Annetta aprì gli occhi, si era addormentata e il lavoro le era caduto a terra, lo raccolse e lo ripose dentro al mobile e con esso anche il cestino degli ago e filo; avrebbe ripreso l’indomani, tanto al matrimonio mancavano ancora diversi giorni e la gonna era quasi finita. Suo cugino Pietro l’aveva infatti invitata al matrimonio dei suoi due figli: Mavillo e Rachelina. Dalla piazzetta proveniva uno strombazzare di clacson, lei scostò la vecchia tenda di pizzo che ormai dimostrava i suoi anni, tanto che qualche buco si incominciava a notare pur tra i trafori del merletto. Arrivava un auto, lei riconobbe quella del suo inquilino; l’auto si fermò nel cortile e ne scese una signorinetta ben vestita, sorridente, felice di essere tornata a casa. Annetta, con stupore, riconobbe Giovanna che a sua volta guardava in direzione della finestra e vistala la salutava con la mano. Annetta bruscamente calò la tenda, ma poi stette lì a sbirciare attraverso la trina del merletto: come era cresciuta la Giovanna! Era passato diverso tempo da quando era partita per il collegio. Era ancora assorta in questi pensieri, quando si udì uno squillante: “Buongiorno signorina Annetta” e si ritrovò Giovanna che le stampava un bacio sulla guancia. La ruvida Annetta parve ammorbidirsi e abbozzò un sorriso per poi ricomporsi subito e le disse: “Siamo cresciute eh!” Giovanna, compiaciuta che Annetta lo avesse notato, le rispose: “Ho molte cose da raccontarle, vedrete!” e sparì nella sua camera. L’indomani in casa arrivò la sarta, la mamma di Giovanna l’aveva convocata per rifare il guardaroba alla sua figliola; Giovanna le domandò di Leone suo figlio e gli mandò i suoi saluti e che passasse a trovarla. Da bambini avevano condiviso tanti giochi e i compiti, poi per il ripasso c’era Annetta che volentieri si prestava a ciò anche per riempire i lunghi pomeriggi invernali. E dopo qualche giorno, Leone arrivò, la mamma lo aveva mandato con la scusa di consegnare qualche capo da provare, poi sarebbe passata lei. Quando Giovanna lo vide, gli scappò da ridere, ora una leggera peluria sopra il labbro gli dava un aspetto così da “ometto”. Anche Leone però la fissava incuriosito nel trovarla così “cresciuta”. Annetta in disparte, osservava i due ragazzi e notò che la complicità che era esistita da quando erano bambini, ora aveva fatto posto ad una serie di emozioni nuove; si conoscevano da sempre, ma ora era come si vedessero per la prima volta. Lei (Annetta), queste emozioni le aveva sempre tenute a bada. Non che le fossero mancate le occasioni, anzi suo padre Giuseppe sperava che si accasasse; l’agiatezza della famiglia le avrebbe permesso un buon matrimonio. Era l’unica figlia rimastagli, ma Annetta era stata irremovibile: lei non si sarebbe mai sposata! Mamma Maria le aveva raccontato della dolce e malinconica storia d’amore dello zio Giovanni; lui unico figlio maschio del benestante Antonio, commerciante nonché garante con la sua firma in vari affari che gli avevano dato una certa agiatezza, amava riamato Caterina. Lei aveva portato una ventata di allegria nella sua taciturna vita complessata dall’avere un padre “ingombrante”. Antonio era deluso di questo figlio che sembrava non avere particolari ambizioni, almeno si sposasse “bene”, invece no, non solo era imbranato negli affari e preferiva lavorare la terra, ma si era innamorato di questa ragazza decisamente di famiglia modesta. Voleva, Giovanni, essere lasciato in pace e poter sposare Caterina, ma Antonio fu irremovibile e così i due innamorati si vedevano di nascosto. Gli anni passarono, Antonio subì un tracollo finanziario e dovette dar fondo alle sue sostanze e vendere case e terreni, le sue figlie andarono a servizio, loro che in casa avevano un servitore! Poi Antonio morì e finalmente Giovanni poté sposare la sua Caterina; un filo d’argento colorava le sue tempie e anche in Caterina il tempo cominciava a mostrare i suoi segni, ma loro erano felici e speravano che un figlio prima o poi sarebbe arrivato, ma era tardi e in Giovanni ricomparve la sua antica malinconia contro la quale Caterina combatteva. Lei era sempre stata una ragazza canterina e giocosa ma nel tempo della sua vecchiaia questo si trasformò in comportamenti alquanto bizzarri: si raccontava che volesse mettere a letto le galline a mezzogiorno. Anche il carattere di Annetta non era semplice, anzi era ruvido e spigoloso, ma sotto questa scorza aveva un buon cuore; non che lo desse a vedere facilmente però! Infatti i clienti della macelleria del suo inquilino usavano chiedere se c’era ancora del fegato in vendita o se, se lo avevano “mangiato” a causa delle evidenti spigolosità di Annetta. Il macellaio si faceva una gran bella risata, sapeva passarci sopra, lui!
