Questa è la terza volta in un mese.
Sono in fila in un negozio di alimentari mentre aspetto il mio turno e che chi è entrato prima di me sia servito e torni a casa, senza preoccuparmi di chi verrà dopo, perché scapperà alla vista della pistola.
È scarica; non uso proiettili, perché credo che la vita abbia un valore, per quanto le mie azioni dimostrano il contrario, e sono per questo condannate con severità.
Annunciano che sarà servito il numero quarantasette, il mio.
Estraggo la pistola e, come previsto, restiamo solo io e il cassiere. Voglio minacciarlo per ottenere i soldi dell'incasso, ma ha i riflessi pronti e mi colpisce scaraventando la pistola molto lontano mentre prende la sua e me la punta contro, senza mostrare le mie stesse debolezze, la mano non gli trema a differenza mia e mi guarda dritto negli occhi, mentre io proverei vergogna.
È tutta colpa mia. Non ho pensato di cambiare quartiere mentre si sparge la voce delle mie rapine e qualcuno decide di difendersi da solo, senza aspettare le indagini della polizia o la notizia della mia cattura, del resto nessuno vuole vivere nella paura che qualcosa di brutto possa accadere da un momento all'altro e farsi trovare impreparati.
È tutta colpa mia, perché sono pigro e non voglio capire il mondo in cui vivo. Vale la pena seguire le regole? È giusto rispettare le altre persone? La risposta non mi interessa.
È colpa mia perché so di non essere un ladro, ma con arroganza decido di continuare sottovalutando chi ho di fronte. Tanto, hanno paura, mi dico. Tanto, sono più forte.
Sparerà? Magari mi dà l'opportunità di scappare.
Invece no, preme il grilletto.
Come nella classica scena in cui ci si ritrova davanti alla morte, inizio a pensare.
Penso a mio figlio. Oh, si. Ne ho uno. È adulto, ha un lavoro migliore del mio, una casa e una moglie; mi chiama di tanto in tanto per chiedere se ho bisogno di qualcosa. Mi chiama per pietà, perché sente la responsabilità di avere un padre come me che rende il mondo un posto peggiore, a cui non si può chiedere consiglio e causa problemi. Lo so che mi odia. Al suo posto farei lo stesso, perché è spiacevole restare delusi quando si è alla ricerca di una guida, quando si ha bisogno di spiegazioni sul mondo e sulle persone e su se stessi, e i nostri punti di riferimento vacillano o sono assenti.
Inizio a farmi pena, perché mi rendo conto di chi sono. Mi rendo conto dei miei errori solo quando ne vedo le conseguenze. Era necessario che qualcuno mi puntasse una pistola alla faccia per aprirmi gli occhi, che non mi lasciasse scampo, e allo stesso tempo penso a quante possibilità ho avuto per cambiare.
Un lavoro ce l'ho. Potevo concentrarmi su quello. I colleghi, pur conoscendomi poco, non
hanno smesso di coinvolgermi nelle attività esterne a quel magazzino: una cena di gruppo, la partita allo stadio e, per gli appassionati, un'uscita in bicicletta la domenica mattina.
Quando nasce mio nipote, mio figlio mi chiama per presentarmelo. Non lo lascio aspettare molto e ci riuniamo e mi rendo conto di essere nonno, di avere una seconda opportunità per insegnare come stare al mondo e di essere parte di una famiglia in cui non si tratta solo di me, ma di un noi a cui poco importa delle singole imperfezioni e vorrei fargli un regalo, ma mi mancano i soldi.
Ho sempre reputato la mia vita mediocre e in quel momento decido di prendermi ciò che mi serve e mi dedico alle rapine, ennesima scelta stupida.
La prima volta mi sento in imbarazzo, perché dimostro a tutti di essere inesperto. Entro in un bar e quasi inciampo nel primo tavolino. Il barista, due clienti al bancone e tre ragazzi seduti a fare colazione mi notano. Ho il panico perché non voglio attirare subito l'attenzione, ma oramai devo fargli capire che sono li per un motivo. Non riesco a parlare, quindi passo all'azione: estraggo la pistola dal giubbotto e la punto contro il barista. Tutti sussultano, qualcuno non riesce a trattenere un urlo. Mi rivolgo al barista e gli ordino di darmi i soldi che ha in cassa. Mi mostra cento euro, l'incasso di quelle poche ore di lavoro. Prima di entrare non penso a quanti soldi possono esserci in cassa, cosi come ai gratta e vinci o ai soldi che i clienti hanno con loro. Quei cento euro mi distraggono, penso a prenderli e a scappare. È la mia prima rapina. Nessuno mi insegna come si fa. Improvviso.
Ho bisogno di soldi.
Lo faccio ancora una volta. Ho fortuna e rubo più di cento euro, ma si sa che prima o poi la fortuna finisce e iniziano i guai.
La terza volta va tutto storto. Sento lo sparo, il proiettile mi colpisce al petto. Cado a terra, mentre il sangue mi circonda. Tutto diventa confuso e mi rendo conto che la mia carriera criminale è già finita.
Chiudo gli occhi e non credo li riaprirò.
Sono in fila in un negozio di alimentari mentre aspetto il mio turno e che chi è entrato prima di me sia servito e torni a casa, senza preoccuparmi di chi verrà dopo, perché scapperà alla vista della pistola.
