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Una faccia di cera

Era morta. Mortissima. Stramorta. La cosa dentro la vasca era morta. Sì, perché quella non era più la professoressa Marini, ma una cosa gonfia e livida che galleggiava come una camera d’aria. Era stato lui. Era stato lui a fare quello. Arretrò con le spalle al muro. L’aveva uccisa per davvero. Come aveva potuto avere ucciso un essere umano? Si gettò sul water e vomitò. Me ne devo andare subito, si disse. Ma subito dopo pensò che se ne fosse andato così, senza aver ripulito il posto dalle sue tracce e impronte, subito sarebbero risaliti a lui. E lui sapeva di essere innocente. Certo la sua presenza lì, la presenza del cadavere della professoressa, erano tutti e due fattori che avrebbero convinto chiunque della sua colpevolezza. Ma poi ragionò un attimo: il cadavere era già livido e gonfio, questo voleva dire che l’assassinio doveva essere successo alcune ore prima almeno, e che ci faceva lui in quel posto da così tanto tempo? Era venuto a trovare la professoressa Marini da ormai una decina d’ore, ma non ricorda nulla a parte un normale incontro tra due professori e l’aver sorseggiato insieme un caffè. Certo, il caffè avrebbe potuto essere stato drogato ed è per questo che lui non ricorda nulla di quello che era successo dopo. Era elementare: lui incontra la professoressa Marini, ma qualcuno ha messo qualcosa nel caffè, forse di entrambi, così poi in tutta tranquillità ha potuto uccidere la professoressa priva di sensi e adagiare il suo corpo vicino alla vasca da bagno, per far credere che lui fosse l’omicida.
Si dette da fare e cercò di cancellare le sue impronte. Ripulì la vasca, adagiando temporaneamente il corpo della Marini sul pavimento, ripulì poi il corpo della professoressa e con una certa difficoltà lo rimise dentro la vasca. Pulì i sanitari e i vetri e tutte le maniglie che vedeva. Non dovevano trovare tracce di lui. Non poteva permetterselo. L’ombra di un sospetto avrebbe inficiato la sua reputazione come professore accademico pronto a un grosso premio per una ricerca sul genoma umano da lui condotta ultimamente.
Quando fu sicuro di aver cancellato tutte le impronte, con fare furtivo, si allontanò dall’appartamento e si diresse in strada. Salito in macchina sentì squillare il cellulare. La voce dall’altra parte del filo non prometteva nulla di buono. – Signor Ortlieb? –Sì – rispose – sono io. –Bene, sappiamo tutti e due cosa ha combinato stasera a casa della professoressa Marini! – Ma di cosa sta parlando? – rispose il professore. – Lei ha ucciso la professoressa Marini – disse la voce. – Ma di cosa state parlando. Siete impazzito? – La verità la sappiamo tutti e due. Se non vuole avere grane prepari centomila euro in una valigetta e aspetti una mia prossima chiamata. – disse la voce e riattaccò. Ora il professore era nel panico. Non poteva andare alla polizia, non sapeva se aveva ripulito con sufficiente accuratezza la scena del crimine, non aveva inoltre un alibi per quella sera. Ma pagare una cifra così alta a un perfetto sconosciuto era doppiamente pericoloso: primo non aveva garanzie che il suo interlocutore avrebbe taciuto la faccenda nonostante il pagamento; secondo, qualcuno, magari il ricattatore stesso, avrebbe potuto raccontare tutto alla polizia, anche in forma strettamente privata.
Decise di aspettare e di continuare a vivere la sua vita come aveva sempre fatto. Andò alle lezioni, continuo a seguire i dottorandi che aveva sotto la propria egida, a vedere due volte alla settimana Barbara, la sua fidanzata, a giocare a tennis con il suo amico Reggiani ogni sabato mattina.
L’omicidio della Marini suscitò un’eco immediata nella piccola cittadella universitaria, dove la professoressa era conosciuta e stimata: fu fatto un sit-in di preghiera la sera del venerdì per ricordare la sua figura. Gli inquirenti non si sbilanciarono: la prima ipotesi che fu formulata fu un omicidio in seguito a una rapina, anche se non si capiva per quale motivo il ladro avrebbe dovuto inscenare l’annegamento nella vasca della Marini. I giornali per una settimana non parlarono d’altro, poi l’interesse scemò, visto anche che non si stavano facendo progressi nell’inchiesta.
Naturalmente il professore fu interrogato come conoscente della vittima, ma tacque il fatto che era andato dalla professoressa per un caffè. Fortunatamente aveva cancellato per bene le sue impronte, e poi Barbara, la sua fidanzata, avrebbe detto di essere stata in sua compagnia quella sera.
