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La notte che Sigfrido ha ucciso il drago

La notte che Sigfrido ha ucciso il drago


Devo farlo, non solo per Marta, ma anche per le troppe vite che s’è portato via l’alito di quel maledetto drago.
Sono settimane che ci penso. E questa… è la notte perfetta: la nebbia si è palesata risalendo i ripidi argini del fiume dopo che l’ultimo brandello di un rosso tramonto autunnale si è riflesso nell’acciaio inossidabile del grande silo, inquietante totem che si erge maestoso all’interno della fabbrica di morte sorta sulla riva est.
Il fiume, largo una ventina di metri all’apice delle due sponde, divide la zona residenziale di un comune, a ovest, dalla fabbrica che produce chissà quali schifezze sita nel comune sulla riva opposta.


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Quando il silo s’accese dell’ultimo bagliore del Sole morente, ero là, sul ponte pedonale in legno d’abete lamellare che ha sostituito il vecchio ponticello in cemento, demolito dopo che una piena aveva scalzato il pilone centrale decretandone la fine.
Ero là a osservare il drago che emettendo un suono sinistro, la sua voce inquietante, soffiava fumo dalla valvola di sfiato del grande silo centrale e dalle giunture dei tubi che lo collegano al corpo di fabbrica e ad altri cinque sili più piccoli che gli fanno da corona. “I figli che ciucciano il fuoco dal ventre del drago”, pensai, rammentando l’immagine che mi sovvenne anni prima, quando ero stato assunto nella fabbrica sorta di là dal fiume.
«Pensa che fortuna, Marta,» avevo detto quel giorno a mia moglie, «non devo nemmeno prendere la corriera: esco di casa, faccio trecento metri, attraverso il ponticello, percorro altri cento metri e sono al lavoro.»
Marta aveva annuito felice, ignara del pegno che lei e molti altri vicini di casa sarebbero stati chiamati a pagare nel corso degli anni: il drago assicurava un ottimo stipendio, ma in cambio ogni giorno si prendeva un pezzetto di vita di chi abitava le case sulla sponda opposta del fiume.


Quando la nebbia salendo dall’acqua del fiume, inquinata dalle deiezioni del drago e dagli innumerevoli sbocchi fognari, civili e industriali, che scaricano nel suo alveo a monte piuttosto che a valle, iniziò a distendersi nella brughiera… lanciai un’occhiata sinistra ai silo illuminati a giorno da potenti fotocellule. «Stanotte Sigfrido spegnerà per sempre i tuoi occhi, maledetto drago», ghignai rabbioso. Poi girai sui tacchi e me ne tornai a casa.


*******************************************


Come mio padre e ancora prima mio nonno, sono nato in questa via dal nome così poco attraente, se non addirittura rabbrividente. Nome che, a detta dei vecchi: «Allunga la vita!»
A memoria di mio padre, e di riflesso di mio nonno, il triste primato per il decesso del residente più giovane, riguardava un contadino che aveva tirato le cuoia nel suo letto alla soglia dei novant’anni. Quello del più anziano, apparteneva a un mungitore che aveva deciso di salutare il mondo alla tenera età di anni centootto, mentre torceva il collo a una gallina prima di spennarla.
Sono primati obsoleti, impossibili, nonostante i progressi della medicina, da replicare ai giorni nostri.
A quei tempi, “via del cimitero” era ancora una strada sterrata: una lunga fila di case rurali e una cascina occupavano il lato ovest della via, mentre sull’altro lato la distesa di campi da coltivare si allungava sino all’argine del fiume.
Avevo otto anni quando, con occhi carichi di meraviglia, seduto sulla soglia dell’uscio di casa con i gomiti sulle ginocchia e i pugni piantati sotto il mento, osservavo lo schiacciasassi pressare l’ancor fumante manto d’asfalto, disteso poco prima da operai sfatti dal calore in una caldissima giornata di metà luglio.
Ne avevo trenta quando, dopo aver ristrutturato la casa del nonno, c’ero andato ad abitare con mia moglie.
Ne avevo trentadue, quando dalla finestra della nostra camera vedevo il drago d’acciaio e cemento nascere e crescere giorno dopo giorno di là dal fiume. In contemporanea con le villette a schiera che fagocitavano il verde dei prati sull’altro lato della via.
Ne avevo trentacinque, quando avevo letto il bando di assunzione esposto nella bacheca del comune.


Ricordo con immutato affetto e profonda tristezza la signora Gondrani, gentilissima ed affabile vicina di casa, che dopo aver preso possesso della sua nuova dimora (la viletta di testa di una lunga schiera), aveva organizzato una raccolta di firme tra i residenti per cambiare il nome, a suo dire addirittura “terrificante”, alla via.
Io avevo provato a dissuaderla, spiegandole che in fondo quel nome portava pure bene, dato che la longevità dei residenti storici non era riscontrabile in nessun altra via o quartiere del paese. Ma la maggioranza aveva deciso di portare le firme in comune… Così, tre mesi dopo, “via del cimitero” era mutato nel più grazioso toponimo “via dei prati fioriti”. Anche se i prati fioriti, per la gran parte giacevano da tempo immemore sotto le villette a schiera dei nuovi residenti.
Intanto, l’alito infetto del drago lavorava silente; mentre la sua voce lamentosa si faceva sentire, giorno e notte, a intervalli più o meno regolari… Il soffio più fastidioso per le orecchie dei residenti, era quello che aveva sostituito il canto mattutino dell’ultimo gallo presente nella cascina ormai in disarmo.