È scarica; non uso proiettili, perché credo che la vita abbia un valore, per quanto le mie azioni dimostrano il contrario, e sono per questo condannate con severità.
Annunciano che sarà servito il numero quarantasette, il mio.
Estraggo la pistola e, come previsto, restiamo solo io e il cassiere. Voglio minacciarlo per ottenere i soldi dell'incasso, ma ha i riflessi pronti e mi colpisce scaraventando la pistola molto lontano mentre prende la sua e me la punta contro, senza mostrare le mie stesse debolezze, la mano non gli trema a differenza mia e mi guarda dritto negli occhi, mentre io proverei vergogna.
È tutta colpa mia. Non ho pensato di cambiare quartiere mentre si sparge la voce delle mie rapine e qualcuno decide di difendersi da solo, senza aspettare le indagini della polizia o la notizia della mia cattura, del resto nessuno vuole vivere nella paura che qualcosa di brutto possa accadere da un momento all'altro e farsi trovare impreparati.
È tutta colpa mia, perché sono pigro e non voglio capire il mondo in cui vivo. Vale la pena seguire le regole? È giusto rispettare le altre persone? La risposta non mi interessa.
È colpa mia perché so di non essere un ladro, ma con arroganza decido di continuare sottovalutando chi ho di fronte. Tanto, hanno paura, mi dico. Tanto, sono più forte.
Sparerà? Magari mi dà l'opportunità di scappare.
Invece no, preme il grilletto.
Come nella classica scena in cui ci si ritrova davanti alla morte, inizio a pensare.
Penso a mio figlio. Oh, si. Ne ho uno. È adulto, ha un lavoro migliore del mio, una casa e una moglie; mi chiama di tanto in tanto per chiedere se ho bisogno di qualcosa. Mi chiama per pietà, perché sente la responsabilità di avere un padre come me che rende il mondo un posto peggiore, a cui non si può chiedere consiglio e causa problemi. Lo so che mi odia. Al suo posto farei lo stesso, perché è spiacevole restare delusi quando si è alla ricerca di una guida, quando si ha bisogno di spiegazioni sul mondo e sulle persone e su se stessi, e i nostri punti di riferimento vacillano o sono assenti.
Inizio a farmi pena, perché mi rendo conto di chi sono. Mi rendo conto dei miei errori solo quando ne vedo le conseguenze. Era necessario che qualcuno mi puntasse una pistola alla faccia per aprirmi gli occhi, che non mi lasciasse scampo, e allo stesso tempo penso a quante possibilità ho avuto per cambiare.
Un lavoro ce l'ho. Potevo concentrarmi su quello. I colleghi, pur conoscendomi poco, non
hanno smesso di coinvolgermi nelle attività esterne a quel magazzino: una cena di gruppo, la partita allo stadio e, per gli appassionati, un'uscita in bicicletta la domenica mattina.
Quando nasce mio nipote, mio figlio mi chiama per presentarmelo. Non lo lascio aspettare molto e ci riuniamo e mi rendo conto di essere nonno, di avere una seconda opportunità per insegnare come stare al mondo e di essere parte di una famiglia in cui non si tratta solo di me, ma di un noi a cui poco importa delle singole imperfezioni e vorrei fargli un regalo, ma mi mancano i soldi.
Ho sempre reputato la mia vita mediocre e in quel momento decido di prendermi ciò che mi serve e mi dedico alle rapine, ennesima scelta stupida.
La prima volta mi sento in imbarazzo, perché dimostro a tutti di essere inesperto. Entro in un bar e quasi inciampo nel primo tavolino. Il barista, due clienti al bancone e tre ragazzi seduti a fare colazione mi notano. Ho il panico perché non voglio attirare subito l'attenzione, ma oramai devo fargli capire che sono li per un motivo. Non riesco a parlare, quindi passo all'azione: estraggo la pistola dal giubbotto e la punto contro il barista. Tutti sussultano, qualcuno non riesce a trattenere un urlo. Mi rivolgo al barista e gli ordino di darmi i soldi che ha in cassa. Mi mostra cento euro, l'incasso di quelle poche ore di lavoro. Prima di entrare non penso a quanti soldi possono esserci in cassa, cosi come ai gratta e vinci o ai soldi che i clienti hanno con loro. Quei cento euro mi distraggono, penso a prenderli e a scappare. È la mia prima rapina. Nessuno mi insegna come si fa. Improvviso.
Ho bisogno di soldi.
Lo faccio ancora una volta. Ho fortuna e rubo più di cento euro, ma si sa che prima o poi la fortuna finisce e iniziano i guai.
La terza volta va tutto storto. Sento lo sparo, il proiettile mi colpisce al petto. Cado a terra, mentre il sangue mi circonda. Tutto diventa confuso e mi rendo conto che la mia carriera criminale è già finita.
Chiudo gli occhi e non credo li riaprirò.
Opera scritta il 04/04/2020 - 22:03
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Commenti
Fa pensare questo scritto, scritto bene.
In guerra sono morti molti giovani al fronte perchè hanno esitato a sparare ad un altro giovane...
In guerra sono morti molti giovani al fronte perchè hanno esitato a sparare ad un altro giovane...
Ernesto D’Onise 05/04/2020 - 14:42
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