Girava una per certi versi inquietante voce, dopo la fine della grande guerra.
Per alcuni la storia aveva un fondo di verità; per altri era poco più che una leggenda; una bufala bella buona, invece, per chi aveva altro a cui pensare durante un non facile dopoguerra.
La strana faccenda pare fosse nata tra le comunità montane del Carso, per poi spargersi a macchia d’olio sino a raggiungere, in breve tempo, i paesi di pianura di qua e di là dal grande fiume.
La storia, in breve, diceva questo: «Un militare appartenente al corpo degli Alpini, che aveva combattuto tra le pietraie del Carso, uscito miracolosamente vivo dalla terribile mattanza, pur rammentando sin nei minimi dettagli lo scempio di cui era stato testimone e protagonista, non riusciva a ricordare il proprio nome, la regione e il paese di provenienza. Così, una volta congedato, cappello con la penna nera in testa e zaino in spalla sopra il pastrano consunto, aveva iniziato a scendere lentamente a valle, fermandosi qualche giorno in ogni paese, cascina e financo casa isolata che incontrava lungo il cammino; per capire, parlando con la gente del luogo, se qualcuno riconoscesse in lui l’amico, il parente, il figlio. E pare che ogni madre, in attesa di un improbabile ritorno, che lo incontrasse; pur non riconoscendo il volto agognato, trovasse comunque nelle sue parole e nel suo atteggiarsi, un rimando, un ricordo dell’amato figlio.»
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Il capostazione lasciò passare il treno proveniente da Bologna, diretto a Ferrara, dopodiché azionò lo scambio per consentire al merci in attesa di proseguire verso la stazione di Bologna.
«E questo?» fece stupito, muovendo solo il lato destro della bocca, tenendo serrato nell’angolo sinistro delle labbra un moncone di sigaro toscano, quando alzando il capo vide un militare camminare lungo la massicciata.
Continuando ad osservarlo, attraversò i binari, si arrestò sulla banchina della piccola stazione, e quando questi si fermò davanti a lui; notando la barba incolta, il cappello d’alpino e la divisa logora, sgranò gli occhi e afferrando il toscano fra il pollice e l’indice della mano sinistra, biascicò: «Ma allora… tu… tu sei… non posso crederci…»
«Tu mi conosci, sai chi sono?» chiese speranzoso, il milite dal giovanile volto ombrato d’antica malinconia.
«Sì!» esclamò il capostazione. Correggendosi subito dopo: «Non personalmente, fino a pochi giorni fa, pensavo che quella del soldato smemorato, fosse solo una delle solite storie; fantasticherie, a volte macabre, lasciatoci in eredità dalla sporca guerra.»
«Comprendo. Non so spiegarmi il perché, ma più o meno, è questa la reazione che suscita la mia comparsa.»
«Due giorni fa, quando un macchinista mi aveva detto di averti visto attraversare il ponte sul Po, l’avevo preso per uno scherzo. Ora invece, ti ritrovo qua, in carne ed ossa…» disse ancora il capostazione squadrandolo da capo a piedi. «Incredibile… incredibile…» ripeté, grattandosi la fronte. Poi, riprendendosi dallo stupore, gli sovvenne di chiedergli: «La guerra è finita tre anni fa, e tu, da allora cammini… ma fino dove vuoi arrivare?»
«Sin dove troverò una madre che possa, abbracciandomi, pronunciare commossa il mio nome» rispose prontamente il soldato. Poi, indicando le parallele di ferro che andavano a perdersi nella foschia di un giorno autunnale, aggiunse: «Oppure, fin dove mi condurranno i binari.»
«Ho capito» fece il capostazione. «I binari prima o poi finiranno, spero prima della vita ma non prima che riesca a trovare il calore del tuo focolare. Buona fortuna, soldato» aggiunse con voce increspata, rientrando nel suo ufficio.
«Posso dormire qui, stanotte?» gli chiese allora il milite, indicando la piccola e fredda sala d’aspetto.
«Fai pure come se fossi a casa tua…» rispose l’altro con un filo d’ironia, aggiungendo: «le panche di legno, non saranno il massimo per riposare.»
Il giovane si grattò la barba incolta. «Dopo che ho dormito, in piedi e con un occhio solo, nel fango putrido delle trincee, cullato dal canto delle mitragliatrici, vuoi che mi spaventi farlo disteso sopra una panca di legno?»
«No, eh?» fece il capostazione sorridendo. «Ora scusa, ma il dovere mi chiama» tagliò corto, rimettendo il toscano nell’angolo sinistro della bocca prima di chiudere la porta dell’ufficio.
