Rodelli mi ascolta senza proferire verbo, guida con lo sguardo fisso sulla strada, mentre io me la prendo con lui, che in fin dei conti non c’entra un cazzo!
Il commissario Balbuoni mi ha telefonato un quarto d’ora fa, dicendomi che mi mandava a prendere da una macchina di servizio, e poi ha riattaccato senza lasciarmi il tempo di obiettare che convincere chi si vuol suicidare a desistere, non è la mia specialità. E non avendo potuto sfogarmi con il mio superiore, non mi resta che prendermela con il povero tenente Rodelli.
«Mediatore! Me-dia-to-re! E’ questo il mio lavoro. Hai capito?! Mediare con rapinatori o roba del genere per convincerli a liberare gli ostaggi! Non convincere un demente a non buttarsi dal quinto piano, per chissà quale oscuro motivo! Ti è chiaro il concetto?!»
«Se mi permette, ispettore, pare che il tipo voglia farla finita perché la sua ragazza lo ha lasciato», mi illumina Rodelli, timidamente.
E questo mi fa incazzare ulteriormente. Mi limito a lanciargli un’occhiataccia, sbuffo, mi metto a guardare la strada e penso che quel deficiente sul tetto avrebbe dovuto far fuori lei. Oddio, a volte mi faccio paura: come si può pensare di evitare un suicidio proponendo lo scambio con un omicidio? Va beh, stasera va così. Il fatto è che dopo due settimane d’incomunicabilità, avevamo iniziato a spiegarci, io e la mia signora, poi, sul più bello, la telefonata del commissario ha rovinato tutto.
«Avete contattato la ragazza?» chiedo a Rodelli.
Lui scuote il capo sconfortato. «Sì. Ha detto che non gliene frega niente di quello stronzo. “Che si butti pure, libererà il mondo da un insetto inutile e fastidioso”, così ha risposto, acida, prima di spegnere il cellulare.
«Sì, un omicidio avrebbe risolto la faccenda, togliendo di mezzo una schifosa blatta!», commento astioso.
«Come?» fa Rodelli, dedicandomi uno sguardo stranito.
«Niente. Non farci caso, riflettevo a voce alta», rispondo. «Pensa a guidare e non rompermi!»
Rodelli annuisce e si ammutolisce all’istante.
«Ecco, ispettore, il palazzo è quello», fa Rodelli, indicando il lastrico solare illuminato, di riflesso, dalla grande insegna pubblicitaria che campeggia sul tetto dell’edificio prospicente.
Vedo il pazzo che passeggia sul parapetto. Abbasso lo sguardo: mezzi delle televisioni, giornalisti e varia umanità tenuta a bada dagli agenti hanno preso possesso della via. «Andiamo!» faccio, aprendo la portiera. Passo in mezzo ai reporter che mi tendono i microfoni spingendoli lontano senza aprire bocca. Sono nell’androne. Eccolo lì, il commissario Balbuoni, che mi si fa incontro con un diavolo per capello… no, per pelo, visto che ha la testa lucida come Kojak. Sento il desiderio irrefrenabile di stenderlo con un pugno sotto il mento appena è a tiro. Stringo i pugni, mi trattengo e lo saluto a denti stretti: «Commissario…»
Quello non mi lascia nemmeno il tempo di finire e, mentre ci avviamo all’ascensore, mi spiega che non hanno potuto nemmeno posizionare i materassi gonfiabili perché l’aspirante suicida, una volta annusato il pericolo di farla franca, è zompato sul parapetto e ha cominciato a camminare avanti e indietro.
«E’ la prima volta che mi capita un affare del genere… gli aspiranti suicidi non sono la mia specialità, non saprei da che parte cominciare», faccio presente al commissario.
Che s’incazza e urlando come un ossesso m’investe con l’alito che sa di pizza con tonno andato a male e cipolla. «Non provi a pararsi il culo! Si assuma le sue responsabilità! Non glielo devo insegnare io come fare! E’ lei il mediatore, no?! E allora mi dimostri che non sta rubando lo stipendio generosamente offerto dai contribuenti. Medi! Faccia come se dovesse trattare la liberazione di un ostaggio!» E’ paonazzo, punta il dito in alto. «Quell’uomo lassù, è ostaggio della sua follia, veda di liberarlo, se ne è capace… altrimenti, cambi mestiere, ispettore!»
«A quello serve uno psichiatra, non un mediatore», provo a obiettare.
«Gli strizzacervelli arriveranno dopo che lo avremo salvato. Lei pensi a farlo scendere da quel parapetto dalla parte giusta… coraggio, andiamo!» mi sprona il commissario, mentre si aprono le porte dell’ascensore.
Usciamo dall’ascensore, saliamo i sei gradini che conducono alla porta di ferro per accedere al lastrico solare. Ad un cenno del commissario un poliziotto la apre. Siamo all’esterno, tre agenti appoggiati alla parete ci salutano, ci vede anche il pazzo sul parapetto. «Dov’è Lidia? Avevo chiesto di parlare con Lidia! Non avvicinatevi altrimenti mi butto di sotto!» urla isterico.
