Franco frequentava la seconda elementare e tutte le mattine percorreva la stessa strada per raggiungere la scuola. Durante il tragitto s'incontrava con altri compagni ed insieme con alcuni di loro andava a comprare il solito panino, che consumava durante la ricreazione.
Un giorno, mentre andava a scuola, si accorse che un cane scarno lo seguiva e con gli occhi, dallo sguardo triste, già esprimeva chiaramente la sua necessità.
Franco era buono ed educato, ma anche i suoi compagni non erano da meno; pertanto, subito ognuno di loro gli porse un po' di pane, che il cane ingoiò in un baleno. Franco gli accarezzò affettuosamente la testa ed il cane poi lentamente si allontanò. Ricevette ogni mattina un pezzo di pane e una carezza.
Passarono i giorni ed anche i mesi, quell'amicizia si strinse sempre di più, tanto da suscitare invidia o chissà quale altro ignobile sentimento in un ragazzo di strada di nome Epifanio, che abitava vicino a quella scuola.
I genitori di Epifanio erano due maleducati ed al figlio insegnavano ciò che avevano appreso; anzi, facendo propri quegli insegnamenti ricevuti, li trasmettevano meglio al proprio figlio, che era un perfetto delinquente.
Un giorno, infatti, senza alcun motivo aggredì Franco, imponendogli di non toccare il cane e di non dargli da mangiare. Con parole convincenti Franco cercò di fargli capire che anche il cane era una creatura di Dio e che aveva anch'esso il diritto di vivere; anzi sollecitò Epifanio a dargli anche lui del cibo, magari i resti, soprattutto perché il cane stava quasi sempre di fronte alla sua abitazione. Epifanio non comprese ciò che Franco disse e repentinamente gli sferrò un pugno, che lo colpì fortemente al viso.
Il cane, di solito seduto o sdraiato vicino al muretto che circondava la scuola, senza mai dare fastidio a nessuno, sentì il pianto di un bambino, di cui la voce gli era familiare. Di scatto si levò e, digrignando, con rabbia si scagliò contro Epifanio che, impaurito, corse subito a ripararsi a casa sua. Epifanio incise nel suo cuore la vendetta, mentre Franco accarezzò il suo cane.
L'indomani Franco ritornò a scuola, ma il cane non si presentò. Passarono i giorni, ma il cane non si vide più.
Pianse il bambino l'amico e la pena fu così forte che si ammalò.
Epifanio, non vedendo più Franco, che ogni mattina passava davanti alla porta della sua casa, chiese di lui ai suoi compagni di scuola; appresa la triste notizia e resosi conto del valore dell'amicizia, nonché del grande male che aveva causato a Franco, corse subito a casa dello stesso, dove trovò la madre mesta seduta accanto al figlio e, visto il bambino dormiente, molto malato, disteso nel suo letto, a mani giunte con singhiozzi e pianto, rivolgendosi al cielo pregò, pregò così: "Io non so preghiere, perché mai nessuno me ne insegnò; io sono un ragazzo cresciuto qua e là. I miei genitori sono sempre in guerra con tutti ed anche tra di loro. Io non ho colpa di sì gran misfatto. Or ti prego Dio, perché tu mi perdoni e faccia che Franco viva ed io possa morir per lui". Poi, accanto a Franco così gli disse: "Mi pento di ciò che ho fatto ed amico io ti sono. Sarò come quel cane, io ti aiuterò". Quelle parole scossero il bambino malato, che sentì e tese la debole mano ad Epifanio, a cui con voce fioca così rispose: "Hai ucciso il mio vecchio cane, ma nello stesso tempo è morto con esso anche il suo assassino. Epifanio, amico mio, oggi tu sei rinato; non disperarti, il sacrificio del cane ti ha redento. Adesso io so che vivrò e, come il mio povero cane, tu mi resterai nel cuore, perché anche tu ora sei figlio del Signore".
Così i due fanciulli si abbracciarono e l'amicizia li legò per sempre.