«Vado in paese. Tornerò stasera» lo informò il soldato alzando il tono, indicando le case oltre i campi.
Il capostazione, da dietro i vetri dell’ufficio, annuì.
Scese lo zaino dalle spalle, ne trasse un pezzo di formaggio stagionato: prezioso alimento avuto in dono durante la precedente sosta. Rimise lo zaino sopra le spalle e, addentandone un pezzo, s’incamminò lungo la strada sterrata.
Quando giunse nei pressi di una casa isolata, l’abbaiare allegro di uno scodinzolante cane bianco di taglia media, aggrappato con le zampe alla recinzione arrugginita che delimitava il cortiletto, dividendolo da una porzione pur essa recintata adibita ad orto, attirò la sua attenzione. «Toh!» fece avvicinandosi, lasciando cadere oltre la recinzione il pezzo di formaggio che ancora stringeva fra le dita.
«Ehi tu! Cosa hai dato da mangiare al cane?» domandò con tono aspro una donna piccola e minuta, che portava uno scialle grigio, scialbo come lo sguardo, sopra le spalle e indossava un’ampia e lunga gonna nera, affacciandosi sull’uscio di casa.
«E’ solo formaggio, non si preoccupi, signora» rispose lui, sorridendo.
«Sei un soldato, da dove arrivi? Ci conosciamo?» gli chiese allora, avvicinandosi.
«Non lo so. Me lo dica lei» rispose levandosi il cappello e, di seguito, ravvivando con la mano i capelli unti.
«Se te lo sto chiedendo, è perché non lo so, ti pare?» ribatté la donna, innervosendosi.
«Ha ragione, mi scusi» fece lui, rimettendosi il cappello. «Mi era parso che il cane mi avesse riconosciuto, così mi son detto: “Vuoi vedere che finalmente ho trovato qualcuno che saprà dirmi come mi chiamo?” ma mi sbagliavo. Buona giornata, signora» concluse, mentre il cane, inserendo la lingua tra le larghe maglie, gli leccava le dita della mano che teneva appoggiata contro la rete metallica.
«Aspetta un attimo, ragazzo!» esclamò la donna, osservando con sguardo meditabondo il cane leccare, scodinzolando, la mano del forestiero. «Che strano comportamento, solitamente ringhia e abbaia mostrando i denti, pure a chi passa dall’altro lato della strada.»
«Si vede che gli sto simpatico. Come si chiama?» le chiese allora, accarezzandogli il muso passando le dita dell’altra mano tra le maglie della recinzione.
«Si chiama, Argo… è il cane di mio figlio… ma forse è più giusto dire: era!» rispose lei, commuovendosi.
Il milite puntò gli occhi dentro quelli liquidi della donna. «Comprendo» sussurrò serrando la mascella.
Fu allora, quando gli sguardi s’incrociarono, che la donna scoppiò in un pianto dirotto.
«Mi scusi, non volevo… mi perdoni…» diceva lui in tono contrito, mentre il cane cercava di confortarla rizzandosi sulle zampe posteriori, sino ad arrivare a leccarle il viso.
«Non è colpa tua… I tuoi occhi, il tuo sguardo, per un attimo m’è parso di vedere il mio povero figlio» disse lei. E accarezzando il cane, aggiunse: «Persino lui, sembra aver trovato qualcosa di Luca, in te.»
«Dunque, suo figlio si chiama, Luca…» disse stringendo le tempie fra le dita della mano destra. Poi, rinvenendo da una breve riflessione, concluse sconfortato, lasciandola allibita: «No! Il nome non mi dice niente. Purtroppo, non sono io.»
«Mah! Io non intendevo questo!» esclamò sconcertata la donna. In quel mentre le sovvenne la storia dello smemorato. «Aspetta un momento… Ma allora, tu… tu sei il soldato di cui tutti parlano. Quello che gira l’Italia per trovare chi lo possa riconoscere.»
«Sì» rispose laconico, intristendosi.
«Ma allora è tutto vero. Che storia… ne parlavo proprio ieri con una mia amica: “Chissà, magari esiste veramente, e un giorno o l’altro busserà alla mia porta e io lo abbraccerò, gridando: bentornato a casa, Luca!” le dicevo. E ora… ora, tu sei qui… ma no, non sei il mio Luca. Avrei tanto desiderato che lo fossi, ma non lo sei, mi spiace.»