Era passata una settimana e di lì a poco la morte della Marini sarebbe diventato solo l’ennesimo fatto di cronaca nera irrisolto e senza colpevoli, quando il cellulare del professore squillò di nuovo. – Sono sempre io – disse la voce all’altro capo del telefono. – E allora che cosa vuoi da me? –gli rispose il professore. – Non fare il finto tonto. Mi devi centomila euro o altrimenti andrò a spifferare tutto alla polizia. – disse la voce. – E chi mi garantisce il tuo silenzio? – chiese il professore. – Beh, centomila euro sono una bella cifra per comprare il silenzio di qualcuno, non è vero professore? –Bene e dove dovrei portare questi soldi? – Affitta una cassetta di sicurezza alla stazione, mettici dentro la valigetta e aspetta che io ti richiami – disse la voce. – Va bene, quando? – Domani mattina allo scoccare del mezzogiorno – fu la risposta.
Attaccò il telefono e si mise la testa tra le mani. Era accaduto così tutto in fretta e la situazione era così imbarazzante. Ma non aveva altra scelta. Avrebbe consegnato i soldi, ma poi sarebbe rimasto in zona e avrebbe aspettato di vedere l’uomo addetto al recupero del denaro, poi l’avrebbe seguito e in qualche modo l’avrebbe ucciso. Di questo era sicuro. L’uomo andava eliminato. Si fermò un attimo a pensare: era diventato di punto in bianco uno spietato assassino? Che cosa gli stava succedendo? Era ancora lui l’esimio professore che parlava del bosone di Higgs e delle particelle subatomiche? Convenne che la situazione era troppo delicata per il suo futuro e che non aveva scelta. L’uomo andava eliminato.
Passò la nottata in bianco, in preda ai più foschi presagi: rivedeva ancora il corpo tumefatto della Marina galleggiare nell’acqua privo di vita. Morto. Stramorto. E lui adagiato al lavabo con una gran emicrania e un senso di spaesamento come se non capisse perché era lì.
Poi pensava alla consegna del denaro e cominciò a porsi mille interrogativi, ponderò il caso che qualcuno lo seguisse prima della consegna della valigetta o che il ricattatore sapesse tutto della sua vita, chissà quanto tempo ha passato a spiarlo e a pedinarlo, a scuola, in palestra, a casa sua e di Barbara.
Pensò anche al momento in cui avrebbe consegnato il denaro, riposto la valigetta nella cassetta di sicurezza e poi si sarebbe dissolto dalla stazione senza lasciare traccia, se non il cappotto che aveva intenzione di togliersi per indossare una tuta simile a quella degli addetti alla sicurezza.
Tutto doveva andare come aveva stabilito e se avesse mantenuto i nervi saldi l’operazione sarebbe andata in porto. Aveva ancora una Beretta calibro nove con matricola abrasa che si era procurato durante gli anni Ottanta quando gambizzavano i professori più in vista. La teneva in una custodia rigida nello scompartimento della piccola cassaforte che aveva in casa.
La mattina dopo si svegliò presto, fece colazione, si vestì e decise di andare a fare un po’ di jogging nel parco, per poi prepararsi per andare alla stazione. Fece due giri del parco, ma poi dovette rallentare e fermarsi, era troppo stanco. Il problema era che la faccenda lo prosciugava di tutte le sue forze, anche fisiche, e dirigeva il suo interesse su di un’unica questione, che gli stava così a cuore.
La mattina passò rapidamente e quasi non s’accorse che erano quasi le dodici. Prese la valigetta, la pistola ben nascosta sotto gli abiti, attaccata alla cintura, e indossò il cappotto a nascondere tutto.
Arrivato alla stazione andò allo sportello e si fece dare una cassetta di sicurezza, la cui chiave gli ballonzolava nelle tasche vuote. Era la numero 103. Si diresse alle cassette di sicurezza e aprì la 103, mise dentro la valigetta e se ne andò, trafelato. Erano le dodici. Si allontanò, ma solo un poco, andò nel gabbiotto degli addetti alla sicurezza e si mise un uniforme che trovò su di uno scaffale. Lasciò lì il cappotto, si mise un cappello da baseball in testa e uscì, dirigendosi di nuovo verso le cassette di sicurezza, ma tenendo una debita distanza. Si sedette a un caffè dal quale si vedeva chiaramente gli spostamenti nella zona delle cassette e aspettò. Passarono pochi minuti che a lui sembrarono un eternità ed ecco il suo uomo che si dirigeva verso la cassetta. Con fare guardingo aprì la cassetta, che il professore si era preso la premura di lasciare aperta, tirò fuori la valigetta e dando un occhiata in giro si allontanò. Il professore aspettò un po’ prima di incamminarsi dietro all’uomo. Voleva dargli un certo vantaggio e poi non voleva farsi scoprire per una banale questione di impazienza.
