Quel mattino nulla mi fece pensare che la giornata avrebbe preso proprio quella piega. Era un normalissimo mattino di un 21 giugno, e presumibilmente avrei passato la giornata facendo le stesse cose di sempre: mi sarei preparato il caffé, avrei cominciato a lavorare al computer, avrei pranzato fuori magari con un panino e infine avrei dedicato tutto il pomeriggio al lavoro, per cenare guardando la televisione tentando di soffocare tra i bocconi l'infestante pensiero di non essermi ancora fidanzato.
Accesi lo stereo e subito partirono lievi le note di "Norwegian Wood" dei Beatles. Ciabattando entrai in cucina e misi sul fuoco la caffettiera, pensando già a come l'avrei bevuto: seduto sul balcone proprio come un gufo sul trespolo, guardando la gente che da sotto si avvia verso la spiaggia, salvagenti e ombrelloni e sedie a sdraio caricate sulle spalle e sotto le braccia. I bambini che saltellavano ticchettando il marciapiede con l'infradito, i vecchietti lucidi di crema solare e gli adolescenti pronti a fumare le Marlboro rubate al padre nella speranza di farsi notare da "quelle ragazze che al bar chiedono sempre la Schweppes".
Mentre pensavo alla Schweppes e all'ultima volta che ne avevo bevuta una bottiglia, mi versai molto lentamente il fumante liquido nero, quando fui interrotto dal campanello.
Si trattava di un suono trillante e forte, un chiodo infuocato che mi passava da orecchio in orecchio. Coprii la tazza per tenerlo caldo, e mi avviai verso la porta. Avevo una pessima cera: i capelli erano sporchi di una settimana e spettinatissimi, la barba ispida, gli occhi ancora cisposi, le ascelle sudate e un alito che da solo avrebbe ucciso un'intera centuria romana. Però erano sempre le otto del mattino, e l'orario avrebbe ben giustificato il mio aspetto tremendo. Aprii la porta, senza pensare a chi mi sarei trovato davanti, pertanto rimasi del tutto interdetto quando vidi sulla soglia una ragazza perfettamente estranea. Era bassa, anzi bassissima, e stava infilata in un pesante capotto nero vecchio stile con gli alamari argentei (in pieno giugno!) mentre i capelli scendevano ai lati del viso in soffici boccoli gonfi che declinavano dal castano al biondo, quasi mi facevano pensare a Shirley Temple. Lei sorrideva con totale naturalezza, quasi come se ci conoscessimo dai tempi dell'asilo.
"Scusatemi tanto", dissi io, "ma forse avete sbagliato appartamento. Questa è la 101, provate alla 115 perché lì abita uno che si chiama come me e forse vi siete confusa e..."
Ma parlai invano. "No no, non ho sbagliato. Devo aspettare una persona, e mi trovo proprio al posto giusto" fece entrando con totale disinvoltura e affondando nel mio divano. Quel cappotto doveva essere alquanto caloroso, ma neanche una goccia di sudore le scendeva lungo la fronte. "Sento odore di caffè. Me ne porteresti un po', per piacere?" chiese cominciando a passarsi la mano tra i capelli a mo' di pettine. I boccoli sembravano animati di vita propria, come le serpi che fungevano da capelli a Medusa. Il viso invece mi appariva più paffuto, le guance più colorite e il naso all'insù. Non sapevo come reagire a quella presenza, quindi tornai in cucina dove versai il caffè in un'altra tazza, presi anche la mia e feci ritorno da lei porgendogliela. Si fermò ad osservare la superficie del caffè come se dentro ci stesse galleggiando il cadavere di un polpo, ma fu questione di un istante. Infatti cominciò subito a tracannarlo rumorosamente facendo scorrere lunghi rivoli marroni lungo il mento e sporcandosi il cappotto. Posò la tazza sul tavolino e mi sorrise esibendo trentadue denti giallognoli. "E' ottimo" disse. Io invece continuai a stingere tra le mani la tazza a pensare. Non avevo mai visto quella ragazza in vita mia, questo era sicuro, eppure lei sembrava conoscermi da sempre. Iniziai a pensare di essere il dalla parte del torto, di averla sempre conosciuta e di non volerla riconoscere in quel momento, chissà per quale motivo. Forse mi stavo comportando da maleducato, però la situazione era troppo strana per me.