Annetta si ridestò dai suoi pensieri, Leone se ne era andato: l’aveva salutata, ma lei non lo aveva sentito, immersa com’era nei suoi ricordi. Giovanna si stava provando i capi che la sarta le aveva mandato: “Decisamente corto” scappò ad Annetta guardandola: “I tempi sono cambiati” intervenne la mamma di Giovanna aiutando la figlia a sfilarsi l’abito. Nei giorni seguenti anche i capelli subirono una bella sforbiciata; quando rientrò a casa, Annetta la squadrò e scosse il capo, poi si sfilò la forcina messa male e si sistemò la crocchia di capelli. Era questa, l’acconciatura che l’accompagnava dalla sua giovinezza, un giorno aveva salutato le trecce e mamma Maria le aveva insegnato come raccogliere i capelli; unica civetteria: qualche bel pettinino o fermaglio per i giorni di festa. Adesso alla domenica e nelle feste “comandate”, attendeva che i bambini, figli dei suoi cugini, usciti dalla chiesa, la andassero a salutare, lei per “ricompensa” soleva dare qualche monetina; il pomeriggio, poi, lo passava accanto alla finestra ad osservare il via-vai della vicina piazzetta. Seduta nella sua vecchia e ormai lisa poltrona, guardava i paesani nella loro passeggiata festiva; quando poi c’erano dei forestieri, attendeva con impazienza il rientro a casa di Giovanna per avere notizie. A volte l’attesa si prolungava sino all’indomani, perché la Giovanna, uscita con la famiglia per una gita con l’automobile, magari rientrava tardi. Sempre nei pomeriggi della domenica, c’era il momento del tè, fatto per accompagnare le pastarelle che la Giovanna prima di uscire, le aveva fatto trovare sopra il pianoforte; era questo un piccolo lusso che ormai lei non si poteva più tanto permettere. Annetta infatti viveva con il lascito di suo padre; la casa poi, era grande ed allora ne affittò una parte: così aveva anche un po’ di compagnia. Niente muri a dividere gli spazi propri, solo una approssimativa divisione di stanze; cosicché la sera, quando Annetta si ritirava, per salire nella sua camera, doveva passare per il tinello dove Giovanna e i suoi cenavano ed allora, ella si attardava nel vano della porta, a sentire di che cosa si parlasse a tavola. Le piaceva poi, farsi raccontare dalla Giovanna come era andata la gita domenicale, dove erano stati e così via. Capitava poi, che qualche uscita la facesse pure lei, andava con il treno a trovare i parenti che l’andavano a prendere, chi con l'auto, chi col calesse, alla stazione; questo durante la bella stagione. Nei mesi invernali invece, Annetta scriveva lunghe lettere soprattutto al cugino Giovanni di Saonara. Tra le altre cose si informava su come crescevano i suoi tanti bambini, Giovanni dalla sua Alice ne aveva avuti ben undici! Lei allora pensava ai suoi fratelli, mancati ancor piccini; Giuseppa in particolare, aveva quindici anni. Le era pesato crescere senza compagnia, si ricordava la pacata rassegnazione di mamma Maria, quando ad uno ad uno i bambini morivano; con Bortolo Antonio l’illusione era durata due anni. Ma il rammarico più grande era di papà Giuseppe, vedeva sfumare l’aspirazione di avere un erede maschio a cui lasciare i suoi possedimenti. Che senso aveva avuto darsi tanto da fare se la sua casa non avrebbe avuto continuità? Certo c’era Annetta, ma questa benedetta ragazza non aveva voluto sposare nessuno dei giovani di brava famiglia propostile. Annetta adduceva, tra le tante scuse per non sposarsi, anche l’esempio delle sorelle di mamma Maria; Maria Luigia, Serafina, Giuseppina e Santina chi per motivo chi per un altro, non si erano accasate. C’era poi la Ninetta, ma ella non avrebbe in alcun modo potuto sposarsi, Antonia (questo il suo nome) infatti era disabile a causa di una brutta caduta subita quando aveva la tenera età di due anni; i pioli della ringhiera in legno di casa, erano sconnessi, si sarebbero dovuto riparare ma tant’è che la piccina vi sgusciò fuori finendo giù di sotto. Si salvò, ma il suo sviluppo intellettivo ne fu compromesso; divenne la “Ninetta”, una creatura da amare un po’ di più. Mamma Serafina però non resse al dolore e circa un anno dopo, nel cortile di casa, un infarto la tolse alla sua famiglia. Suo marito Antonio, non tardò molto a risposarsi. Aveva sì amato molto Serafina, aveva figli grandi che potevano badare benissimo alla casa e alla piccola “Ninetta”, nonostante questo, non aspettò neanche che terminasse l’anno di lutto per portare a casa Margherita, una bella cugina di Serafina; ella (Serafina), non era stata una gran bellezza, più “grande” di Antonio di qualche anno, era stata però una buona moglie e il sentimento che l’univa al marito, questi non l’aveva saputo