Cechin
Cechin non si arrendeva al tempo che scorreva.
Cechin con l’inseparabile chitarra inseguiva un’epoca ormai andata.
Cechin, era il vezzeggiativo che gli affibbiò il suo amato nonno. «Cechin! Prendi la mia chitarra, andiamo all’osteria a farci una cantata!”, così lo apostrofava il vecchio che gli insegnò il segreto delle note, e di riflesso il piacere del bere.
Se qualcuno lo chiamava con il suo nome di battesimo: Francesco, non rispondeva e tirava dritto. E così rimase Cechin per sempre.
Cechin amava le donne, ma un'unica donna lo ricambiò, e quella sposò.
Ma la sua vera passione era la musica, accompagnata oltre che dal canto da abbondanti libagioni; il tutto, fondendosi in un unicum, nel corso degli anni mutò in passione devastante.
Cechin era un apprezzato artigiano piastrellista: lavoro remunerativo ma massacrante per le articolazioni delle ginocchia. E lui, essendo pagato a metro quadro non stava a contare le ore di lavoro; d’estate, quando le giornate si allungavano, era capace di stare inginocchiato a posar piastrelle sino alle otto di sera.
Se le ore lavorate non le contava, a lavoro terminato contava soddisfatto il bel gruzzoletto (cinquanta per cento in nero) che riusciva a mettersi in tasca.
Le serate di Cechin erano di una monotonia disarmante; dopo cena, mentre sua moglie sparecchiava, puliva con cura l’amata chitarra, provava quattro accordi, poi, seduto sul divano allenava le corde della chitarra pizzicandole con le dita, e le corde vocali cantando a squarciagola qualche allegro motivetto.
Il sabato e la domenica, invece, usciva di casa il mattino con la sua inseparabile chitarra sotto braccio e tornava barcollando a notte fonda, ubriaco fradicio.
Era d’uso fare, ogni fine settimana, il giro delle osterie dove si beveva e cantava in compagnia; e il suo atteso ingresso era accolto dagli applausi scroscianti degli avventori, che si contendevano la sua presenza al proprio tavolo.
Quattro accordi, qualche canzone cantata in coro, accompagnata da qualche buon bicchiere di vino e poi, via di corsa ad esibire la sua arte dentro un’altra buia e fumosa osteria, dove altri amici attendevano il suo arrivo.
In mezzo ai suoi amici, Cechin si sentiva un divo. E ne aveva di amici sparsi nelle osterie della bassa pronti ad apprezzare la sua arte, regalandogli applausi sinceri e qualche bicchiere di troppo.
Col tempo ampliò a dismisura il suo giro per le osterie dei paesi della bassa. Così due giorni pieni finirono per non bastare per aderire a tutti gli inviti dei suoi estimatori.
Allora decise di prendersi qualche lunedì di libera uscita dal lavoro. Naturalmente la santa donna che aveva sposato non poteva approvare un simile dissennato comportamento, e glielo dimostrava ogni giorno spaccando servizi di piatti a ripetizione fra urla stridule e pianti isterici.
Cechin reagiva scrollando le spalle, e afferrando la sua fida chitarra se ne usciva.
La dipendenza oramai manifesta all’alcol, unita al desiderio patologico di esibirsi, lo spinse ad aggiungere al lunedì anche il martedì e, di seguito, pure il mercoledì.
Così finì col perdere la fiducia degli impresari, che vedendo il termine di consegna del lavoro appaltato dilatarsi a dismisura, lo emarginarono appoggiandosi ad altri piastrellisti.
Senza un lavoro e con pochi soldi in tasca, la vita si fece improvvisamente complicata. Sua moglie, per far quadrare i conti della famiglia, si vide costretta ad accettare l’impiego d’inserviente presso la casa di riposo locale.
Cechin trascorreva le sue ormai inutili giornate nelle osterie a bere e cantare. Ogni sera, tornando a casa ubriaco, subiva senza colpo ferire le puntuali dure reprimenda di una moglie esausta, distrutta psicologicamente dal comportamento irresponsabile dell’uomo che tanto aveva amato… un tempo.
Oramai il loro rapporto, oltre alle quotidiane sfuriate della donna, si limitava a poche frasi di circostanza. L’amore era svanito assieme al rispetto, cercare di aggiustare un vaso finito in mille pezzi era ormai un’utopia, così finì come doveva finire: lei fece le valige e se ne andò, uscendo definitivamente dalla vita di Cechin.
Passarono gli anni, e con essi le mode; le osterie buie e fumose dai lunghi tavoli di legno massiccio, dai pavimenti in cotto consunti dal tempo, dagli acri odori e sapori dove bere del buon vino, accompagnandolo con spesse fette di salame casereccio e scaglie di ottimo grana, furono sostituite dalle moderne pizzerie.