"Chi è la persona che state aspettando?" domandai. Era mio diritto saperlo, visto che chiunque fosse quell'individuo presto si sarebbe trovato a casa mia. Se fosse stato un mio conoscente allora tutto si sarebbe quadrato meglio, ma non ci volevo sperare più di tanto.
"Ah, non è nessuno, solo un collega di lavoro" mi spiegò con un gesto di indifferenza della mano. "Lavora al reparto imballaggi della fabbrica in cui operiamo. E' una fabbrica di traumi, e io sono addetta a dover dare i motivi. Io sono la prima parte della catena di montaggio, lui l'ultima. L'alfa e l'omega, non ti pare buffo?"
Con il mignolo si spostò dalla punta del naso un invisibile granello di polvere. "O comunque, lo eravamo. Sono stata licenziata proprio ieri per aver dato un calcio sui denti al mio principale. Io però gli ho rubato un buon milione e la macchina, è stato facilissimo. Adesso il mio fidanzato - la persona che aspetto è anche il mio fidanzato - mi raggiungerà e insieme andremo a vivere a Dublino. Forse però non dovevo raccontarti tutto..."
Parlava facendo uscire di bocca le parole come se fossero state pressurizzate nella sua cavità orale e solo in quel momento poteva liberarsi. L'ascoltai tutt'occhi. "Non sapevo che i traumi si fabbricassero" mormorai tra me e me. "Certo che non lo sapevi!" sbottò con un altro gesto della mano, poi cominciò a scaccolarsi vistosamente. Incantato osservai il pollice che andava ad entrare ed uscire dalla narice destra, staccando lunghi filamenti di muco verde e giallo. Rimasi lievemente disgustato dalla scena, ma solo lievemente. In quel momento il campanello suonò di nuovo, e andammo ad aprire insieme. Questa volta credetti che il suo fidanzato dovesse essere persino più basso di lei, ma non si trattava di lui: sullo zerbino c'era un cagnolino rosso che mi fissava con sguardo da vigile, muovendo la coda dritta come l'asticella di un metronomo. "Mi hanno trovato!" gridò la ragazza portandosi le mani alla testa. "Ma come hanno fatto?! Sono riuscita a trovare un posto in cui nessuno verrebbe mai, come hanno fatto a seguirmi?!"
Non sapevo se con quel "posto in cui nessuno verrebbe mai" volesse insultarmi o elogiarmi. Complimento o insulto? Facciamo complinsulto.
"Questo è il cane del mio principale, se me lo hanno mandato vuol dire che in questo momento sono tutti al corrente della mia attuale posizione. Ma non mi avranno mai, capito? MAI!"
Prese il cane sollevandolo e portandolo all'altezza degli occhi. "Allora Francois, vogliamo giocare secondo le mie regole? Ma certo che sì!" disse al cane, scoppiando poi a ridere fragorosamente.
"Per caso hai qualche reggiseno o giarrettiera da qualche parte?" mi chiese smettendo di ridere. La domanda mi diede leggermente sui nervi, ma cercai di restare calmo (non che la situazione fosse delle migliori). Le risposi di no, e lei sospirò scuotendo la testa:
"E va bene, allora farò da me. Anzi, così è anche meglio, capiranno che sono stata io a prendere Francois" disse andando nella mia stanza da letto. Mi chiesi come avesse fatto a sapere dove si trovasse, ma cercai di non farmi troppe domande: da quella ragazza potevo oramai aspettarmi di tutto.
Estrasse dalla tasca una lunga corda di iuta, e con i denti la spezzò in quattro parti uguali. Poi utilizzando questi quattro pezzi legò il cane (che a quanto pare si chiamava Francois) al mio letto, come se fosse un'offerta da sacrificare. Fatto ciò, si sciolse lentamente gli alamari e si sfilò il cappotto. si tolse anche la maglietta a fiori (una maglietta terribilmente pacchiana) e infine toccò al reggiseno turchese. I suoi seni chilometrici penzolarono flosci andando quasi a sfiorare con i capezzoli il pavimento: mai visti due seni tanto cadenti. Mise il reggiseno a Francois e con il cellulare gli scattò alcune foto, le allegò ad alcuni messaggi che subito dopo spedì.
"Il cane è come un ultimatum" mi spiegò posando il cellulare. "Mandandomelo vogliono farmi capire di avermi intercettata e mi invitano a costituirmi, ma non sanno che io non mollo mai finché non sono morta! Allora Francois, vogliamo mandare qualche foto anche a tua moglie?"
