lampadine nell’autunno dello stesso anno.
Gli assegnatari dei terreni all’atto del contratto si impegnarono a versare delle rate per trent’anni e a coltivare nel migliore dei modi queste terre, ricevendo per effetto del riservato dominio, costanti ispezioni da parte dell’ente per verificarne il lavoro e dall’ente stesso dovevano acquistare sementi, armenti, concimi e mangimi e tutto ciò che serviva loro per fronteggiare i lavori. Erano obbligati all’acquisto di materie in grande quantità in modo tale che si trovassero sempre nella posizione di debitori nei confronti dell’ente.
Arrivò un momento in cui, gli assegnatari schiacciati dai debiti rinunciarono numerosi in tutta la Sardegna, cosicché per effetto di una legge regionale parte di questi debiti vennero abbuonati, purché le terre venissero ancora curate, purché non si rompesse il giocattolo di qualcuno.
Quasi tutto il raccolto del grano era da conferire all’ente, tenendo solo due quintali per ogni componente la famiglia. Mia madre ricorda di quella volta che il funzionario, capìta l’entità della quota da lasciare a mio nonno per via dei dodici componenti, pretese una maggior quantità. Mio nonno, grande e silenzioso lavoratore, esasperato, prese il forcone e glielo puntò alla gola, promettendogli che l’avrebbe usato se si fosse presentato a reclamare più del dovuto. Anche l’uva delle vigne impiantate nel 1957, doveva essere conferita alla vicina Cantina Sociale. Gli obblighi erano veramente tanti, sia in termini economici, versando la rata annuale per l’acquisto delle terre e facendo i salti mortali per saldare i conti aperti per i semi ed attrezzi, che in termini di fatica e di raccolti che prendevano per la maggior parte strade diverse da casa. La fatica era direttamente proporzionale alla fame e mia madre ricorda con tenerezza la mucca che mio nonno riuscì a comprare e che li aiutò a variare la loro dieta. Tardu Runda la chiamarono, perché rientrava tardi, ben oltre l’ora del tramonto ed era forse l’unico spirito libero in quella condizione di obblighi costanti.
Poi arrivarono anche le galline e l’alimentazione si arricchì di nuovi nutrienti. Capitava spesso che mia nonna e la vicina venissero a piedi in paese, con tre ore di cammino, con sos pischeddos, i cestini di canne intrecciate, pieni di uova da barattare con altri alimenti nel negozio, per poi rientrare con la corriera.
Mia madre e mia zia oltre a lavorare nel loro podere lavoravano anche in quelli altrui e si alzavano alle quattro ogni mattina, in modo da aiutare mia nonna ed i fratelli più piccoli, per poi proseguire la fatica nei campi vicini. Raccontano con amore e gioia del loro primo salario, speso in uno dei due empori del paese per comprare abiti nuovi ai loro fratelli.
La borgata contava diverse famiglie e numerosissimi ragazzini, braccia utili nei campi. L’ente inviava da Nuoro l’assistente sociale che aveva il compito di seguire quella gioventù dando loro degli incarichi. Mia madre non fu molto fortunata: l’assistente la indirizzò dal medico condotto per imparare a fare le iniezioni, che lei temeva come il peggior disastro. Pianse parecchio per quell’incarico, ma conoscendola bene so che inghiottì in fretta ed in silenzio anche quel boccone, e così in capo ad una settimana aveva già imparato. Le fa ancora quando capita, a parenti e vicini di casa, e l’ha insegnato anche a me.
Gli assegnatari e le loro famiglie rappresentavano anche un bel serbatoio di voti sotto la grande croce nazionale: avere altri orientamenti politici era un rischio troppo grande. Una famiglia si apprestava a dare sostegno ad un comunista per un comizio nella borgata e i funzionari, venutolo a sapere, decisero nel giro di poche ore che le ispezioni in quel podere avevano avuto esito negativo. Così alla famiglia venne revocato l’incarico, fu cacciata di casa, perse tutto ciò che aveva versato ed i pochi averi vennero caricati su un mezzo e portati in paese, dove vennero buttati per le vie del centro. Fu un paesano nella sua bontà a dare alloggio alla famiglia, in quello che a quei tempi, nella piazza Sant’Antonio, era il magazzino della sua attività.
Negli anni quelle terre, ormai divenute di proprietà degli assegnatari, diventarono campi coltivati liberamente e le case fruite in maniera più degna.
Io sono arrivata quando le ortensie adornavano l’uscio della casa dei miei nonni e quando dall’orto di fronte il lavoro di mio nonno si traduceva nel profumo inconfondibile dei pomodori maturi appena raccolti.