«Ci fermiamo qui, calmati», lo rassicura in tono pacato il commissario.
Siamo lì, io, il commissario e i tre agenti, accanto alla porta, a dieci metri dal parapetto. «Tocca a lei, si dia da fare», mi dice, incrociando le braccia.
«Ho carta bianca?» gli chiedo.
«E’ tutto suo, ora comanda lei. Onori e oneri saranno soltanto suoi, non se lo dimentichi», replica il commissario, mettendo su un’espressione che pare voler dire: vediamo cosa sai fare, mediatore del cazzo!
Annuisco, inizio a spostarmi verso il centro del lastrico solare. Il coglione si mette a urlare come un ossesso: «No! Fermo lì! Fermati o mi butto! Voglio parlare con Lidia, non con te!»
Lo fisso nello sguardo: avrà venticinque anni. A venticinque anni ti puoi permettere di essere un coglione, ma non fino al punto di buttarti dal quinto piano!
Questo non si butta proprio, penso. «Lidia non verrà», lo informo con nonchalance mentre, andando a sinistra, mi avvicino al parapetto, badando bene di stare a distanza di sicurezza dal pazzo.
«Non avvicinarti! Mi butto!» urla ancora.
Io, calmo: «Non mi sto avvicinando, coglione».
Mi guarda sconcertato mentre mi siedo sul parapetto con le gambe penzoloni nel vuoto, a cinque, sei metri da lui. «Quando hai finito di dare i numeri, accomodati accanto a me, così ti spiego perché Lidia non è venuta.»
Lo vedo tentennare, guarda in basso, sta riflettendo, ma io sono sicuro che non si butta. Osservo con la coda dell’occhio il commissario: mi strozzerebbe. Ma ora non lo può fare, qua fuori comando io, deve stare lì, incollato alla parete e pregare che riesca a togliergli le castagne dal fuoco, ovvero: il pazzo dal parapetto.
Mentre aspetto che il mio cliente decida il da farsi, getto un’occhiata al cartellone pubblicitario bellamente illuminato sul tetto di fronte. C’è disegnato un aereo, giallo, con un taglio a mezzaluna sul musetto che lo fa sorridere; ai finestrini si notano facce di uomini e donne che si sganasciano dalle risate e, sullo sfondo, un grande arcobaleno che sorge dal mare, con dentro scritto: “Vola low cost nei paradisiaci mari del sud”. Pare messo lì apposta per incitare il folle sul parapetto a prendere il volo e spiaccicarsi di sotto, ai piedi di una folla plaudente… o quel sorrisetto ammiccante disegnato sul musetto è un invito a correre in aeroporto e prolungare l’agonia, andando a stendersi per pochi euro su una spiaggia paradisiaca dei mari del sud? Boh!
Il tipo strano nel frattempo si è un po’ avvicinato. Ora si siede con le gambe penzoloni nel vuoto a tre metri da me. «Perché Lidia non è venuta?» mi domanda imbronciato.
«Perché sei un coglione!» lo gelo subito. E senza lasciargli il tempo di replicare, proseguo: «Spiegami perché, una donna mediamente intelligente, dovrebbe mettersi con uno che vuol buttarsi dal quinto piano?»
Il tipo mi guarda stranito, sta riflettendo, ne approfitto. «L’elicottero sopra di noi sta facendo un casino infernale, io sono anche un po’ duro d’orecchi… perciò, se vuoi continuare a discutere, vieni a sederti vicino.»
«Se, per chi mi hai preso, per uno stupido? Credi che non sappia che appeno ti sono a tiro mi afferri e mi trascini dentro?» mi fa l’intelligentone.
Sorrido. «E tu credi che sia scemo? Chi me lo farebbe fare, di lottare con te su un muretto largo trenta centimetri, con il rischio di cadere entrambi dal lato sbagliato… Dai, vieni a sederti qui, ti prometto che non ti sfiorerò; ma in compenso ti farò capire perché è meglio che ti scordi di Lidia.»
Tentenna, scuote la testa. «Beh, deciditi in fretta, se no mi alzo e ti lascio qui da solo a macerarti nel dubbio!» insisto in tono deciso.
Si alza. «Niente tranelli, eh?» mi fa.
«Lo giuro… siedi lì, a mezzo metro da me», rispondo, battendo la mano sul parapetto.
Con fare circospetto si avvicina… mi guarda, guarda gli agenti e il commissario, tesi come corde di violino, pronti a balzare su di noi al mio segnale. «E quelli? Mandali via!» mi ordina.
Mi volto. «Commissario, ha sentito?»
Quello scuote il crapone pelato.
«La vostra presenza disturba il nostro ospite, rientrate e chiudete la porta, che fa corrente», insisto in tono sarcastico. «E vedete di far allontanare quell’elicottero che mi sta scassando i timpani, e pure qualcos’altro!» aggiungo.