Francois ringhiò con occhi rossi come meteore, e cominciò ad urinare con un'energia inaudita. S'innalzo un filo di pipì che perforò il soffitto come un raggio laser di Star Wars, lasciando un buco piccolo e tondo come una monetina da un centesimo. Le corde saltarono via e il cane fu di nuovo libero, così si potette avventare su di noi. Lei fu però così pronta da riuscire a lanciarlo via dalla finestra con un calcio, facendolo volare via e lontano, finché non si ridusse ad un puntino minuscolo. Chissà che bel volo!
Il campanello suonò di nuovo, e odiai con tutto me stesso quel rumore orrendo. Stavolta fu lei a correre ad aprire la porta, e ci trovammo entrambi davanti ad un ragazzo dalla barba verde con i vestiti al rovescio. In testa aveva una parrucca blu elettrico e riccioluta, ma i suoi occhi erano di un grigio spento come palline di cenere di camino.
"Amore mio!" gridò la ragazza abbracciandolo. "Perché mi hai fatto aspettare, perché? Pensa che sono persino riusciti a mandarmi Francois! Adesso però dobbiamo sbrigarci, prima che siano tutti qui. Ma tu stai bene?"
Il ragazzo prese dalla tasca uno spinello che si accese con un fiammifero, e lo infilò nel naso facendo lunghe boccate di fumo. L'odore di marijuana aveva già investito tutto l'ingresso.
"Non preoccuparti di me Baby" la tranquillizzò facendole fare un tiro. "Piuttosto, hai con te i soldi?"
"Certo amore" disse lei estraendo dalla bocca un mazzo pieno di banconote croccanti di zecca.
"Grande. Allora, c'è qualcosa da mangiare in questo guaio di casa?" domandò grattandosi il mento affondando la mano nella barba verde. Oramai parlavano e si comportavano come se non fossi lì con loro, come se di me restasse soltanto l'ombra di un vago riflesso ignorato da tutti.
"No, il cibo qui fa schifo. Ho bevuto un caffè che è da pena di morte, quindi credo che dobbiamo fare da io" gli disse lei entrando in cucina. Udii il rumore del mobile delle pentole che si apriva. Prese poi una ciotola e insieme ci vomitarono dentro riempiendola delle loro scorie. Unirono al vomito due uova, un cucchiaio di latte e una tazza di farina. Il ragazzo ci fece cadere un po' di cenere del suo spinello, versarono il tutto in una teglia e misero in forno. L'odore di marijuana fu sostituito da un puzzo incredibile di fogna e di bruciato, ma ogni mia parola sembrava morire in bocca prima di uscire. Mi sembrava di non esserci, e di essermi trovato intruso nel sogno perverso di un malato da manicomio.
Quando il timer suonò aprirono il forno e fecero uscire una torta verdastra e bitorzoluta. Ne tagliarono due fette che divorarono con gusto, poi mi chiesero se ne volevo anche io un po'. Ovviamente rifiutai.
"A proposito, questo qua sa tutto di noi e di quello che stiamo facendo" disse ad un certo punto la ragazza lavando la ciotola e la teglia.
"Allora le alternative sono due: o lo uccidiamo o si unisce a noi. Che dici, scegliamo noi o lui?"
"NO NO NO NO NO NO NO!" strillai con tutte le mie forze. Ne avevo abbastanza di quei due psicotici, e volevo soltanto andarmene subito. Uscii dall'appartamento e scesi di corsa le scale. Lasciai il palazzo e attraversai il parcheggio in cerca della mia macchina. Appena la trovai entrai e l'accesi, partendo come un fulmine diretto in qualsiasi luogo che non fosse casa mia.
Guidai per un giorno intero, finché non scese una notte senza né stelle né luna. Allora fermai la macchina e dormii steso sui sedili sul retro. Il mattino dopo sorse un sole pallido come una donna appena rimasta vedova. Continuai a guidare senza fare soste, e così mi trovai ad attraversare un deserto immenso, fatto solo di sabbia grigia. All'improvviso qualcosa di piccolo e rosso cadde dal cielo forando il tettuccio dell'auto e colpendo con forza il volante. Per poco non sbandai, e vidi che la "cosa" appena caduta era Francois!
Stordito, il cane si rialzò tremando con occhioni lucidi e corse via sparendo dalla mia vista.
Provai a far ripartire la macchina, ma non ci riuscii. Passai tutto il giorno a cercare di lasciare il deserto, ma fu inutile. Ed è tuttora inutile.