Si alzò e andò nella direzione in cui era andato l’uomo, che si stava dirigendo verso il parcheggio. Meno male che il professore aveva parcheggiato la sua macchina poco distante, avrebbe avuto tutto il tempo di saltare in macchina e di inseguirlo guidando. L’uomo fece ancora qualche passo e poi si avvicinò a una berlina verde, e saltò su con la valigetta. Il professore, quasi correndo, si diresse alla sua macchina e mise in moto. Aspettò che la macchina partisse e poi, a debita distanza, la seguì. La vettura uscì dalla stazione e si diresse fuori città, nella zona delle autostrade. Prese la tangenziale. Il professore si stava chiedendo cosa avrebbe fatto ora che si trovava in quella situazione: pensò di aspettare che il suo uomo si fermasse in una stazione di servizio per fare benzina o per mangiare. L’avrebbe sorpreso lì.
La vettura davanti procedeva a velocità moderata, indubbiamente l’uomo aveva raggiunto il suo scopo e non aveva nessuna intenzione di darsi a una fuga spericolata. Per contro il professore era nervoso e tamburellava la mani sul volante. Di lì a poco sarebbe venuta la parte più difficile. Non aveva mai ucciso un uomo e quella era la prima volta. Eppure doveva farlo, se voleva che le cose andassero come aveva previsto. Eliminato l’unico testimone del fatto, avrebbe potuto continuare la sua vita tranquillamente, come sempre era stato.
La macchina mise la freccia e svoltò in un autogrill, accarezzato dal sole vivido della giornata. Il professore svoltò anch’esso e parcheggiò la macchina poco distante, dopo che aveva aspettato che l’uomo scendesse. Poi, con fare deciso, scese dalla vettura e aspettò l’uomo nei bagni, sperando che l’uomo avesse delle necessità fisiologiche. Poco dopo l’uomo entrò, andò verso l’orinatoio e ci rimase qualche minuto. Non c’era nessuno dentro il bagno tranne loro due. Il professore allora uscì e si avvicinò all’uomo. Gli puntò la pistola alla vita e gli disse di non fare sciocchezze. L’uomo non fiatò. – E ora andiamo, forza – disse il professore. – Va bene, va bene ma stai attento con quell’arnese. – Non ti preoccupare, so che cosa faccio. Andiamo alla tua macchina. I due si diressero alla vettura dell’uomo, il professore teneva l’arma ben puntata alle costole dell’uomo, fermo e risoluto nel suo intento. –Dài, forza, apri la macchina e sali. L’uomo fece come gli era stato detto. Pochi attimi dopo i due erano sulla vettura, il professore teneva l’arma ben in pugno, diretta verso l’uomo. – Parti – gli intimò il professore. – Se è solo per i soldi prenditeli e lasciami andare. –Figurati, sono arrivato a questo punto e ora ti debbo lasciare andare? – disse il professore.
Percorsero un bel tratto di strada e poi il professore, notata una piazzola di soccorso nascosta dalla vegetazione e poco illuminata dal sole, intimò all’uomo di svoltare.
L’uomo fece come gli aveva detto il professore e i due si ritrovarono in una ombreggiata piazzola di emergenza. – Mi dispiace ma la tua corsa finisce qui – disse il professore, puntandogli la pistola alla tempia. L’uomo ebbe uno scatto e con tutte le sue forze afferrò le mani dell’uomo che teneva la pistola e lo costrinse ad abbassare l’arma. Ci fu una colluttazione tra i due. Il professore aveva molte forze in corpo, il suo fisico era allenato, dato lo sport che faceva, e riuscì a riprendersi l’arma che l’uomo gli aveva sfilato. Poi si sentì uno sparo. Il cielo declinava verso uno scialbo pomeriggio e lasciava sui vetri una patina di umidità. Il professore si accorse subito di essere stato colpito. L’uomo teneva ora la pistola in pugno e gli disse: - Mi dispiace professore, ma è la sua corsa a finire qua. L’uomo aprì la portiera, fece rotolare il professore fuori dalla macchina e gli sparò di nuovo. Il professore, rantolante, si teneva le budella, dove era stato colpito. Sentiva le forze venirgli meno e uno strano ottundimento farsi padrone di lui. Guardò in alto, verso il cielo, e non gli sembrò di averlo mai visto così limpido, poi una patina di morte gli scese sul volto e la sua faccia si fece di cera.



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Opera scritta il 25/06/2017 - 12:25
Da Giulio Soro
Letta n.1247 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


Un bel racconto che avvince e convince per la costruzione della trama e la spigliatezza della scrittura. Complimenti, 5*. Aurelia

Aurelia Strada 25/06/2017 - 17:14

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un po duro come scrittura ma si legge molto bene

GIANCARLO "LUPO" POETA DELL 25/06/2017 - 17:02

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