La prima sfortunata vittima del drago, era stata proprio la signora Gondrani: il tumore al seno l’aveva spedita al creatore in soli due anni.
Ma quando i casi di tumore, al polmone piuttosto che alla prostata o al fegato, si moltiplicarono, allora tutti quanti compresero che invece d’impegnarsi per cambiare il nome alla via, sarebbe stato meglio lottare per far chiudere la fabbrica di morte.
E da lì partirono le manifestazioni… che, naturalmente, non portarono da nessuna parte.
Anch’io, nonostante rischiassi il licenziamento, ero in prima fila a protestare. Ma già il fatto di non aver subito nemmeno una reprimenda dalla proprietà, certificava il fatto che le nostre proteste erano state assorbite come acqua fresca da chi aveva anteposto il profitto alla salute.


*******************************************************


Sono trascorsi quindici anni dall’ultima protesta davanti alla fabbrica. I residenti continuano a morire. Mia moglie, a sessantasette anni, giace in un letto d’ospedale devastata da un tumore al fegato con metastasi estese a tutti gli organi vitali. Io ne ho settanta e sono pensionato da cinque, e da quando ho compreso che il male me la sta portando via, sono ancora più convinto che è stato l’alito del drago a renderla sterile, a toglierci la gioia di concepire quel figlio tanto desiderato.
Ora si è ammalato anche il figliolo di un vicino: ha soltanto sei anni e la leucemia gli sta prosciugando le ultime stille d’energia vitale. E questo è davvero troppo. La misura è colma… in verità lo è da tempo, da troppo tempo. Se nessuno si prende la responsabilità, lo farò io: ucciderò il drago!
Se possedessi la spada di Sigfrido, l’arma capace di spaccare un’incudine a metà, sarebbe tutto più facile: un fendente alla recinzione d’acciaio per aprirsi un varco, un altro al corpaccione d’acciaio del drago per sventrarlo, e via andare.
Ma un buon tronchese e una grossa chiave inglese la sapranno sostituire degnamente: con il tronchese taglierò le maglie d’acciaio, entrerò nel regno del drago, salirò sopra la sua testa; poi, usando la chiave inglese, stringerò con forza il bullone che serra la molla della valvola di sfiato... e di lì a poco più di un’ora… BOOM!
Ci ho passato gli anni migliori della mia vita, là dentro. Trent’anni trascorsi ad accudire il drago, sono serviti a scoprire il suo punto debole… non fallirò! La nebbia mi permetterà di non essere inquadrato dalle telecamere mentre, camminando rasente il muro di cinta, raggiungerò il lato chiuso dalla recinzione d’acciaio. E quando avrò fatto, via! Andrò all’ospedale e attenderò insieme a Marta di udire il boato, l’urlo agghiacciante del drago morente… I danni collaterali, se tutto andrà come previsto, non dovrebbero contemplare la perdita di vite umane: di notte c’è solo il guardiano, chiuso nel suo gabbiotto, a presidiare l’ingresso, e il corpo di fabbrica sarà una barriera più che sufficiente a ripararlo dall’esplosione del silo. Forse l’onda d’urto manderà in frantumi qualche vetro delle finestre; probabilmente dei detriti finiranno nei giardini piuttosto che sui tetti… un costo accettabile se servirà a far chiudere definitivamente la fabbrica di morte.


E’ ora di andare. Lascerò la porta aperta e una lettera che spiega tutto sopra il tavolo.
Quando avrò fatto, non tornerò a casa… andrò direttamente da Marta e cercherò di alleviare le sue immani sofferenze, raccontandole che stanotte Sigfrido ha ucciso il drago… giurerò di averlo visto con i miei occhi impugnare la spada a due mani e affondarla nel cranio dell’essere demoniaco, e quando udiremo un urlo terrificante uscire da fauci fiammeggianti… per convincerla che è tutto vero la prenderò in braccio e la porterò accanto alla finestra aperta, così che possa non solo udire, ma anche vedere con i suoi stanchi occhi l’ultimo rantolo infuocato del drago… E poi… poi voleremo insieme, per raggiungere un luogo dove non ci saranno draghi a soffiare morte e dolore.


FINE




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Opera scritta il 13/06/2018 - 13:41
Da vecchio scarpone
Letta n.1002 volte.
Voto:
su 2 votanti


Commenti


lieto che il racconto, purtroppo attualissimo, ti sia piaciuto.
Ciao Atrebor.
Giancarlo

vecchio scarpone 14/06/2018 - 21:15

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già, certe situazioni nel terzo millenio, si dovrebbero leggere solo nei racconti di fantasia, o di cronaca dei tempi andati... invece, hai perfettamente ragione, purtroppo continuano a ripetersi. Ti ringrazio d'avermi letto anche come narratore e d'aver gradito queto breve racconto.
Ciao Laisa
Giancarlo

vecchio scarpone 14/06/2018 - 21:12

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Ottima scrittura e tematica scottante. Complimenti!

Atrebor Atrebor 14/06/2018 - 20:13

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Giancarlo
emozionante
sei davvero bravissimo
purtroppo, una storia che si ripete
e, purtroppo, mai così "romanzata"

laisa azzurra 14/06/2018 - 08:28

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di reale c'è la via che ha cambiato nome,il campo ora sepolto sotto le villette a schiera, il fiume, la fabbrica sulla sponda opposta che quando il vento soffia dalla parte sbagliata infesta la via con i suoi miasmi e la signora della prima villetta (una delle promotrici della petizione per cambiare nome alla via) che, anni fa, è morta per un tumore...il resto e frutto di fantasia... e, incrociando le dita e toccandosi pure le parti basse, speriamo che resti tale. Ti ringrazio.
Ciao Loris.
Giancarlo

vecchio scarpone 13/06/2018 - 22:41

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Talmente bello e scritto bene che si potrebbe sceneggiarlo...
I miei complimenti!
Mi auguro sia frutto di una fervida fantasia.
Un saluto.

Loris Marcato 13/06/2018 - 21:12

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