“Papà, guarda!!!”.
Mia figlia si fermò incantata e stupita. Già annunciata dal pallore del cielo, la nebbia era scesa nel giro di qualche minuto nascondendo le case, l’auto, il giardino e velando ogni rumore.
“Ma…dove siamo?”, gridò, tirandomi per il braccio.
Accennai un sorriso. “Eh…eh…siamo in giardino, non vedi?”, spiegai. “Dietro di noi c’è la casa, là c’è l’orto, in mezzo il capanno degli attrezzi….”.
Nei piccoli paesi della Lomellina, dove le case sembrano sparse sopra la grande pianura, come sementi su di un campo fertile, la nebbia è uno dei tratti somatici dell’autunno.
Laggiù l’autunno dipinge quadri che svelano fragranze inebrianti. L’aria è pervasa dagli aromi delle stoppie marcite, del fumo sottile che fugge dai comignoli e si perde tra le grigie nubi, del terreno umido e dei funghi nascosti nel sottobosco spontaneo di robinie e noccioli.
Ma, spesso, arriva la nebbia. Si presenta senza neanche bussare e si corica sui campi improduttivi e lungo i fossi, avvolgendo le case e le piante. Solo i campanili e gli alberi più alti riescono, talvolta, ad emergere come isole misteriose, sperdute in un mare di cotone bagnato.
E’ come una grigia cortina protettiva, che tiene lontane le angosce e le brutture del mondo, una culla di bambagia gelida che scalda i cuori troppo tristi ma, a volte, è così fitta che non permette di vedere oltre i venti metri scarsi e sembra voler ingoiare tutto: luci, suoni, rumori e persino le onde elettromagnetiche del cellulare.
Presi la bambina per mano e rientrai in casa.
Ero praticamente arrivato alla porta, e già stavo per impugnare la maniglia, quando mi bloccai e rimasi lì, impalato, ad osservare la coltre biancastra che stava stendendo il suo sudario fradicio su tutto il paese.
“Perché ti sei fermato di colpo, papà?”.
Sbuffi di nebbia densa se ne venivano a danzare fin sotto il porticato. Dipingevano strani ghirigori, spinti da un soffio di vento sottile e colavano sui muri e lungo le travi, tracciandovi una patina opaca ed inquietante.
“Hai visto qualcosa? Ti prego, papà, dimmelo!”.
“Ehm...ecco…il gatto dei vicini si deve essere di nuovo intrufolato nel nostro giardino….”, sospirai, “Ma ora entra perché inizia a fare freddo e, se non sbaglio, devi preparare la torta con mamma!”.
A sentire parlare di torta, la bambina sgattaiolò in casa alla velocità della luce ed io rimasi fuori, da solo, con la maniglia ancora in mano, in balia di pensieri confusi, avvolto da quel lenzuolo grigio.
Avevo abbozzato una scusa banale, per mia figlia. Le avevo rifilato una balla colossale per soddisfare la sua ovvia, puerile, curiosità.
Non potevo certo rivelarle quello che mi stava passando per la mente.
Non era una cosa che si poteva raccontare. Soprattutto prima di dormire.
Perché anche un giorno di un autunno lontano c’era tanta nebbia. Proprio come questa.
Era il giorno dei Morti. Il giorno in cui i cimiteri fioriscono. Il giorno che sanciva la chiusura della nostra casa di campagna fino alla Pasqua successiva.
Il giorno in cui io e Olly andammo in bici fino al vecchio mulino abbandonato.
L’appuntamento era per il primo pomeriggio. Appena terminato il pranzo inforcai la bici e partii.
Fuori pareva di essere in una lavatrice. La nebbia si depositava sui vestiti, sui capelli e sulla pelle in piccole gocce appiccicose, fino a inzupparmi, come se avesse piovuto. Il fiato che mi usciva dalla bocca era così denso da farmi assomigliare ad un comignolo ambulante.
In piazza c’era Olly che sembrava un sacco umido.
“Che nebbia, eh!”, buttai là, “Sembra quasi di respirare ossigeno liquido!”. Olly mi fissò con due occhi troppo grandi e poi rispose ridendo alla sua maniera, vale a dire, come un diesel messo in moto a temperatura troppo bassa.
Gli diedi una grande pacca sulla schiena e partimmo.
Lungo la strada il rumore delle ruote sullo sterrato risuonava sordo, come se la nebbia lo fagocitasse con ingordigia. E noi ci giocavamo, in quella coltre spessa, guidati più dall’incoscienza che dal coraggio.
Immaginavamo di essere dei cavalieri intrepidi, pronti a salvare la principessa rapita. C’era un vecchio pioppo marcito che appariva e scompariva nel grigio. Era il re tiranno che aveva imprigionato la principessa e ci aspettava per tenderci una trappola. Più avanti un tetto, più spavaldo degli altri, era il muro del castello che avremmo scalato e conquistato.
Ma la nebbia è una bugia e dirada quando ne penetriamo i segreti. Il re tiranno tornò pioppo il castello abitazione. Il campanile, da lontano, ci guardava rimproverandoci per l'incoscienza. Ma noi non ce ne preoccupammo. Il diesel della risata di Olly riprese a macinare il ritmo sincopato che gli apparteneva e anch’io scoppiai a ridere come un pazzo.
Continuando a ridere come deficienti arrivammo alla discesa che portava giù all’argine del fiume.
Il vecchio mulino era là sotto, sepolto in fondo a quel mare lattiginoso. Mancavano solo un centinaio di metri.