Sono arrivata quando la fatica passata, a me invisibile, aveva già dato i suoi frutti ma ho avuto la fortuna di nutrirmi di questi succulenti frutti, fatti di sacrificio e di semplicità.
Vedere oggi quelle case coloniche circondate da giardini variopinti e profumati non deve far scordare il passato, con tutta la sua polvere e con tutte le lacrime rimaste nascoste e mai asciugate.
Quel giorno era emozionato per via di quell’appuntamento importante che lo attendeva.
Con il compare si diressero verso i locali della parrocchia dov’era fissato l’appuntamento con i funzionari dell’ente.
Era emozionato, incredulo, speranzoso come ogni buon credente ed impaurito come ogni normale essere umano, con famiglia a carico da sfamare.
Era la giornata in cui, per effetto della riforma agraria i funzionari dell’Etfas - Ente per la Trasformazione Fondiaria ed Agraria in Sardegna - avrebbero venduto le terre da coltivare agli assegnatari ed alle loro famiglie, persone dalla grande volontà, o forse incoscienza, pari alla loro disperata fame.
A mio nonno venne dato il podere numero 25 a Capo Comino e a ricordarlo c’è ancora una targa in marmo sulla parete della casa colonica, con l’alloggiamento per il vessillo nazionale ed il nome di san Giovanni, il suo nome appunto.
Quelle terre erano allora distese di pietre, polvere ed erbacce che s’allungavano fino alle dune di sabbia bianca e l’opera per renderle fertili fu davvero notevole in termini di sacrifici, rinunce e grande isolamento.
I miei nonni allora avevano sette figli, tra cui uno appena nato, e iniziarono a lavorare quei campi da subito. Prendevano il pullman dal paese, distante quattordici chilometri e raggiungevano il podere dove, a seconda dei lavori da completare, restavano lì per giorni, senza alcun alloggio, se non la protezione di un telo steso sotto il carro.
Scrivo questi ricordi grazie ai racconti di mia madre, la primogenita, che mentre mi elenca date ed eventi torna indietro nel tempo con lucida sofferenza per asserire senza tentennamenti che il lavoro svolto su quelle terre li aveva resi schiavi. Infatti non tutti ressero e qualche famiglia rinunciò dopo qualche mese ad una vita fatta di sola fatica in una terra avara ed isolata, lontana da tutto e da tutti.
Per qualche anno lavorarono i campi da pendolari. Entrarono nella casa colonica il 5 gennaio del 1958 e quella notte nessuno dormì, per l’emozione del cambiamento che da una piccolissima dimora in una corte, oltre il porticato in paese li aveva portati in quell’enorme casa, dove le loro voci rimbombavano nel vuoto delle alte pareti che la luce delle candele non riusciva ad illuminare, e per l’attesa della befana. Chissà con quale spirito e con quali paure mia nonna donò in quella notte una manciata di mandorle ai suoi figli. E’ ormai tardi per chiederglielo, ma è lì che tanti anni dopo, bambina, vissi una splendida magia, quando vidi la befana nitidamente stagliata sullo specchio luminoso della luna piena. Nelle case non c’era ancora acqua, né luce. L’acqua per i campi veniva portata da una sorta di pozzo, in realtà uno scavo aperto nei pressi della piccola salina, dove l’acqua era salmastra e d’estate si seccava. Per l’acqua potabile invece, lei e mia zia Francesca andavano ad una sorgente distante tre chilometri, si caricavano la brocca sul capo e ripartivano verso casa.
Una volta accadde che giunte nei pressi di casa, una folata di vento fece volare la brocca dal capo di mia zia, frantumandosi a terra e spargendo il prezioso liquido, ormai irrecuperabile e vanificando tutta la fatica.
Negli anni successivi ogni mattina arrivava un trattore con la botte dell’acqua potabile, che stazionava nella borgata e così le famiglie potevano approvvigionarsi più agevolmente. D’inverno i panni si lavavano nel piccolo torrente che ancora oggi scende verso il mare, mentre d’estate circa una volta a settimana, mia madre o mia zia, riempito un sacco venivano in paese con il pullman, e poi si dirigevano alla fonte nella lontana periferia, dove si incontravano con le altre ragazze, scambiandosi notizie e pettegolezzi e finalmente qualche risata. Lavavano i panni sulle pietre, li stendevano ad asciugare e poi rifacevano tutto il percorso a ritroso, fino a casa con la corriera. Racconta mia madre che una volta mentre era alla fonte, arrivò mia nonna per darle il cambio e mandarla insieme ad altre ragazze dell’Etfas ad una gita organizzata dall’ente. Ma mia madre, testarda ed orgogliosa non ne volle proprio sapere. Le ho chiesto quale fosse la mèta della gita ed ho capito che forse non si era persa niente: le sue coetanee erano state portate in visita in altre Etfas dell’isola, altre zone isolate dove altre ragazze sacrificavano la propria giovinezza per un pezzo di pane.
