Preghiere fumè
Era il 1977, eravamo in quarta elementare e due volte la settimana avevamo lezioni di catechismo in preparazione per la cresima; queste si svolgevano nella casa di riposo per anziani, alle quattro del pomeriggio, mentre noi, precisi come esattori ci davamo appuntamento alle tre, sotto il lentischio, come una piccola sacra famiglia nella capanna. Solo che noi avevamo ben poco di sacro.
Eravamo io, Paola, Susanna, Domenico, Graziano ed entrambi i Giovanni di una classe di ventidue alunni. Tutti gli altri sarebbero arrivati alle quattro, puntuali per la lezione, con le vesti pulite ed i capelli ben sistemati. Non c’erano figli di papà nella nostra classe, ma c’erano genitori, madri specialmente, che si adoperavano affinché i figli sembrassero tali. Ed è per questo motivo che la loro presenza al nostro raduno era indesiderata, nonché superflua.
Quando io e le mie compagne arrivavamo i ragazzi erano già la sotto, intenti a fumare e a guardarsi attorno, sperando di non essere scoperti da qualche sconosciuto parente al rientro dall’orto che avrebbe raccontato subito della perdizione ai loro genitori.
Di bocca in bocca ci passavamo la sigaretta emulando gli adulti, con quello sguardo duro, chiuso tra le fessure degli occhi che guardavano orizzonti ignoti e molto lontani.
Non conoscevo la provenienza delle sigarette, non sapevo se i miei piccoli amici le comprassero al tabacchi o le rubassero ai loro genitori, sta di fatto che non mancarono mai.
A dire la verità io avevo aspirato il fumo solo un paio di volte ed in entrambi i casi ero stata travolta da crisi di tosse e d’asma; ma nonostante la dura prova a cui sottoponevo i miei polmoni non avevo desistito dal disertare quegli incontri: avevo capito che potevo ugualmente far parte di quell’èlite, bastava mettere la sigaretta tra le labbra e fare lo sguardo da dura, strizzando gli occhi, cosa che in fondo mi veniva facile, essendo già miope.
Ma devo confessare che ho fumato soltanto nelle ore precedenti il catechismo, in quarta e quinta elementare, e durante la gita di terza media, a Sorrento, quando la cenere della mia sigaretta, che bruciava non consumata tra le mie mani, si staccava e scendeva sulla testa del ragazzo sul balcone sottostante che non tardò a mandarmi a quel paese.
Capitò una volta che fummo sorpresi da un improvviso acquazzone che ci costrinse a lasciare il nostro angolo segreto e rifugiarci nella casa di riposo anzitempo, ridestando i vecchietti dalla siesta pomeridiana, che strascicando i piedi ci guardavano dritti negli occhi chiedendoci se fossimo figli loro.
Arrivammo impregnati dell’odore del fumo e del fastidioso fetore dei cani bagnati ma ugualmente la madre superiora sorrise, ed allargando le braccia ci accolse dicendo: “Lasciate che i bambini vengano a me!”
Era dolce, molto dolce la suora, e non ricordo una sola volta in cui ci rimproverò; eppure la puzza del fumo la deve aver sentita durante le lezioni durate due anni. Era sempre felice di vederci, noi un po’ meno, soprattutto quando doveva interrogarci sui sacramenti e sul Vangelo mentre noi, dentro quel libro con la carta dal profumo inconfondibile, incensato direi, non avevamo sbirciato neanche per un solo istante.
Ma in quinta riuscimmo, ben impomatati, a farci dare lo schiaffetto dal vescovo e l’orologio dalle nostre madrine e padrini, seppure con il tempo le lancette siano collassate e molti di noi non ricordino più da chi li hanno ricevuti.
E’ pur vero che in questi anni parecchie altre cose son cambiate: le suore sono andate via, decimate dalla crisi vocazionale, di vecchietti nella casa di riposo se ne sono avvicendati tanti, alcuni dei quali con i nostri stessi occhi ed il nostro stesso sangue, bucandoci il cuore ogni volta che facciamo loro visita, impotenti nell’indorare il loro tramonto. La campagna si è continuamente allontanata dal centro del paese, inghiottita dal cemento e dalle abitazioni sempre più grandi e sempre più vuote ed io, avendo fatto il giro di boa, assorbo linfa dai ricordi e dai profumi che, mentre chiudo gli occhi mi riportano ancora in quei cantucci che non esistono più, infondendomi in questo tempo segnato dai passi pesanti e meditati, il coraggio delle audaci scoperte.
Millina Spina, 1 marzo 2018
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Roberto, penso che i racconti autobiografici non siano strettamente personali ma parlino e descrivano stralci di vita comuni per cui il lettore si trova egli stesso a riviverli.
Grazia, sarà forse la nostalgia che diventa poesia nel raccontare?
Grazie a tutti!
Bravissima!
Basta poco per ricordarsi di quella sana incoscienza, che ancora serve.
Grazie Teresa, Antonio, Laisa e Giancarlo.
i nostri ricordi sono le nostre radici nel mondo