Ancora una volta entra dalla finestra la notte.
Ha occhi arrossati e sorriso da mercante di fiera,
una maschera che non smette mai di ritoccare.
Entra senza chiedere,
con fame di lupa randagia,
mi racconta dello zingaro dal passo stanco,
e del suo cammino,
terminato nella fossa di una qualsiasi delle sue ore.
Mi racconta del guerriero
che sterminò anche le pietre tombali
e poi pianse da bambino quando incontrò la sua.
Mi racconta dell’ubriaco
che scagliò la sua bottiglia sul carro armato,
fermo davanti all’entrata dell’osteria.
Entra la notte e si siede
sulla poltrona di fronte al mio letto.
Dice che ho bevuto all’ultimo pozzo rimasto
e mi abbraccia il viso con il suo alito di morfina,
poi mi canzona sibilando che i miei passi
non hanno mai lasciato impronte,
perché il nulla non ha mai avuto figli.
Con voce da cantore greco
promette di dettarmi quelle parole
che nessuno ha ancora scritto,
di farmi bere l’elisir dei sogni felici
e anche di restituirmi il profilo dolce dei tuoi seni.
Tutto questo, se andrò a letto con lei.
Inutile fingere di dormire,
mi sento addosso l’età giusta per reggere al suo sguardo
e rispondere che so bene d’essere solo materia sporca d’ali
che non volerà mai nel cielo dei veri poeti,
ma c’è ancora un sole innamorato della vita
che ogni mattina mi attende per confidarmi il segreto
dei colori che dipingono i minuti come fossero ore.
Se ne va la notte,
occhi neri e faccia da vendetta,
ma sono sicuro che domani la troverò ancora seduta
proprio lì, sulla poltrona davanti al mio letto.
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