Mentre i primi tedeschi si accampavano sotto i ginepri, i miei zii sotto il sole cocente e gli scatti fotografici dei turisti incuriositi, spietravano i campi: raccontano che in un solo anno tolsero 70 carrelli di pietre e ancora oggi il colpo della zappa non si insinua con facilità nel terreno.
I campi erano coltivati a grano mentre nei pressi delle case coltivavano un piccolo orto, con ortaggi primaverili, come fave, piselli e patate cui bastava l’acqua piovana, mentre d’estate non c’era possibilità di annaffiare il terreno. Per gli ortaggi estivi si dovette aspettare il 1962, quando in quella primavera arrivò finalmente l’acqua corrente, ed anche il decimo figlio per i miei nonni. La casa iniziò ad essere illuminata dalle lampadine nell’autunno dello stesso anno.
Gli assegnatari dei terreni all’atto del contratto si impegnarono a versare delle rate per trent’anni e a coltivare nel migliore dei modi queste terre, ricevendo per effetto del riservato dominio, costanti ispezioni da parte dell’ente per verificarne il lavoro e dall’ente stesso dovevano acquistare sementi, armenti, concimi e mangimi e tutto ciò che serviva loro per fronteggiare i lavori. Erano obbligati all’acquisto di materie in grande quantità in modo tale che si trovassero sempre nella posizione di debitori nei confronti dell’ente.
Arrivò un momento in cui, gli assegnatari schiacciati dai debiti rinunciarono numerosi in tutta la Sardegna, cosicché per effetto di una legge regionale parte di questi debiti vennero abbuonati, purché le terre venissero ancora curate, purché non si rompesse il giocattolo di qualcuno.
Quasi tutto il raccolto del grano era da conferire all’ente, tenendo solo due quintali per ogni componente la famiglia. Mia madre ricorda di quella volta che il funzionario, capìta l’entità della quota da lasciare a mio nonno per via dei dodici componenti, pretese una maggior quantità. Mio nonno, grande e silenzioso lavoratore, esasperato, prese il forcone e glielo puntò alla gola, promettendogli che l’avrebbe usato se si fosse presentato a reclamare più del dovuto. Anche l’uva delle vigne impiantate nel 1957, doveva essere conferita alla vicina Cantina Sociale. Gli obblighi erano veramente tanti, sia in termini economici, versando la rata annuale per l’acquisto delle terre e facendo i salti mortali per saldare i conti aperti per i semi ed attrezzi, che in termini di fatica e di raccolti che prendevano per la maggior parte strade diverse da casa. La fatica era direttamente proporzionale alla fame e mia madre ricorda con tenerezza la mucca che mio nonno riuscì a comprare e che li aiutò a variare la loro dieta. Tardu Runda la chiamarono, perché rientrava tardi, ben oltre l’ora del tramonto ed era forse l’unico spirito libero in quella condizione di obblighi costanti.
Poi arrivarono anche le galline e l’alimentazione si arricchì di nuovi nutrienti. Capitava spesso che mia nonna e la vicina venissero a piedi in paese, con tre ore di cammino, con sos pischeddos, i cestini di canne intrecciate, pieni di uova da barattare con altri alimenti nel negozio, per poi rientrare con la corriera.
Mia madre e mia zia oltre a lavorare nel loro podere lavoravano anche in quelli altrui e si alzavano alle quattro ogni mattina, in modo da aiutare mia nonna ed i fratelli più piccoli, per poi proseguire la fatica nei campi vicini. Raccontano con amore e gioia del loro primo salario, speso in uno dei due empori del paese per comprare abiti nuovi ai loro fratelli.
La borgata contava diverse famiglie e numerosissimi ragazzini, braccia utili nei campi. L’ente inviava da Nuoro l’assistente sociale che aveva il compito di seguire quella gioventù dando loro degli incarichi. Mia madre non fu molto fortunata: l’assistente la indirizzò dal medico condotto per imparare a fare le iniezioni, che lei temeva come il peggior disastro. Pianse parecchio per quell’incarico, ma conoscendola bene so che inghiottì in fretta ed in silenzio anche quel boccone, e così in capo ad una settimana aveva già imparato. Le fa ancora quando capita, a parenti e vicini di casa, e l’ha insegnato anche a me.