ricreare con la nuova sposa. Anche il fatto che Margherita gli avesse dato solo figlie e non un maschio che prendesse finalmente le redini di casa al posto dello scialbo Giovanni, aveva avuto il suo peso. C’era sì il rispetto tra loro, ma l’amore era stato solo per Serafina. Comunque Margherita ce la metteva tutta per tenere unita la numerosa famiglia e bisogna darle merito che ci riusciva! Aveva sempre un gran daffare, le ragazze più grandi l’aiutavano e per i lavori più pesanti c’era un servitore; il lavoro di commerciante di Antonio andava bene e lo arrotondava mettendo la sua firma a garanzia di certi affari. E così poté permettersi di sistemare la casa, la intonacò anche, cosa che non tutti potevano permettersi; la sua casa era la migliore della piccola contrada del “Cucco”. Era stata la casa dei genitori di Serafina e ora così sistemata e messo dentro una bella moglie come Margherita: sì poteva dirsi soddisfatto! Ma un brutto giorno le cose cambiarono, ci fu chi non onorò gli accordi presi, lui aveva messo la sua firma a garanzia di ciò e allora non gli restò altro da fare che dar fondo alle sue sostanze, vendere case e terreni (gli restò solo la sua abitazione) e addirittura mandare le sue figlie a servizio e come se non bastasse, si aggiunse la morte di Margherita! Ma il suo cuore (come la sua tempra) era forte e resse. Alla piccola Rachele, la sua ultima figlia, la sua preferita, le aveva dato anche un nome non usuale, lei meritava qualche cosa di diverso, aveva deciso: l’avrebbe condotta a Venezia; durante il girovagare col suo lavoro, aveva fatto delle importanti ed aristocratiche conoscenze, era arrivato il momento di sfruttarle! Altre riguardevoli amicizie le aveva fatte durante i moti del “48”; tra i giovani ed ardimentosi patrioti che combattevano il dominio austriaco, c’erano anche dei nobili, discendenti di titolate famiglie veneziane. In una di queste (famiglie) Antonio collocò la piccola Rachele e si accertò che non la mettessero a fare umili lavori. Poteva stare tranquillo Antonio e tornarsene a casa con la certezza di aver ben “sistemato” la piccola Rachele, ella infatti aveva fatto una buona impressione alla principessa che aveva deciso di tenerla presso di sé come “ragazza di compagnia”. Era intelligente Rachele e ben assimilava l’educazione e l’istruzione che la principessa si era fatta carico di darle. Le piaceva poi ascoltare racconti che magnificavano le vicende della famiglia che in Venezia a suo tempo era stata tra le grandi. Così come, molti anni dopo a Piovene la Giovanna accompagnava Annetta alle funzioni in chiesa (badando di fare un largo giro per non incontrare gente), così durante la sua permanenza in Venezia, Rachele soleva accompagnare la principessa nel suo giro caritatevole verso un convento che svolgeva opere compassionevoli a favore dei poveri che in quegli anni erano davvero numerosi. Ogni tanto Rachele se ne tornava a casa; era allora festa grande anche per i bei regali che portava, essi erano dono della principessa, che a Rachele voleva davvero bene e ne attendeva con impazienza il ritorno in Venezia. Teneva, la principessa, la tenda scostata nella sua stanza cosicché da scorgere Rachele quando arrivava; non era facile vederla nell’andirivieni caotico di “Riva degli Schiavoni”, sempre molto animata. Da poco tempo, poi, si ergeva il monumento a “Vittorio Emanuele II°”, primo re di una ancor neonata Italia. Era bella Rachele e l’educazione impartiteli dalla principessa dava i suoi frutti, quando se ne ritornava a casa tra i suoi amati monti, beh bisogna proprio dire che il distacco dalle ruvide ragazzotte di montagna era evidente! E si che lei non si atteggiava affatto, ma le veniva naturale comportarsi in un certo qual modo; a volte la sorella Santa si spazientiva e le ricordava che le sue belle maniere lì tra i monti erano un po’ fuori luogo, lasciasse perdere! Per una ragazza così si sarebbe aspettato un matrimonio più consono, ma Rachele accettò di sposare Pietro Giovanni. Lei era definitivamente ritornata da Venezia, era stata Maria, la sorella “grande”, sposata a Piovene, ad andarla a prendere e prima di prendere il treno, si fermarono a “Campo San Zaccaria”, dove c’era un (come si chiamavano allora) salone di posa e quello scatto arrivò sino ai giorni nostri gelosamente custodito. Per il giorno del matrimonio, Rachele mise sul capo il bel scialle, dono della principessa e che lei aveva consegnato a Santa come regalo per un suo matrimonio. Ma a Santa lo scialle non servì mai, lei al pari delle sorelle più grandi, non si sposò. Era un grande amore quello sorto tra Rachele e Pietro Giovanni, lui