«Sarei stato felice di esserlo… Sapesse quante madri, incontrate in questi tre anni lungo il cammino, si sono messe a piangere, trovando qualcosa dei loro amati figli dentro uno sguardo o un semplice atteggiarsi» provò a confortarla narrando del suo girovagare in cerca dell’affetto perduto. «E’ durissimo, andarsene, lasciando dietro di sé una scia di rinnovato rimpianto nel cuore di una madre che, pur non credendoci sino in fondo, ogni sera prega perché ancora spera.»
La donna annuiva ascoltandolo. «Ti va di entrare e parlare un po’?» gli chiese alla fine.
Il soldato annuì. Allora la donna aprì il cancello e fece accomodare, lui e Argo, dentro casa.
«Rammento ogni minuto, ogni secondo passato nelle trincee, tra le pietraie del Carso. I tiri di mitraglia, i colpi dell’artiglieria, non mi hanno mai abbandonato. Solo la mia identità pare essere precipitata in un vortice senza ritorno» diceva seduto accanto al tavolo, accarezzando Argo mentre lei preparava il caffè.
«Cosa può aver reso possibile, questo incubo?» gli chiese versando il caffè nella tazza, precedentemente posta sul tavolo di fronte a lui.
«Se lo son chiesti per mesi, medici e psicologi dell’ospedale militare…» sospirò, guardò lontano, molto lontano «io rammento, venir giù un diluvio di acqua e di fuoco, quella notte. Poi, un colpo di mortaio colpire la trincea ferendo e uccidendo. Fiamme, fumo, urla disperate; chi era ancora in grado di farlo, seppur ferito, provò a scappare da quell’inferno abbandonando armi e quant’altro… Io stavo cambiando la divisa fradicia di acqua, sudore e paura, dopo essere rientrato da un assalto strisciando tra i reticolati e, seppur ferito alla testa, mi misi a correre verso le retrovie a torso nudo. Non avevo lasciato soltanto il fucile, lo zaino e la giacca coi documenti là dentro… ma pure la mia identità» raccontò con voce emozionata, stringendo tra le mani la tazza calda. Alzò le spalle. «Alla fine, non riuscendo a cavare un ragno dal buco, informarono il comando che, pur non ricordando chi fossi, ero pienamente in grado d’intendere e volere. Così, non potendo arruolare un soldato senza nome, dalla psiche presumibilmente provata; l’esercito, o chi per esso, ebbe una brillante idea, non saprei dire fino a che punto legale… Per farla breve: dopo avermi curato le ferite del corpo, mi pestarono in mano il foglio di congedo con un nome posticcio» spiegò, amaro. Poi trasse dalla tasca un foglio stropicciato e, mostrandolo alla donna che nel frattempo si era accomodata di fronte a lui, concluse: «Ecco qua! Per loro dovrei chiamarmi: Gerardo Scarfiotti, nato a Treviso, venticinque anni fa.»
La donna, prima lesse, poi gli chiese: «A te, il nome e la città, non dicono nulla?»
«Beh, se devo essere sincero, qualcosa mi dice… Gerardo è il nome del colonnello che dirigeva l’ospedale militare di Treviso, dove fui ricoverato… Scarfiotti, invece, no, non mi dice nulla. Sarà stato il cognome di un qualche ricoverato deceduto per le gravi ferite riportate in battaglia; magari estratto a sorte, come in una macabra lotteria» concluse con un’espressione di ribrezzo disegnata sul volto.
«Mah! E’ questo il modo di trattare chi ha servito con onore la patria!» proruppe sgomenta.
«Non vorrei apparirle insensibile...» iniziò a dire in tono pacato, fissandola negli occhi. Proseguendo livoroso: «Carne da cannone! Solo questo siamo stati per quei generali tronfi di retorica, in cerca solamente di gloria e medaglie!»
Continuarono a conversare per un’altra mezzora e, alla fine, la donna dal volto antico, segnato da rughe di fatica e dolore, accompagnandolo alla porta lo congedò dicendogli: «Ti auguro di ritrovare una madre che possa riconoscerti.»
«Sa cos’è? In ogni madre che ho incontrato e mi ha detto di aver visto in me, qualcosa del loro figlio, ho trovato un po’ del mio sereno passato… Ho ascoltato il mio cuore battere forte come quello di un figlio, per ognuna di voi…» la guardò con affettuoso trasporto «spero non le spiaccia, se l’annovero fra loro.»
La donna si commosse sino alle lacrime, l’abbracciò e, baciandolo, disse: «Certo che no, stupido ragazzo!» Subito dopo, portandosi una mano davanti alle labbra, sgranando gli occhi si corresse: «Scusami, non volevo. Mi è scappata di bocca… era così che apostrofavo il mio Luca.»