Il commissario mi fulmina con uno sguardo che è tutto un programma. «Mi ha dato carta bianca, ricorda?» gli rammento allargando le braccia. «Fintanto che questa storia non sarà finita, qua fuori sono secondo soltanto a Dio… fate come vi ho detto!»
Il commissario grugnisce un ordine, ha il volto terreo. Sogghigno, pensando che si sta stramaledicendo per aver messo la faccenda nelle mie mani. Ecco, mi lancia un’occhiataccia e se ne va. I tre agenti lo seguono all’interno e si chiudono la porta alle spalle.
«Bene! Ora siamo soli, puoi sederti, amico di sventura», dico in tono desolato, tornando a guardare l’aereo che sorride.
«Amico di sventura?» fa lui mentre si siede.
Sospiro. «Già… a quanto pare, le nostre care compagne hanno deciso di piantarci in asso», rispondo.
«Perché, anche tu?» dice incredulo.
«Mi sa di sì… e buona parte del merito, o della colpa, è tua!» lo informo, mettendolo di fronte alle sue responsabilità.
«Mia! Ma se neanche ti conosco!» sbotta.
Annuisco. «E’ vero, non ci conosciamo. Ma stasera, dopo settimane passate a guardarci in cagnesco, io e la mia signora avevamo provato a intavolare una discussione… quanto costruttiva non te lo saprei dire, visto che lei non demordeva dai propositi di divorzio.» Lo guardo. «Ad occhio e croce, la tua stessa situazione, credo.»
«Non lo so, noi non siamo sposati. Non c’è da discutere di alimenti o cose del genere. Lidia, senza dirmi niente, ha preso su e se n’è andata a vivere con un altro», mi spiega con voce increspata.
«Credo che mia moglie avrebbe fatto lo stesso, se non fossimo stati sposati… sai, nel mio caso ci sono di mezzo gli alimenti, e se avesse abbandonato il tetto coniugale sarebbe passata dalla parte del torto», ribatto sconfortato.
«Dunque, siamo entrambi dei magnifici cornuti!» tira le somme lui, sorridendo amaro.
«No, solo tu lo sei…» il mio amico di corna mi guarda stranito, o forse offeso. «E sai perché?» gli domando allora.
Lui scuote la testa.
Indico il cartellone pubblicitario. «Tu puoi sempre prendere un volo low cost e andare in cerca d’avventure nei mari del sud.»
Lo vedo guardare l’aereo che sorride, ora volge lo sguardo su di me. «E tu no?» mi chiede perplesso.
Stavolta la scuoto io la testa. «L’unico volo low cost che mi è concesso…» indico con il capo la folla di sotto, «è quello di volare, a gratis, di sotto!»
Mi guarda agghiacciato. «Perché?»
«No, non è colpa, né tua, né del commissario», lo rassicuro. «Se anche avessimo discusso tutta la notte, lei non avrebbe cambiato idea… ed io, alla fine, l’avrei strangolata ugualmente.»
L’amico mi pare spaventato, si alza dal muretto e si porta sul lastrico solare: probabilmente teme che voglia trascinarlo con me. E a dire il vero, la prima idea era proprio quella… ma ora, visto che non ha ancora commesso errori irreparabili, ho deciso di concedergli un’altra possibilità. Traggo di tasca il portafoglio, tolgo tutto il denaro all’interno e glielo porgo. «Toh, sono cinquecento euro…»
«Non voglio il tuo denaro!» sbotta lui.
«Tienilo, dove sto andando non serve a niente,» indico l’aereo sorridente con la mano che stringe il denaro, «a te, invece, potrebbe regalare dei momenti da ricordare… aiutandoti a dimenticare quella stronza per la quale ti volevi buttare.» Guardo in alto, l’elicottero si è momentaneamente allontanato, allungo la mano verso di lui. «Prendili, svelto! E mettili via prima che il commissario te li requisisca.»
L’amico tentenna ancora: probabilmente è affetto da coglionite incurabile all’ultimo stadio. Poi afferra il denaro e lo infila nella tasca posteriore dei jeans. Correggo la diagnosi: è coglionite in via di guarigione.
Guardo l’aereo che pare sorridermi soddisfatto; guardo giù in basso la gente che attende, avida, con i telefonini puntati, pronta per mandare le immagini della conclusione del dramma sui social; guardo l’amico di sventura. «Buone vacanze, amico», dico.
«Mi ricorderò di te, poliziotto!» replica lui.
Annuisco e mi lascio cadere all’indietro, faccio in tempo a vedere lo sguardo agghiacciato e incredulo (evidentemente non credeva che l’avrei fatto veramente) del tipo che, urlando: «NOOO!» allunga le braccia oltre il parapetto per afferrarmi… Per sua fortuna non ci riesce, altrimenti l’avrei trascinato all’inferno insieme a me… e allora, amico mio caro, addio volo low cost nei paradisiaci mari del sud.
FINE
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