si rammaricava di non poterle offrire qualcosa di più di una modesta casetta in paese, ma col suo lavoro di boscaiolo, grandi entrate non c’erano. Rachele nell’arredare quelle poche stanze, aveva messo grazia e buon gusto e qualche bell’oggetto, dono della principessa; a volte, quando li spolverava, ripensava alla magnificenza del palazzo, tutto logge e balconcini interni e che dire della magnifica scalinata! Poi ricacciava quella piccola nota malinconica e pensava alla piccola vita che portava in sé. Rachele teneva scostata la piccola tendina della finestra che dava sulla strada, questo per vedere il marito arrivare e corrergli incontro e farsi raccontare come era andata la giornata, là tra i boschi in montagna. Lì nella contrada la vita era animata, c’era il rumore del mulino e del maglio alimentati dal torrente che scorreva proprio parallelo alla strada, c’erano frotte di bambini che giocavano, c’era il cicaleccio delle donne che approfittavano dell’assenza dei mariti e delle poche pause dei loro lavori, per scambiarsi quattro chiacchiere e così alleggerirsi un po’ la giornata che a volte era davvero pesante. Quel dieci di novembre, Rachele rimase a lungo vicino alla finestra ad attendere Pietro Giovanni, stava male, sentiva un disagio crescere, la giornata sebbene ai primi di novembre, era calda, ma lei aveva freddo ed alimentò la stufa; poi arrivò Clorinda, ella era la sorella di Pietro Giovanni, si fece forza ed entrò, Rachele intuì che qualche cosa era accaduto e si accasciò lanciando un urlo. Vennero le donne della contrada preoccupate per le sue condizioni: mancava pochi giorni al parto; poi arrivò il cognato Giacomo ed assieme a lui gli uomini, suoi lavoranti che trasportarono in casa Pietro Giovanni privo di vita! Era stato un albero e Pietro Giovanni si trovava dove non doveva trovarsi, anzi quel giorno proprio non doveva esserci al lavoro nei boschi, aveva degli affari da sbrigare. Tornò però presto, e passò da casa a cambiarsi, Rachele stava già male e lo pregò, lo implorò di rimanere a casa; Pietro Giovanni rispose che non sarebbe tornato tardi, intanto lei che si riposasse e anzi fece di più, avvisò la sorella (Clorinda), che abitando vicino le desse un’occhiata.
Nei giorni seguenti alla disgrazia, Rachele fu vista stendere neri panni al tiepido sole novembrino: aveva tinto tutto il suo guardaroba di nero; non che prima facesse sfoglio di colori accesi, ma qualche blusa di cotonina fiorata, alla domenica per andare alle funzioni in chiesa, la metteva. Adesso no! Da ora in avanti le avrebbe osservato il lutto più stretto e mai avrebbe alzato lo sguardo su un altro uomo! La pensava così anche Maddalena nel lontano 1793; ella viveva con sua figlia e per sua figlia, ma qualcuno le aveva messo gli occhi addosso. Se ne era andata a letto come al solito quella sera, un gran rumore e strepitio la fecero sobbalzare nel misero giaciglio che divideva con sua figlia, riconobbe le voci dei balordi che minacciavano di buttare giù la porta se lei non avesse aperto e quelli: “Vieni giù e porta anche tua figlia!” Maddalena intuì le losche intenzioni di quei figuri che già erano passati per tutte le bettole del paese; fece uscire sua figlia da una porta che dava sul bosco e la invitò a correre senza fermarsi, che andasse dal parroco e chiedesse aiuto. Poi imponendosi una calma, (ma il cuore le scoppiava nel petto) aprì dicendo che avrebbe cucinato loro qualche cosa; al che sembravano calmarsi. Mangiarono e di nuovo bevvero… E il sipario cadde sulla povera donna! L’indomani presto, appena rischiarato, il parroco e la giovinetta arrivarono presagendo il peggio, Maddalena era ancora coricata, malconcia ma viva. Nei giorni che seguirono, Maddalena con l’affetto del vicinato si riprese; restavano aperte le ferite dell'anima. Partì una denuncia su quei balordi che la sera precedente all’aggressione alla Maddalena, si erano spinti ad importunare il parroco e mentre la perpetua tremava come una foglia al pensiero che la porta cedesse, il don invitava: “Andatevene figlioli, tornate a casa!” Due anni dopo si fece il processo, ma ahimè le pene inflitte furono assai lievi e quei balordi se la cavarono con qualche anno sulle galee. Queste lontane memorie, Rachele le aveva sentite in famiglia, in quanto la Maddalena in questione, era una sua ava da parte della nonna paterna, che non aveva mai conosciuto; anche Annetta aveva sentito qualche cosa del genere da mamma Maria, ma non sapeva (visto il tempo che era passato) quanto di vero ci fosse in questo racconto. Per tornare a quei giorni lontani, i buoni vicini aiutarono Maddalena a sistemare la casa messa