Così adesso mi ritrovo intrappolato in questo deserto, e mi chiedo se quei due sono riusciti a raggiungere Dublino e a vivere felici.
Inizio ad avere sete.
Accesi lo stereo e subito partirono lievi le note di "Norwegian Wood" dei Beatles. Ciabattando entrai in cucina e misi sul fuoco la caffettiera, pensando già a come l'avrei bevuto: seduto sul balcone proprio come un gufo sul trespolo, guardando la gente che da sotto si avvia verso la spiaggia, salvagenti e ombrelloni e sedie a sdraio caricate sulle spalle e sotto le braccia. I bambini che saltellavano ticchettando il marciapiede con l'infradito, i vecchietti lucidi di crema solare e gli adolescenti pronti a fumare le Marlboro rubate al padre nella speranza di farsi notare da "quelle ragazze che al bar chiedono sempre la Schweppes".
Mentre pensavo alla Schweppes e all'ultima volta che ne avevo bevuta una bottiglia, mi versai molto lentamente il fumante liquido nero, quando fui interrotto dal campanello.
Si trattava di un suono trillante e forte, un chiodo infuocato che mi passava da orecchio in orecchio. Coprii la tazza per tenerlo caldo, e mi avviai verso la porta. Avevo una pessima cera: i capelli erano sporchi di una settimana e spettinatissimi, la barba ispida, gli occhi ancora cisposi, le ascelle sudate e un alito che da solo avrebbe ucciso un'intera centuria romana. Però erano sempre le otto del mattino, e l'orario avrebbe ben giustificato il mio aspetto tremendo. Aprii la porta, senza pensare a chi mi sarei trovato davanti, pertanto rimasi del tutto interdetto quando vidi sulla soglia una ragazza perfettamente estranea. Era bassa, anzi bassissima, e stava infilata in un pesante capotto nero vecchio stile con gli alamari argentei (in pieno giugno!) mentre i capelli scendevano ai lati del viso in soffici boccoli gonfi che declinavano dal castano al biondo, quasi mi facevano pensare a Shirley Temple. Lei sorrideva con totale naturalezza, quasi come se ci conoscessimo dai tempi dell'asilo.
"Scusatemi tanto", dissi io, "ma forse avete sbagliato appartamento. Questa è la 101, provate alla 115 perché lì abita uno che si chiama come me e forse vi siete confusa e..."
Ma parlai invano. "No no, non ho sbagliato. Devo aspettare una persona, e mi trovo proprio al posto giusto" fece entrando con totale disinvoltura e affondando nel mio divano. Quel cappotto doveva essere alquanto caloroso, ma neanche una goccia di sudore le scendeva lungo la fronte. "Sento odore di caffè. Me ne porteresti un po', per piacere?" chiese cominciando a passarsi la mano tra i capelli a mo' di pettine. I boccoli sembravano animati di vita propria, come le serpi che fungevano da capelli a Medusa. Il viso invece mi appariva più paffuto, le guance più colorite e il naso all'insù. Non sapevo come reagire a quella presenza, quindi tornai in cucina dove versai il caffè in un'altra tazza, presi anche la mia e feci ritorno da lei porgendogliela. Si fermò ad osservare la superficie del caffè come se dentro ci stesse galleggiando il cadavere di un polpo, ma fu questione di un istante. Infatti cominciò subito a tracannarlo rumorosamente facendo scorrere lunghi rivoli marroni lungo il mento e sporcandosi il cappotto. Posò la tazza sul tavolino e mi sorrise esibendo trentadue denti giallognoli. "E' ottimo" disse. Io invece continuai a stingere tra le mani la tazza a pensare. Non avevo mai visto quella ragazza in vita mia, questo era sicuro, eppure lei sembrava conoscermi da sempre. Iniziai a pensare di essere il dalla parte del torto, di averla sempre conosciuta e di non volerla riconoscere in quel momento, chissà per quale motivo. Forse mi stavo comportando da maleducato, però la situazione era troppo strana per me.
"Chi è la persona che state aspettando?" domandai. Era mio diritto saperlo, visto che chiunque fosse quell'individuo presto si sarebbe trovato a casa mia. Se fosse stato un mio conoscente allora tutto si sarebbe quadrato meglio, ma non ci volevo sperare più di tanto.