Cechin, con la sua inseparabile chitarra, rimase l’unico rimasuglio di un’epoca oramai andata: quasi un fossile vivente.
Dell’uomo applaudito nelle osterie della bassa, per la voce e la bravura a pizzicar le corde della sua chitarra, era rimasta solo la macchietta che giovinotti di belle speranze, seduti ai tavoli della pizzeria, si divertivano a dileggiare, invitandolo a cantare e suonare motivi estranei alle sue corde.
Cechin si prestava al gioco, a volte pesante, senza batter ciglio; a lui importava esibirsi… e mettere qualcosa sotto i denti senza scucire un soldo, vista la cronica carenza di contante nelle sue tasche.
Si sedeva al tavolo della compagnia di turno e piluccando negli avanzi dentro i piatti e svuotando i bicchieri rimasti sul tavolo, suonava e cantava quello che loro chiedevano di ascoltare; poi, stanco di quei nuovi ritmi che non riuscivano a coinvolgerlo, attaccava i suoi vecchi successi dei tempi delle osterie.
Al che, i suoi maleducati ospiti si alzavano lasciandolo solo a ripulire gli avanzi nei piatti, e a suonare e cantare per camerieri dallo sguardo spento, intenti a riassettare i tavoli per il giorno seguente; mentre il gestore da dietro la cassa, uomo della sua generazione, rimembrava con sguardo intriso di tristezza l’epoca delle vecchie osterie, quando quell’uomo malato e solo, ridotto a raccattar avanzi, era trattato dall’oste e dagli avventori alla stregua di una star internazionale.
Cechin, devastato dalla cirrosi, se ne andò a cinquantanni appena; aveva trascorso i primi quarant’anni cantando e bevendo nelle osterie; e gli ultimi dieci bevendo e cantando, cercando inutilmente di ricreare intorno a sé l’ambiente a lui caro, nella pizzeria dove ai giovani avventori interessava solo farsi beffe dell’ultimo dinosauro di un’epoca andata.
Cechin lo trovarono un nebbioso mattino autunnale steso su una panchina del parco, stringeva sul petto la sua amata chitarra… e sembrava felice.
FINE
Cechin non si arrendeva al tempo che scorreva.
Cechin con l’inseparabile chitarra inseguiva un’epoca ormai andata.
Cechin, era il vezzeggiativo che gli affibbiò il suo amato nonno. «Cechin! Prendi la mia chitarra, andiamo all’osteria a farci una cantata!”, così lo apostrofava il vecchio che gli insegnò il segreto delle note, e di riflesso il piacere del bere.
Se qualcuno lo chiamava con il suo nome di battesimo: Francesco, non rispondeva e tirava dritto. E così rimase Cechin per sempre.
Cechin amava le donne, ma un'unica donna lo ricambiò, e quella sposò.
Ma la sua vera passione era la musica, accompagnata oltre che dal canto da abbondanti libagioni; il tutto, fondendosi in un unicum, nel corso degli anni mutò in passione devastante.
Cechin era un apprezzato artigiano piastrellista: lavoro remunerativo ma massacrante per le articolazioni delle ginocchia. E lui, essendo pagato a metro quadro non stava a contare le ore di lavoro; d’estate, quando le giornate si allungavano, era capace di stare inginocchiato a posar piastrelle sino alle otto di sera.
Se le ore lavorate non le contava, a lavoro terminato contava soddisfatto il bel gruzzoletto (cinquanta per cento in nero) che riusciva a mettersi in tasca.
Le serate di Cechin erano di una monotonia disarmante; dopo cena, mentre sua moglie sparecchiava, puliva con cura l’amata chitarra, provava quattro accordi, poi, seduto sul divano allenava le corde della chitarra pizzicandole con le dita, e le corde vocali cantando a squarciagola qualche allegro motivetto.
Il sabato e la domenica, invece, usciva di casa il mattino con la sua inseparabile chitarra sotto braccio e tornava barcollando a notte fonda, ubriaco fradicio.
Era d’uso fare, ogni fine settimana, il giro delle osterie dove si beveva e cantava in compagnia; e il suo atteso ingresso era accolto dagli applausi scroscianti degli avventori, che si contendevano la sua presenza al proprio tavolo.
Quattro accordi, qualche canzone cantata in coro, accompagnata da qualche buon bicchiere di vino e poi, via di corsa ad esibire la sua arte dentro un’altra buia e fumosa osteria, dove altri amici attendevano il suo arrivo.