sottosopra quella terribile notte e ci fu chi donò un paio di tendine che le misere finestre di quella casa, mai avevano visto; Maddalena però preferiva tenere scostate le tende, da poter così, più facilmente vedere chi si avvicinava. Aveva paura e tanta! C’era poi la speranza, chiamiamola illusione, di veder tornare Zuanne, il padre di sua figlia; anche quella fu una violenza, anche se condita da dolci promesse peraltro non mantenute, Lui se ne andò in Cadore con la scusa che, lui poveraccio, avrebbe lavorato per mettere da parte qualche cosa dato che metteva su famiglia. Maddalena non lo avrebbe più rivisto! Carlo e Francesco, i suoi fratelli, tentarono una qualche ricerca, ma senza esito. Zuanne era partito con dei boscaioli che in quelle terre ricche di boschi, certamente avrebbero trovato lavoro, poi però “si dimenticò” che là a “Valli dei Conti e dei Signori”, aveva lasciato una ragazza che portava in grembo il frutto della sua canagliata. Ma ora Maddalena aveva visite: era il parroco che a seguito del brutto episodio capitato, si era dato da fare e ora era qui a proporre a Maddalena quella che secondo lui, era cosa da farsi: “Figliola, se aveste un uomo in casa, forse sareste più tranquilla”; e gli parlò di Iseppo che, diventato vedovo da poco e con dei bambini piccoli, avrebbe acconsentito ad un matrimonio che portava giovamento alla sua casa e certamente, insisteva il parroco, era cosa buona anche per Maddalena e sua figlia. E così avvenne con buona pace di tutti! I primi tempi non furono facili, Iseppo aveva un carattere taciturno, in casa si parlava poco ed anche coi suoi bambini era poco espansivo; con la Maddalena si davano dei voi. Però lei (la Maddalena) era un tipo tosto: aveva accettato di sposarlo? Bene, avrebbe fatto funzionare questo matrimonio! Accudiva con amore i tre bambini che a poco a poco cominciarono a ricambiare il suo affetto, preparava ad Iseppo il tascapane con il pranzo, quando questi, se ne stava fuori per lavoro; alla sera poi quando tornava a casa, Iseppo trovava la cena pronta, frugale, parca ma ben preparata. I suoi bambini erano a letto e quando saliva a vederli, li trovava sereni e quando, pur con fare burbero, domandava loro come andava, essi rispondevano che sì, andava bene e la “zia” (come la chiamavano) Maddalena li aiutava anche coi compiti e alla sera, dicevano la preghierina anche per la mamma era andata in cielo. Continua...
Annetta si ridestò dai suoi pensieri, Leone se ne era andato: l’aveva salutata, ma lei non lo aveva sentito, immersa com’era nei suoi ricordi. Giovanna si stava provando i capi che la sarta le aveva mandato: “Decisamente corto” scappò ad Annetta guardandola: “I tempi sono cambiati” intervenne la mamma di Giovanna aiutando la figlia a sfilarsi l’abito. Nei giorni seguenti anche i capelli subirono una bella sforbiciata; quando rientrò a casa, Annetta la squadrò e scosse il capo, poi si sfilò la forcina messa male e si sistemò la crocchia di capelli. Era questa, l’acconciatura che l’accompagnava dalla sua giovinezza, un giorno aveva salutato le trecce e mamma Maria le aveva insegnato come raccogliere i capelli; unica civetteria: qualche bel pettinino o fermaglio per i giorni di festa. Adesso alla domenica e nelle feste “comandate”, attendeva che i bambini, figli dei suoi cugini, usciti dalla chiesa, la andassero a salutare, lei per “ricompensa” soleva dare qualche monetina; il pomeriggio, poi, lo passava accanto alla finestra ad osservare il via-vai della vicina piazzetta. Seduta nella sua vecchia e ormai lisa poltrona, guardava i paesani nella loro passeggiata festiva; quando poi c’erano dei forestieri, attendeva con impazienza il rientro a casa di Giovanna per avere notizie. A volte l’attesa si prolungava sino all’indomani, perché la Giovanna, uscita con la famiglia per una gita con l’automobile, magari rientrava tardi. Sempre nei pomeriggi della domenica, c’era il momento del tè, fatto per accompagnare le pastarelle che la Giovanna prima di uscire, le aveva fatto trovare sopra il pianoforte; era questo un piccolo lusso che ormai lei non si poteva più tanto permettere. Annetta infatti viveva con il lascito di suo padre; la casa poi, era grande ed allora ne affittò una parte: così aveva anche un po’ di compagnia. Niente muri a dividere gli spazi propri, solo una approssimativa divisione di stanze; cosicché la sera, quando Annetta si ritirava, per salire nella sua camera, doveva passare per il tinello dove Giovanna e i suoi cenavano ed allora, ella si attardava nel vano della porta, a sentire di che cosa si parlasse a tavola. Le piaceva poi, farsi raccontare dalla Giovanna come era