"Ah, non è nessuno, solo un collega di lavoro" mi spiegò con un gesto di indifferenza della mano. "Lavora al reparto imballaggi della fabbrica in cui operiamo. E' una fabbrica di traumi, e io sono addetta a dover dare i motivi. Io sono la prima parte della catena di montaggio, lui l'ultima. L'alfa e l'omega, non ti pare buffo?"
Con il mignolo si spostò dalla punta del naso un invisibile granello di polvere. "O comunque, lo eravamo. Sono stata licenziata proprio ieri per aver dato un calcio sui denti al mio principale. Io però gli ho rubato un buon milione e la macchina, è stato facilissimo. Adesso il mio fidanzato - la persona che aspetto è anche il mio fidanzato - mi raggiungerà e insieme andremo a vivere a Dublino. Forse però non dovevo raccontarti tutto..."
Parlava facendo uscire di bocca le parole come se fossero state pressurizzate nella sua cavità orale e solo in quel momento poteva liberarsi. L'ascoltai tutt'occhi. "Non sapevo che i traumi si fabbricassero" mormorai tra me e me. "Certo che non lo sapevi!" sbottò con un altro gesto della mano, poi cominciò a scaccolarsi vistosamente. Incantato osservai il pollice che andava ad entrare ed uscire dalla narice destra, staccando lunghi filamenti di muco verde e giallo. Rimasi lievemente disgustato dalla scena, ma solo lievemente. In quel momento il campanello suonò di nuovo, e andammo ad aprire insieme. Questa volta credetti che il suo fidanzato dovesse essere persino più basso di lei, ma non si trattava di lui: sullo zerbino c'era un cagnolino rosso che mi fissava con sguardo da vigile, muovendo la coda dritta come l'asticella di un metronomo. "Mi hanno trovato!" gridò la ragazza portandosi le mani alla testa. "Ma come hanno fatto?! Sono riuscita a trovare un posto in cui nessuno verrebbe mai, come hanno fatto a seguirmi?!"
Non sapevo se con quel "posto in cui nessuno verrebbe mai" volesse insultarmi o elogiarmi. Complimento o insulto? Facciamo complinsulto.
"Questo è il cane del mio principale, se me lo hanno mandato vuol dire che in questo momento sono tutti al corrente della mia attuale posizione. Ma non mi avranno mai, capito? MAI!"
Prese il cane sollevandolo e portandolo all'altezza degli occhi. "Allora Francois, vogliamo giocare secondo le mie regole? Ma certo che sì!" disse al cane, scoppiando poi a ridere fragorosamente.
"Per caso hai qualche reggiseno o giarrettiera da qualche parte?" mi chiese smettendo di ridere. La domanda mi diede leggermente sui nervi, ma cercai di restare calmo (non che la situazione fosse delle migliori). Le risposi di no, e lei sospirò scuotendo la testa:
"E va bene, allora farò da me. Anzi, così è anche meglio, capiranno che sono stata io a prendere Francois" disse andando nella mia stanza da letto. Mi chiesi come avesse fatto a sapere dove si trovasse, ma cercai di non farmi troppe domande: da quella ragazza potevo oramai aspettarmi di tutto.
Estrasse dalla tasca una lunga corda di iuta, e con i denti la spezzò in quattro parti uguali. Poi utilizzando questi quattro pezzi legò il cane (che a quanto pare si chiamava Francois) al mio letto, come se fosse un'offerta da sacrificare. Fatto ciò, si sciolse lentamente gli alamari e si sfilò il cappotto. si tolse anche la maglietta a fiori (una maglietta terribilmente pacchiana) e infine toccò al reggiseno turchese. I suoi seni chilometrici penzolarono flosci andando quasi a sfiorare con i capezzoli il pavimento: mai visti due seni tanto cadenti. Mise il reggiseno a Francois e con il cellulare gli scattò alcune foto, le allegò ad alcuni messaggi che subito dopo spedì.
"Il cane è come un ultimatum" mi spiegò posando il cellulare. "Mandandomelo vogliono farmi capire di avermi intercettata e mi invitano a costituirmi, ma non sanno che io non mollo mai finché non sono morta! Allora Francois, vogliamo mandare qualche foto anche a tua moglie?"
Francois ringhiò con occhi rossi come meteore, e cominciò ad urinare con un'energia inaudita. S'innalzo un filo di pipì che perforò il soffitto come un raggio laser di Star Wars, lasciando un buco piccolo e tondo come una monetina da un centesimo. Le corde saltarono via e il cane fu di nuovo libero, così si potette avventare su di noi. Lei fu però così pronta da riuscire a lanciarlo via dalla finestra con un calcio, facendolo volare via e lontano, finché non si ridusse ad un puntino minuscolo. Chissà che bel volo!