Un giorno, mentre andava a scuola, si accorse che un cane scarno lo seguiva e con gli occhi, dallo sguardo triste, già esprimeva chiaramente la sua necessità.
Franco era buono ed educato, ma anche i suoi compagni non erano da meno; pertanto, subito ognuno di loro gli porse un po' di pane, che il cane ingoiò in un baleno. Franco gli accarezzò affettuosamente la testa ed il cane poi lentamente si allontanò. Ricevette ogni mattina un pezzo di pane e una carezza.
Passarono i giorni ed anche i mesi, quell'amicizia si strinse sempre di più, tanto da suscitare invidia o chissà quale altro ignobile sentimento in un ragazzo di strada di nome Epifanio, che abitava vicino a quella scuola.
I genitori di Epifanio erano due maleducati ed al figlio insegnavano ciò che avevano appreso; anzi, facendo propri quegli insegnamenti ricevuti, li trasmettevano meglio al proprio figlio, che era un perfetto delinquente.
Un giorno, infatti, senza alcun motivo aggredì Franco, imponendogli di non toccare il cane e di non dargli da mangiare. Con parole convincenti Franco cercò di fargli capire che anche il cane era una creatura di Dio e che aveva anch'esso il diritto di vivere; anzi sollecitò Epifanio a dargli anche lui del cibo, magari i resti, soprattutto perché il cane stava quasi sempre di fronte alla sua abitazione. Epifanio non comprese ciò che Franco disse e repentinamente gli sferrò un pugno, che lo colpì fortemente al viso.
Il cane, di solito seduto o sdraiato vicino al muretto che circondava la scuola, senza mai dare fastidio a nessuno, sentì il pianto di un bambino, di cui la voce gli era familiare. Di scatto si levò e, digrignando, con rabbia si scagliò contro Epifanio che, impaurito, corse subito a ripararsi a casa sua. Epifanio incise nel suo cuore la vendetta, mentre Franco accarezzò il suo cane.
L'indomani Franco ritornò a scuola, ma il cane non si presentò. Passarono i giorni, ma il cane non si vide più.
Pianse il bambino l'amico e la pena fu così forte che si ammalò.
Epifanio, non vedendo più Franco, che ogni mattina passava davanti alla porta della sua casa, chiese di lui ai suoi compagni di scuola; appresa la triste notizia e resosi conto del valore dell'amicizia, nonché del grande male che aveva causato a Franco, corse subito a casa dello stesso, dove trovò la madre mesta seduta accanto al figlio e, visto il bambino dormiente, molto malato, disteso nel suo letto, a mani giunte con singhiozzi e pianto, rivolgendosi al cielo pregò, pregò così: "Io non so preghiere, perché mai nessuno me ne insegnò; io sono un ragazzo cresciuto qua e là. I miei genitori sono sempre in guerra con tutti ed anche tra di loro. Io non ho colpa di sì gran misfatto. Or ti prego Dio, perché tu mi perdoni e faccia che Franco viva ed io possa morir per lui". Poi, accanto a Franco così gli disse: "Mi pento di ciò che ho fatto ed amico io ti sono. Sarò come quel cane, io ti aiuterò". Quelle parole scossero il bambino malato, che sentì e tese la debole mano ad Epifanio, a cui con voce fioca così rispose: "Hai ucciso il mio vecchio cane, ma nello stesso tempo è morto con esso anche il suo assassino. Epifanio, amico mio, oggi tu sei rinato; non disperarti, il sacrificio del cane ti ha redento. Adesso io so che vivrò e, come il mio povero cane, tu mi resterai nel cuore, perché anche tu ora sei figlio del Signore".
Così i due fanciulli si abbracciarono e l'amicizia li legò per sempre.
Gino Ragusa Di Romano
Dal mio libro "ACCENTI D'AMORE E DI SDEGNO"
Pellegrini Editore - Cosenza 2004
Opera scritta il 12/06/2013 - 17:50
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