«Non si preoccupi, la capisco» fece lui, sorridendo.
Nel momento di congedarsi definitivamente, la donna si rammentò di un particolare. «Non mi hai chiesto nemmeno il mio nome, non t’interessa saperlo?» domandò.
Il soldato, ormai giunto sulla soglia, si voltò e, scuotendo il capo, rispose: «No, quel che conta è l’emozione, il sentimento… Non avendo io un nome da offrirle, è giusto così» e se ne andò lasciandola interdetta.
“Eppure, anche fra queste case, come in quelle di altri luoghi lasciati alle spalle, mi par di scorgere angoli frequentati. Uscirò mai da questo incubo? Ci dovrà pur essere da qualche parte un posto dove poter fermarmi e lì, arrendendomi sereno a un futuro di pace, lasciar correre la vita sino al suo naturale compimento, senza temere che venga spezzata” rifletteva, attraversando lentamente la via sulla quale si affacciavano le case del piccolo borgo.
Volse lo sguardo all’intorno: le pareti della stanza annerite dall’umidità e dal fumo, la luce crepuscolare di una lampadina appesa a un filo al centro del soffitto, gli infissi da cui filtrava aria gelida, tre panche di legno appoggiate alle pareti e le mattonelle smosse dove era facile inciampare, gli parvero il triste riproporsi di un déjà-vu. «Cupe e gelide, sono tutte così uguali, le sale d’aspetto delle stazioni» disse fra sé, sorridendo amaro.
Sistemò lo zaino sopra la panca, si sdraiò usandolo come cuscino; poi, stringendosi nel pastrano chiuse gli occhi e chiedendosi se fosse realmente uscito vivo da quella trincea, si preparò a trascorrere un’altra notte pregna di dubbi, e incubi.
Il fischio del primo treno in transito, lo svegliò poco dopo il sorger dell’alba. Aprì gli occhi e, fissando il soffitto, pensò: “Un altro inutile risveglio, l’incubo è sempre ben presente.”
Si alzò, prese lo zaino, lo mise sopra le spalle, sistemò il cappello e uscì.
“Guardalo lì, sembra un generale in alta uniforme” pensò, osservando il capostazione venire verso di lui con indosso una divisa intonsa, al posto di quella lisa e lercia del giorno prima.
«Allora, soldato! Sei riuscito a dormire?» gli chiese, fermandosi davanti a lui.
«Come un ghiro!» rispose ironicamente. Poi, indicando la giacca, proseguì sulla stessa linea: «Complimenti, auguri e figli maschi.»
Il capostazione lo guardò stranito.
“No, non l’ha proprio capita” pensò il soldato. Allora, indicando la giacca, aggiunse: «L’abito da cerimonia.»
L’altro rifletté un attimo, prima di sciogliersi in una grassa risata. «Ma no, purtroppo son già sposato.» Si guardò attorno con fare circospetto e, abbassando il tono, precisò: «E se potessi tornare indietro, ti giuro che non lo rifarei.» Poi, pizzicando il polsino sinistro della giacca, spiegò il motivo di cotanta esibita eleganza: «Però ci hai quasi preso. Questa la indosso solo nelle occasioni speciali. E oggi, è una di quelle.»
«Allora, se non è un matrimonio, cos’è, un funerale?» gli chiese con sarcasmo il soldato.
Questa volta il capostazione non rise, s’imbrunì. «Qualcosa di simile» rispose, indicando la panchina. «Fra un paio d’ore, transiterà un convoglio molto particolare. Qua si riempirà di gente, venuta apposta dal circondario per rendere l’onore dovuto al milite ignoto.»
«Ah!» fece il soldato. Poi, senza aggiungere altro, scese dalla panchina e, camminando in mezzo ai binari, lo salutò con un laconico: «Addio.»
Il capostazione rimase qualche attimo ad osservarlo perplesso, prima di chiedergli: «Tu non lo vuoi salutare, il tuo camerata?»
Il soldato fece ancora un paio di passi, poi si arrestò in mezzo ai binari fissando le traversine, infine si girò. «No!» esclamò lapidario.
«No!» ripeté allibito il capostazione. «Perché, no?» gli sovvenne di domandargli subito dopo.
Il soldato si strinse nelle spalle, corrugò la fronte inarcando le sopracciglia. «Sono io, il milite ignoto!» rispose, prima di voltarsi e riprendere il cammino.
Il capostazione si levò il berretto. «Questo, è tutto matto» disse fra sé, grattandosi la testa.
FINE
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