Il campanello suonò di nuovo, e odiai con tutto me stesso quel rumore orrendo. Stavolta fu lei a correre ad aprire la porta, e ci trovammo entrambi davanti ad un ragazzo dalla barba verde con i vestiti al rovescio. In testa aveva una parrucca blu elettrico e riccioluta, ma i suoi occhi erano di un grigio spento come palline di cenere di camino.
"Amore mio!" gridò la ragazza abbracciandolo. "Perché mi hai fatto aspettare, perché? Pensa che sono persino riusciti a mandarmi Francois! Adesso però dobbiamo sbrigarci, prima che siano tutti qui. Ma tu stai bene?"
Il ragazzo prese dalla tasca uno spinello che si accese con un fiammifero, e lo infilò nel naso facendo lunghe boccate di fumo. L'odore di marijuana aveva già investito tutto l'ingresso.
"Non preoccuparti di me Baby" la tranquillizzò facendole fare un tiro. "Piuttosto, hai con te i soldi?"
"Certo amore" disse lei estraendo dalla bocca un mazzo pieno di banconote croccanti di zecca.
"Grande. Allora, c'è qualcosa da mangiare in questo guaio di casa?" domandò grattandosi il mento affondando la mano nella barba verde. Oramai parlavano e si comportavano come se non fossi lì con loro, come se di me restasse soltanto l'ombra di un vago riflesso ignorato da tutti.
"No, il cibo qui fa schifo. Ho bevuto un caffè che è da pena di morte, quindi credo che dobbiamo fare da io" gli disse lei entrando in cucina. Udii il rumore del mobile delle pentole che si apriva. Prese poi una ciotola e insieme ci vomitarono dentro riempiendola delle loro scorie. Unirono al vomito due uova, un cucchiaio di latte e una tazza di farina. Il ragazzo ci fece cadere un po' di cenere del suo spinello, versarono il tutto in una teglia e misero in forno. L'odore di marijuana fu sostituito da un puzzo incredibile di fogna e di bruciato, ma ogni mia parola sembrava morire in bocca prima di uscire. Mi sembrava di non esserci, e di essermi trovato intruso nel sogno perverso di un malato da manicomio.
Quando il timer suonò aprirono il forno e fecero uscire una torta verdastra e bitorzoluta. Ne tagliarono due fette che divorarono con gusto, poi mi chiesero se ne volevo anche io un po'. Ovviamente rifiutai.
"A proposito, questo qua sa tutto di noi e di quello che stiamo facendo" disse ad un certo punto la ragazza lavando la ciotola e la teglia.
"Allora le alternative sono due: o lo uccidiamo o si unisce a noi. Che dici, scegliamo noi o lui?"
"NO NO NO NO NO NO NO!" strillai con tutte le mie forze. Ne avevo abbastanza di quei due psicotici, e volevo soltanto andarmene subito. Uscii dall'appartamento e scesi di corsa le scale. Lasciai il palazzo e attraversai il parcheggio in cerca della mia macchina. Appena la trovai entrai e l'accesi, partendo come un fulmine diretto in qualsiasi luogo che non fosse casa mia.
Guidai per un giorno intero, finché non scese una notte senza né stelle né luna. Allora fermai la macchina e dormii steso sui sedili sul retro. Il mattino dopo sorse un sole pallido come una donna appena rimasta vedova. Continuai a guidare senza fare soste, e così mi trovai ad attraversare un deserto immenso, fatto solo di sabbia grigia. All'improvviso qualcosa di piccolo e rosso cadde dal cielo forando il tettuccio dell'auto e colpendo con forza il volante. Per poco non sbandai, e vidi che la "cosa" appena caduta era Francois!
Stordito, il cane si rialzò tremando con occhioni lucidi e corse via sparendo dalla mia vista.
Provai a far ripartire la macchina, ma non ci riuscii. Passai tutto il giorno a cercare di lasciare il deserto, ma fu inutile. Ed è tuttora inutile.
Così adesso mi ritrovo intrappolato in questo deserto, e mi chiedo se quei due sono riusciti a raggiungere Dublino e a vivere felici.
Inizio ad avere sete.
Opera scritta il 27/12/2017 - 22:19
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