Gli assegnatari e le loro famiglie rappresentavano anche un bel serbatoio di voti sotto la grande croce nazionale: avere altri orientamenti politici era un rischio troppo grande. Una famiglia si apprestava a dare sostegno ad un comunista per un comizio nella borgata e i funzionari, venutolo a sapere, decisero nel giro di poche ore che le ispezioni in quel podere avevano avuto esito negativo. Così alla famiglia venne revocato l’incarico, fu cacciata di casa, perse tutto ciò che aveva versato ed i pochi averi vennero caricati su un mezzo e portati in paese, dove vennero buttati per le vie del centro. Fu un paesano nella sua bontà a dare alloggio alla famiglia, in quello che a quei tempi, nella piazza Sant’Antonio, era il magazzino della sua attività.
Negli anni quelle terre, ormai divenute di proprietà degli assegnatari, diventarono campi coltivati liberamente e le case fruite in maniera più degna.
Io sono arrivata quando le ortensie adornavano l’uscio della casa dei miei nonni e quando dall’orto di fronte il lavoro di mio nonno si traduceva nel profumo inconfondibile dei pomodori maturi appena raccolti.
Sono arrivata quando la fatica passata, a me invisibile, aveva già dato i suoi frutti ma ho avuto la fortuna di nutrirmi di questi succulenti frutti, fatti di sacrificio e di semplicità.
Vedere oggi quelle case coloniche circondate da giardini variopinti e profumati non deve far scordare il passato, con tutta la sua polvere e con tutte le lacrime rimaste nascoste e mai asciugate.
Ai miei nonni, a mia madre ed ai miei zii, al sudore di tutte le donne e degli uomini, ai giochi mai fatti di tante bambine e bambini e a chi, tutt’oggi, crede che quel tozzo di pane e quei terreni siano piovuti dal cielo.
Millina Spina, 13 Maggio 2017
Opera scritta il 07/06/2017 - 13:16
Letta n.1282 volte.
Voto: | su 4 votanti |
Commenti
Più che un racconto quel che ho scritto rappresenta la testimonianza delle fatiche patite per un tozzo di pane impolverato, e l'ho pubblicato qualche tempo fa su facebook in modo che lo leggessero alcuni miei paesani, convinti che le terre fossero state regalate. L'ho fatto per la mia famiglia e per tutte le altre che hanno vissuto le stesse condizioni, nella mia terra ma anche oltre mare. L'ho fatto perché la loro storia non dev'essere ignorata o sminuita da ipotesi infondate.
Vi ringrazio per esservi fermati a leggere questa storia e per averla apprezzata.
Grazie a tutti e...spero a presto!
Millina
Vi ringrazio per esservi fermati a leggere questa storia e per averla apprezzata.
Grazie a tutti e...spero a presto!
Millina
Millina Spina 08/06/2017 - 17:04
--------------------------------------
Un racconto colmo d'un passato di fatica e sudore e dove ogni piccola conquista era una grande vittoria, tutto aveva un diverso colore e sapore, tutto era apprezzato e condiviso, valori sani, bellissimo
genoveffa frau 07/06/2017 - 22:45
--------------------------------------
Bellissimo questo racconto di altri tempi, in cui non si misurava la fatica come ora, in cui si lavorava senza lagnarsi affatto, in cui si curavano terre aride e poco irrigate. Un bel ritratto di famiglia. Complimenti. Giulio Soro
Giulio Soro 07/06/2017 - 18:03
--------------------------------------
Ciao Millina ho letto il tuo bellissimo racconto con tanta emozione, quella che susciti in me ogni volta, quando racconti la storia che è stata della nostra amata Sardegna...
pezzi di cuore dei tuoi cari. Vissuti, respirati con polvere e profumi, quelli buoni anche se con tanta sofferenza patiti. Bellissimo!
Un abbraccio e bentornata!
pezzi di cuore dei tuoi cari. Vissuti, respirati con polvere e profumi, quelli buoni anche se con tanta sofferenza patiti. Bellissimo!
Un abbraccio e bentornata!
margherita pisano 07/06/2017 - 17:22
--------------------------------------
Splendido racconto.Molto toccante.
antonio girardi 07/06/2017 - 15:56
--------------------------------------
E molto evocativa, di racconti soli sentiti raccontare dalle nostre mamme, vissuti con la fantasia e, tuttavia pregni di rispetto per tutti i sacrifici, che quasi tutti i nostri antenati hanno fatto per migliorare il tenore di vita. Brava Millina, fai sempre riflettere.o
Teresa Peluso 07/06/2017 - 14:11
--------------------------------------
Inserisci il tuo commento
Per inserire un commento e per VOTARE devi collegarti alla tua area privata.