Capitò in tarda sera, un lunedì qualunque. Mi trovavo in città per caso. Camminavo per le vie adiacenti al centro, quelle in cui i portoni sono in numero superiore alle vetrine e le luci intermittenti ti rammentano il periodo senza prenderti a schiaffi perché non te ne stai curando. I rumori, invece, mi sferzavano con insolenza, ma per uno come me, uno che appena esce dal bosco si sente smarrito, sarebbe stato strano il contrario.
Capitò di lunedì sera, e credo non sia stato un caso: considero quest’evento come il primo di una serie che mi condurrà all’ultimo atto. Come il primo giorno della mia Settimana.
Entrai in un bar, in cerca di rifugio dai rumori, giacché la loro arroganza m’era divenuta insopportabile. Mossa pessima, la mia. La confusione - dentro - era la medesima: donne, uomini, vecchi, giovani, che parlavano parlavano, e ridevano ridevano ridevano, e urlavano bisbigliavano urlavano. E tazzine tintinnanti, macchinette trillanti, sottofondi che non stavano affatto sotto e nemmeno in fondo.
Uscii annaspando. L’aria fresca mi diede un breve sollievo. Breve, perché fui subito investito dai rumori che avevo lasciato – fuori –
M’avviai barcollando e sarei certamente caduto se non fossi riuscito ad infilarmi dentro un portone, seguendo uno sconosciuto che rincasava. Non mi chiese chi fossi, si faceva i cazzi suoi. Lo adorai per questo. Lui prese le scale, io finsi d’aspettare l’ascensore. E appena udii chiudersi una porta ad un piano, doveva esser il secondo,
o il terzo, scivolai a terra, stremato. L’orgia di suoni era ancora lì, appena attutita dal portone di legno che mi separava dalla strada.
Basta basta basta, mi ripetei, seduto con la testa tra le mani.
Basta basta basta.
Intravidi una porticina in fianco alla gabbia dell’ascensore. Con uno sforzo sovraumano mi rimisi in piedi, la raggiunsi e provai ad aprirla. Non era chiusa a chiave. Una sorta di sgabuzzino, con le scope, il secchio, i sacchi per l’immondizia. Riconobbi l’odore. Entrai, e subito chiusi la porta: il buio che si creò istantaneamente mi attraversò da parte a parte.
Tornai a sedermi. E fu di nuovo luce. Luce calda, di fiamma. Di fiammella per l’esattezza. Qualcuno - dentro - aveva acceso un accendino. Sobbalzai per lo spavento. Non riuscii nemmeno ad urlare. La voce mi morì in gola.
L’indice posato sulle labbra del bambino che reggeva con l’altra mano l’accendino rubato allo zio sarebbe stato superfluo, se non fosse che quel gesto riuscì a calmarmi.
Alla luce tremolante, l’osservai. Lo riconobbi. Quanti anni erano passati! Sicuramente ben più dei quattro o cinque che doveva avere lui.
Dio, quanto mi somigliava! Quanto mi somigliava ancora...
Mi disse: loro non lo sanno, è per questo che non la smettono. Non lo sanno che ti stanno facendo male, altrimenti non urlerebbero. Non lo sanno che senti ogni insulto sulla pelle, che ogni ingiuria ti graffia il viso, che il suono di uno schiaffo fa più male dello schiaffo, che gridare odio uccide i fiori e che il disprezzo secca la terra.
Non lo sanno...se no non lo farebbero.
E spense l’accendino
Già, non lo sanno. Me ne ero quasi scordato.
Benché fossi sicuro che il bambino non fosse più lì, lo stesso controllai prima di richiudere la porta, uscendo dallo sgabuzzino. Senza esitare, tornai in strada. Forse ero pronto pure ad affrontare il centro città.
Decisi ugualmente di rincasare
Capitò di lunedì sera, e credo non sia stato un caso: considero quest’evento come il primo di una serie che mi condurrà all’ultimo atto. Come il primo giorno della mia Settimana.
Entrai in un bar, in cerca di rifugio dai rumori, giacché la loro arroganza m’era divenuta insopportabile. Mossa pessima, la mia. La confusione - dentro - era la medesima: donne, uomini, vecchi, giovani, che parlavano parlavano, e ridevano ridevano ridevano, e urlavano bisbigliavano urlavano. E tazzine tintinnanti, macchinette trillanti, sottofondi che non stavano affatto sotto e nemmeno in fondo.