andata la gita domenicale, dove erano stati e così via. Capitava poi, che qualche uscita la facesse pure lei, andava con il treno a trovare i parenti che l’andavano a prendere, chi con l'auto, chi col calesse, alla stazione; questo durante la bella stagione. Nei mesi invernali invece, Annetta scriveva lunghe lettere soprattutto al cugino Giovanni di Saonara. Tra le altre cose si informava su come crescevano i suoi tanti bambini, Giovanni dalla sua Alice ne aveva avuti ben undici! Lei allora pensava ai suoi fratelli, mancati ancor piccini; Giuseppa in particolare, aveva quindici anni. Le era pesato crescere senza compagnia, si ricordava la pacata rassegnazione di mamma Maria, quando ad uno ad uno i bambini morivano; con Bortolo Antonio l’illusione era durata due anni. Ma il rammarico più grande era di papà Giuseppe, vedeva sfumare l’aspirazione di avere un erede maschio a cui lasciare i suoi possedimenti. Che senso aveva avuto darsi tanto da fare se la sua casa non avrebbe avuto continuità? Certo c’era Annetta, ma questa benedetta ragazza non aveva voluto sposare nessuno dei giovani di brava famiglia propostile. Annetta adduceva, tra le tante scuse per non sposarsi, anche l’esempio delle sorelle di mamma Maria; Maria Luigia, Serafina, Giuseppina e Santina chi per motivo chi per un altro, non si erano accasate. C’era poi la Ninetta, ma ella non avrebbe in alcun modo potuto sposarsi, Antonia (questo il suo nome) infatti era disabile a causa di una brutta caduta subita quando aveva la tenera età di due anni; i pioli della ringhiera in legno di casa, erano sconnessi, si sarebbero dovuto riparare ma tant’è che la piccina vi sgusciò fuori finendo giù di sotto. Si salvò, ma il suo sviluppo intellettivo ne fu compromesso; divenne la “Ninetta”, una creatura da amare un po’ di più. Mamma Serafina però non resse al dolore e circa un anno dopo, nel cortile di casa, un infarto la tolse alla sua famiglia. Suo marito Antonio, non tardò molto a risposarsi. Aveva sì amato molto Serafina, aveva figli grandi che potevano badare benissimo alla casa e alla piccola “Ninetta”, nonostante questo, non aspettò neanche che terminasse l’anno di lutto per portare a casa Margherita, una bella cugina di Serafina; ella (Serafina), non era stata una gran bellezza, più “grande” di Antonio di qualche anno, era stata però una buona moglie e il sentimento che l’univa al marito, questi non l’aveva saputo ricreare con la nuova sposa. Anche il fatto che Margherita gli avesse dato solo figlie e non un maschio che prendesse finalmente le redini di casa al posto dello scialbo Giovanni, aveva avuto il suo peso. C’era sì il rispetto tra loro, ma l’amore era stato solo per Serafina. Comunque Margherita ce la metteva tutta per tenere unita la numerosa famiglia e bisogna darle merito che ci riusciva! Aveva sempre un gran daffare, le ragazze più grandi l’aiutavano e per i lavori più pesanti c’era un servitore; il lavoro di commerciante di Antonio andava bene e lo arrotondava mettendo la sua firma a garanzia di certi affari. E così poté permettersi di sistemare la casa, la intonacò anche, cosa che non tutti potevano permettersi; la sua casa era la migliore della piccola contrada del “Cucco”. Era stata la casa dei genitori di Serafina e ora così sistemata e messo dentro una bella moglie come Margherita: sì poteva dirsi soddisfatto! Ma un brutto giorno le cose cambiarono, ci fu chi non onorò gli accordi presi, lui aveva messo la sua firma a garanzia di ciò e allora non gli restò altro da fare che dar fondo alle sue sostanze, vendere case e terreni (gli restò solo la sua abitazione) e addirittura mandare le sue figlie a servizio e come se non bastasse, si aggiunse la morte di Margherita! Ma il suo cuore (come la sua tempra) era forte e resse. Alla piccola Rachele, la sua ultima figlia, la sua preferita, le aveva dato anche un nome non usuale, lei meritava qualche cosa di diverso, aveva deciso: l’avrebbe condotta a Venezia; durante il girovagare col suo lavoro, aveva fatto delle importanti ed aristocratiche conoscenze, era arrivato il momento di sfruttarle! Altre riguardevoli amicizie le aveva fatte durante i moti del “48”; tra i giovani ed ardimentosi patrioti che combattevano il dominio austriaco, c’erano anche dei nobili, discendenti di titolate famiglie veneziane. In una di queste (famiglie) Antonio collocò la piccola Rachele e si accertò che non la mettessero a fare umili lavori. Poteva stare tranquillo Antonio e tornarsene a casa con la certezza di aver ben “sistemato” la piccola Rachele, ella infatti aveva fatto una buona impressione alla principessa che aveva deciso di tenerla presso di