In mezzo ai suoi amici, Cechin si sentiva un divo. E ne aveva di amici sparsi nelle osterie della bassa pronti ad apprezzare la sua arte, regalandogli applausi sinceri e qualche bicchiere di troppo.
Col tempo ampliò a dismisura il suo giro per le osterie dei paesi della bassa. Così due giorni pieni finirono per non bastare per aderire a tutti gli inviti dei suoi estimatori.
Allora decise di prendersi qualche lunedì di libera uscita dal lavoro. Naturalmente la santa donna che aveva sposato non poteva approvare un simile dissennato comportamento, e glielo dimostrava ogni giorno spaccando servizi di piatti a ripetizione fra urla stridule e pianti isterici.
Cechin reagiva scrollando le spalle, e afferrando la sua fida chitarra se ne usciva.
La dipendenza oramai manifesta all’alcol, unita al desiderio patologico di esibirsi, lo spinse ad aggiungere al lunedì anche il martedì e, di seguito, pure il mercoledì.
Così finì col perdere la fiducia degli impresari, che vedendo il termine di consegna del lavoro appaltato dilatarsi a dismisura, lo emarginarono appoggiandosi ad altri piastrellisti.
Senza un lavoro e con pochi soldi in tasca, la vita si fece improvvisamente complicata. Sua moglie, per far quadrare i conti della famiglia, si vide costretta ad accettare l’impiego d’inserviente presso la casa di riposo locale.
Cechin trascorreva le sue ormai inutili giornate nelle osterie a bere e cantare. Ogni sera, tornando a casa ubriaco, subiva senza colpo ferire le puntuali dure reprimenda di una moglie esausta, distrutta psicologicamente dal comportamento irresponsabile dell’uomo che tanto aveva amato… un tempo.
Oramai il loro rapporto, oltre alle quotidiane sfuriate della donna, si limitava a poche frasi di circostanza. L’amore era svanito assieme al rispetto, cercare di aggiustare un vaso finito in mille pezzi era ormai un’utopia, così finì come doveva finire: lei fece le valige e se ne andò, uscendo definitivamente dalla vita di Cechin.
Passarono gli anni, e con essi le mode; le osterie buie e fumose dai lunghi tavoli di legno massiccio, dai pavimenti in cotto consunti dal tempo, dagli acri odori e sapori dove bere del buon vino, accompagnandolo con spesse fette di salame casereccio e scaglie di ottimo grana, furono sostituite dalle moderne pizzerie.
Cechin, con la sua inseparabile chitarra, rimase l’unico rimasuglio di un’epoca oramai andata: quasi un fossile vivente.
Dell’uomo applaudito nelle osterie della bassa, per la voce e la bravura a pizzicar le corde della sua chitarra, era rimasta solo la macchietta che giovinotti di belle speranze, seduti ai tavoli della pizzeria, si divertivano a dileggiare, invitandolo a cantare e suonare motivi estranei alle sue corde.
Cechin si prestava al gioco, a volte pesante, senza batter ciglio; a lui importava esibirsi… e mettere qualcosa sotto i denti senza scucire un soldo, vista la cronica carenza di contante nelle sue tasche.
Si sedeva al tavolo della compagnia di turno e piluccando negli avanzi dentro i piatti e svuotando i bicchieri rimasti sul tavolo, suonava e cantava quello che loro chiedevano di ascoltare; poi, stanco di quei nuovi ritmi che non riuscivano a coinvolgerlo, attaccava i suoi vecchi successi dei tempi delle osterie.
Al che, i suoi maleducati ospiti si alzavano lasciandolo solo a ripulire gli avanzi nei piatti, e a suonare e cantare per camerieri dallo sguardo spento, intenti a riassettare i tavoli per il giorno seguente; mentre il gestore da dietro la cassa, uomo della sua generazione, rimembrava con sguardo intriso di tristezza l’epoca delle vecchie osterie, quando quell’uomo malato e solo, ridotto a raccattar avanzi, era trattato dall’oste e dagli avventori alla stregua di una star internazionale.
Cechin, devastato dalla cirrosi, se ne andò a cinquantanni appena; aveva trascorso i primi quarant’anni cantando e bevendo nelle osterie; e gli ultimi dieci bevendo e cantando, cercando inutilmente di ricreare intorno a sé l’ambiente a lui caro, nella pizzeria dove ai giovani avventori interessava solo farsi beffe dell’ultimo dinosauro di un’epoca andata.
Cechin lo trovarono un nebbioso mattino autunnale steso su una panchina del parco, stringeva sul petto la sua amata chitarra… e sembrava felice.
FINE
Opera scritta il 17/01/2019 - 09:34
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