Uscii annaspando. L’aria fresca mi diede un breve sollievo. Breve, perché fui subito investito dai rumori che avevo lasciato – fuori –
M’avviai barcollando e sarei certamente caduto se non fossi riuscito ad infilarmi dentro un portone, seguendo uno sconosciuto che rincasava. Non mi chiese chi fossi, si faceva i cazzi suoi. Lo adorai per questo. Lui prese le scale, io finsi d’aspettare l’ascensore. E appena udii chiudersi una porta ad un piano, doveva esser il secondo,
o il terzo, scivolai a terra, stremato. L’orgia di suoni era ancora lì, appena attutita dal portone di legno che mi separava dalla strada.
Basta basta basta, mi ripetei, seduto con la testa tra le mani.
Basta basta basta.
Intravidi una porticina in fianco alla gabbia dell’ascensore. Con uno sforzo sovraumano mi rimisi in piedi, la raggiunsi e provai ad aprirla. Non era chiusa a chiave. Una sorta di sgabuzzino, con le scope, il secchio, i sacchi per l’immondizia. Riconobbi l’odore. Entrai, e subito chiusi la porta: il buio che si creò istantaneamente mi attraversò da parte a parte.
Tornai a sedermi. E fu di nuovo luce. Luce calda, di fiamma. Di fiammella per l’esattezza. Qualcuno - dentro - aveva acceso un accendino. Sobbalzai per lo spavento. Non riuscii nemmeno ad urlare. La voce mi morì in gola.
L’indice posato sulle labbra del bambino che reggeva con l’altra mano l’accendino rubato allo zio sarebbe stato superfluo, se non fosse che quel gesto riuscì a calmarmi.
Alla luce tremolante, l’osservai. Lo riconobbi. Quanti anni erano passati! Sicuramente ben più dei quattro o cinque che doveva avere lui.
Dio, quanto mi somigliava! Quanto mi somigliava ancora...
Mi disse: loro non lo sanno, è per questo che non la smettono. Non lo sanno che ti stanno facendo male, altrimenti non urlerebbero. Non lo sanno che senti ogni insulto sulla pelle, che ogni ingiuria ti graffia il viso, che il suono di uno schiaffo fa più male dello schiaffo, che gridare odio uccide i fiori e che il disprezzo secca la terra.
Non lo sanno...se no non lo farebbero.
E spense l’accendino
Già, non lo sanno. Me ne ero quasi scordato.
Benché fossi sicuro che il bambino non fosse più lì, lo stesso controllai prima di richiudere la porta, uscendo dallo sgabuzzino. Senza esitare, tornai in strada. Forse ero pronto pure ad affrontare il centro città.
Decisi ugualmente di rincasare
Opera scritta il 03/03/2018 - 11:18
Da Roberto L
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Commenti
Grazie Corrado. A ciascuno il suo...perfetto. Ti ringrazio per aver definito il mio testo "originale", e' proprio un bel complimento. Grazie Laisa, emozionare e' la mia massima aspirazione e ciò che cerco quando leggo poesie. Grazie Mimmi per l'attenta disamina. E' perfetta (a parte la mia presunta consapevolezza ) grazie a tutti
Roberto L 04/03/2018 - 17:45
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Molto bello, ben scritto( ma questo lo sai già) e coinvolgente. Originale l’idea di rivederti in quel bambino che in realtà è solo frutto della tua immaginazione, il tuo io bambino che inesorabilmente viene fuori nei momenti difficili e in un certo modo ti dà la forza necessaria per affrontare il mondo fuori...
Apprezzatissimo con le 5 *che dal cell non riesco a darti!
Apprezzatissimo con le 5 *che dal cell non riesco a darti!
Mimmi Due 03/03/2018 - 17:04
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emozionante
la voce della coscienza nn può che avere le sembianze di un bambino
forse, è proprio quando nn si è completamente lucidi, che l'ascoltiamo con più attenzione.
complimenti,
davvero...ripeto, emozionante in forma e contenuto
la voce della coscienza nn può che avere le sembianze di un bambino
forse, è proprio quando nn si è completamente lucidi, che l'ascoltiamo con più attenzione.
complimenti,
davvero...ripeto, emozionante in forma e contenuto
laisa azzurra 03/03/2018 - 14:21
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Molto bello, assai originale e ben scritto. Al lettore non è dato di assimilare in tutto e per tutto il grosso significato, il contenuto di questa idiosincrasia al rumore, ma forse era proprio questo lo scopo del narratore: a ciascuno il suo, parafrasando Sciascia.
Corrado B. 03/03/2018 - 13:27
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