sé come “ragazza di compagnia”. Era intelligente Rachele e ben assimilava l’educazione e l’istruzione che la principessa si era fatta carico di darle. Le piaceva poi ascoltare racconti che magnificavano le vicende della famiglia che in Venezia a suo tempo era stata tra le grandi. Così come, molti anni dopo a Piovene la Giovanna accompagnava Annetta alle funzioni in chiesa (badando di fare un largo giro per non incontrare gente), così durante la sua permanenza in Venezia, Rachele soleva accompagnare la principessa nel suo giro caritatevole verso un convento che svolgeva opere compassionevoli a favore dei poveri che in quegli anni erano davvero numerosi. Ogni tanto Rachele se ne tornava a casa; era allora festa grande anche per i bei regali che portava, essi erano dono della principessa, che a Rachele voleva davvero bene e ne attendeva con impazienza il ritorno in Venezia. Teneva, la principessa, la tenda scostata nella sua stanza cosicché da scorgere Rachele quando arrivava; non era facile vederla nell’andirivieni caotico di “Riva degli Schiavoni”, sempre molto animata. Da poco tempo, poi, si ergeva il monumento a “Vittorio Emanuele II°”, primo re di una ancor neonata Italia. Era bella Rachele e l’educazione impartiteli dalla principessa dava i suoi frutti, quando se ne ritornava a casa tra i suoi amati monti, beh bisogna proprio dire che il distacco dalle ruvide ragazzotte di montagna era evidente! E si che lei non si atteggiava affatto, ma le veniva naturale comportarsi in un certo qual modo; a volte la sorella Santa si spazientiva e le ricordava che le sue belle maniere lì tra i monti erano un po’ fuori luogo, lasciasse perdere! Per una ragazza così si sarebbe aspettato un matrimonio più consono, ma Rachele accettò di sposare Pietro Giovanni. Lei era definitivamente ritornata da Venezia, era stata Maria, la sorella “grande”, sposata a Piovene, ad andarla a prendere e prima di prendere il treno, si fermarono a “Campo San Zaccaria”, dove c’era un (come si chiamavano allora) salone di posa e quello scatto arrivò sino ai giorni nostri gelosamente custodito. Per il giorno del matrimonio, Rachele mise sul capo il bel scialle, dono della principessa e che lei aveva consegnato a Santa come regalo per un suo matrimonio. Ma a Santa lo scialle non servì mai, lei al pari delle sorelle più grandi, non si sposò. Era un grande amore quello sorto tra Rachele e Pietro Giovanni, lui si rammaricava di non poterle offrire qualcosa di più di una modesta casetta in paese, ma col suo lavoro di boscaiolo, grandi entrate non c’erano. Rachele nell’arredare quelle poche stanze, aveva messo grazia e buon gusto e qualche bell’oggetto, dono della principessa; a volte, quando li spolverava, ripensava alla magnificenza del palazzo, tutto logge e balconcini interni e che dire della magnifica scalinata! Poi ricacciava quella piccola nota malinconica e pensava alla piccola vita che portava in sé. Rachele teneva scostata la piccola tendina della finestra che dava sulla strada, questo per vedere il marito arrivare e corrergli incontro e farsi raccontare come era andata la giornata, là tra i boschi in montagna. Lì nella contrada la vita era animata, c’era il rumore del mulino e del maglio alimentati dal torrente che scorreva proprio parallelo alla strada, c’erano frotte di bambini che giocavano, c’era il cicaleccio delle donne che approfittavano dell’assenza dei mariti e delle poche pause dei loro lavori, per scambiarsi quattro chiacchiere e così alleggerirsi un po’ la giornata che a volte era davvero pesante. Quel dieci di novembre, Rachele rimase a lungo vicino alla finestra ad attendere Pietro Giovanni, stava male, sentiva un disagio crescere, la giornata sebbene ai primi di novembre, era calda, ma lei aveva freddo ed alimentò la stufa; poi arrivò Clorinda, ella era la sorella di Pietro Giovanni, si fece forza ed entrò, Rachele intuì che qualche cosa era accaduto e si accasciò lanciando un urlo. Vennero le donne della contrada preoccupate per le sue condizioni: mancava pochi giorni al parto; poi arrivò il cognato Giacomo ed assieme a lui gli uomini, suoi lavoranti che trasportarono in casa Pietro Giovanni privo di vita! Era stato un albero e Pietro Giovanni si trovava dove non doveva trovarsi, anzi quel giorno proprio non doveva esserci al lavoro nei boschi, aveva degli affari da sbrigare. Tornò però presto, e passò da casa a cambiarsi, Rachele stava già male e lo pregò, lo implorò di rimanere a casa; Pietro Giovanni rispose che non sarebbe tornato tardi, intanto lei che si riposasse e anzi fece di più, avvisò la sorella (Clorinda), che abitando vicino le desse un’occhiata.
Nei giorni seguenti alla disgrazia, Rachele fu vista stendere neri panni al tiepido sole novembrino: aveva tinto tutto il suo guardaroba di nero; non che prima facesse sfoglio di colori accesi, ma qualche blusa di cotonina fiorata, alla domenica per andare alle funzioni in chiesa, la metteva. Adesso no! Da ora in avanti le avrebbe osservato il lutto più stretto e mai avrebbe alzato lo sguardo su un altro uomo! La pensava così anche Maddalena nel lontano 1793; ella viveva con sua figlia e per sua figlia, ma qualcuno le aveva messo gli occhi addosso. Se ne era andata a letto come al solito quella sera, un gran rumore e strepitio la fecero sobbalzare nel misero giaciglio che divideva con sua figlia, riconobbe le voci dei balordi che minacciavano di buttare giù la porta se lei non avesse aperto e quelli: “Vieni giù e porta anche tua figlia!” Maddalena intuì le losche intenzioni di quei figuri che già erano passati per tutte le bettole del paese; fece uscire sua figlia da una porta che dava sul bosco e la invitò a correre senza fermarsi, che andasse dal parroco e chiedesse aiuto. Poi imponendosi una calma, (ma il cuore le scoppiava nel petto) aprì dicendo che avrebbe cucinato loro qualche cosa; al che sembravano calmarsi. Mangiarono e di nuovo bevvero… E il sipario cadde sulla povera donna! L’indomani presto, appena rischiarato, il parroco e la giovinetta arrivarono presagendo il peggio, Maddalena era ancora coricata, malconcia ma viva. Nei giorni che seguirono, Maddalena con l’affetto del vicinato si riprese; restavano aperte le ferite dell'anima. Partì una denuncia su quei balordi che la sera precedente all’aggressione alla Maddalena, si erano spinti ad importunare il parroco e mentre la perpetua tremava come una foglia al pensiero che la porta cedesse, il don invitava: “Andatevene figlioli, tornate a casa!” Due anni dopo si fece il processo, ma ahimè le pene inflitte furono assai lievi e quei balordi se la cavarono con qualche anno sulle galee. Queste lontane memorie, Rachele le aveva sentite in famiglia, in quanto la Maddalena in questione, era una sua ava da parte della nonna paterna, che non aveva mai conosciuto; anche Annetta aveva sentito qualche cosa del genere da mamma Maria, ma non sapeva (visto il tempo che era passato) quanto di vero ci fosse in questo racconto. Per tornare a quei giorni lontani, i buoni vicini aiutarono Maddalena a sistemare la casa messa sottosopra quella terribile notte e ci fu chi donò un paio di tendine che le misere finestre di quella casa, mai avevano visto; Maddalena però preferiva tenere scostate le tende, da poter così, più facilmente vedere chi si avvicinava. Aveva paura e tanta! C’era poi la speranza, chiamiamola illusione, di veder tornare Zuanne, il padre di sua figlia; anche quella fu una violenza, anche se condita da dolci promesse peraltro non mantenute, Lui se ne andò in Cadore con la scusa che, lui poveraccio, avrebbe lavorato per mettere da parte qualche cosa dato che metteva su famiglia. Maddalena non lo avrebbe più rivisto! Carlo e Francesco, i suoi fratelli, tentarono una qualche ricerca, ma senza esito. Zuanne era partito con dei boscaioli che in quelle terre ricche di boschi, certamente avrebbero trovato lavoro, poi però “si dimenticò” che là a “Valli dei Conti e dei Signori”, aveva lasciato una ragazza che portava in grembo il frutto della sua canagliata. Ma ora Maddalena aveva visite: era il parroco che a seguito del brutto episodio capitato, si era dato da fare e ora era qui a proporre a Maddalena quella che secondo lui, era cosa da farsi: “Figliola, se aveste un uomo in casa, forse sareste più tranquilla”; e gli parlò di Iseppo che, diventato vedovo da poco e con dei bambini piccoli, avrebbe acconsentito ad un matrimonio che portava giovamento alla sua casa e certamente, insisteva il parroco, era cosa buona anche per Maddalena e sua figlia. E così avvenne con buona pace di tutti! I primi tempi non furono facili, Iseppo aveva un carattere taciturno, in casa si parlava poco ed anche coi suoi bambini era poco espansivo; con la Maddalena si davano dei voi. Però lei (la Maddalena) era un tipo tosto: aveva accettato di sposarlo? Bene, avrebbe fatto funzionare questo matrimonio! Accudiva con amore i tre bambini che a poco a poco cominciarono a ricambiare il suo affetto, preparava ad Iseppo il tascapane con il pranzo, quando questi, se ne stava fuori per lavoro; alla sera poi quando tornava a casa, Iseppo trovava la cena pronta, frugale, parca ma ben preparata. I suoi bambini erano a letto e quando saliva a vederli, li trovava sereni e quando, pur con fare burbero, domandava loro come andava, essi rispondevano che sì, andava bene e la “zia” (come la chiamavano) Maddalena li aiutava anche coi compiti e alla sera, dicevano la preghierina anche per la mamma era andata in cielo. Continua...
Opera scritta il 24/11/2018 - 17:01
Da Ivana Piazza
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