Olly tirò dritto e, da vero incosciente, imboccò la discesa in velocità. Lo vidi scomparire nel nulla mentre io, invece, strizzavo i freni facendo slittare la bici a lungo sulla ghiaia fine.
Cercai di chiamarlo ma sembrava che l’intero mondo in cui ci muovevamo fosse isolato sotto una campana di grigiore plumbeo, che lasciava fuori suoni ed immagini.
Tesi l’orecchio al massimo e, poco dopo, flebile e lontana, la voce tremante di Olly finalmente arrivò.
“Aiuto…!!”.
Come volevasi dimostrare quel mammalucco era caduto e adesso mi sarebbe toccato riportarlo a casa di peso.
“Aiuto…!!”, gridò ancora e, questa volta, insieme alla voce, arrivarono anche le lacrime.
Olly piangeva e gridava. Doveva essersi preso una bella botta, pensai. E pensai anche che gli stava bene, così imparava ad essere più prudente!
Subito dopo, però, lo sentii urlare di scendere subito, di fare presto, perché c’era tanta nebbia.
Era dal primo mattino che, in tutto il circondario, non si vedeva ad un palmo e il cielo era solo una vaga speranza da cercare più con gli occhi della fantasia che con quelli della realtà.
Che bella scoperta aveva fatto!
Allargai le braccia sconsolato e saltai in sella. Mi ricordo che, mentre scendevo, pensai male di lui. Lo paragonai ad un coniglio pavido. Proprio lui, che era lo scavezzacollo del paese!
Mi sbagliavo.
Lo raggiunsi, in fondo alla discesa, e là anch’io sentii quella nebbia.
Era più spessa, più densa, da poterne quasi sentirne il sapore.
Era come un lenzuolo bagnato che tentava di soffocarmi. Vagava lenta, raggrumandosi in qualche punto, formando macchie dai contorni fumosi.
Tutto intorno, solo quel panorama grigio, sporco e ripetitivo. Il nulla.
I campi che d’estate si inondavano di mille colori non esistevano più. Si erano trasformati in grigie distese amorfe da cui spuntavano, qua e là, le mani scure, scheletriche, degli alberi spogli. Alle nostre orecchie non giungeva altro suono che quello ritmato del nostro respiro.
Il paesaggio era ammutolito, velato ed oppresso da una specie di calzamaglia cinerea.
Niente motori, niente voci, niente richiami di uccelli. Niente di niente.
I rami secchi degli alberi sembravano tanti coltelli pronti a colpire un cielo bianco come gli abiti delle spose.
Non era la prima volta che ce ne andavamo a zonzo in mezzo alla nebbia. Quella volta, però, fu diverso, quella volta c’era qualcosa di strano, di innaturale, in tutto quel non vedere nulla.
Provammo a fare noi un po’di rumore, qualsiasi, perché le orecchie ronzano quando si ascolta il silenzio, ma anche l’eco dei nostri rumori durò un battito di ciglia, come se qualcosa, fuori, li aspirasse.
Risalimmo velocemente in bici e macinammo l’ultimo tratto di strada che ci separava dal vecchio mulino.
Quando arrivammo la sensazione di oppressione peggiorò, dandomi l’idea di essere rinchiuso in una stanza del manicomio. Una di quelle stanze imbottite che isolano le persone ed assorbono ogni tentativo di richiamo.
L’edificio, scrostato, pericolante e con le finestre sfondate, sembrava la bocca sdentata di una belva.
Davanti a noi il buio, senza spiragli, degli alberi cresciuti spontanei in quello che, una volta, era stato il cortile. Gli alberi di quell’intrico frusciavano lievemente emettendo una specie di respiro. La nebbia, là in mezzo, era immobile ma sembrava attraversata da strani suoni, uggiolii, forse sospiri. Suoni che non distinguevo bene ma che non mi piacevano.
Lasciammo le bici e, fatto qualche passo, arrivammo al cospetto degli alberi. Olly mi tratteneva stringendomi una spalla. Mi implorava di non andare più avanti, di scappare, di tornarcene a casa.
Ma io non lo ascoltai. Volevo qualcosa di speciale da raccontare ai miei compagni di scuola in città.
Volevo qualcosa che mi facesse sentire speciale, che non mi facesse emarginare, come sempre, per i miei vestiti del mercato.
Entrai spedito in quel boschetto misterioso ed infido trascinando il povero Olly con me.
Mi appoggiai al primo tronco. Era liscio. Sicuramente non era una robinia o una quercia. Il colore non lo vidi. Nella spessa coltre di nebbia, che ci aveva serrato dentro un nulla umido, le mie mani, però, sentirono quel tronco. Era caldo. Era come appoggiare le mani sul ventre di qualcuno: la superficie pulsava e sembrava di sentire qualcosa muoversi, serpeggiare, sotto la corteccia.
Ritrassi il braccio in un lampo, con un sibilo di ribrezzo e di terrore. Un velo di sudore freddo mi raggelava la fronte, mescolandosi con la nebbia rancida che ci circondava.
Uscii di corsa dal boschetto, seguito da Olly che, ormai, formava disperatamente un tutt’uno con il mio braccio, e mi precipitai verso le bici che avevamo lasciato poco più indietro.
Dopo pochi passi ci girammo: il vecchio mulino appariva come un incubo grigio. Sembrava un tumore nella nebbia, scuro, ammuffito, indefinito. Le sagome delle bici si disegnarono a poco a poco, lì accanto.
E, prima di arrivarci, mancavano forse due o tre metri, la nebbia si animò.
In principio udimmo l’eco di suoni lontani, di voci in mezzo ai campi incolti. Voci confuse, richiami, sussurri, lamenti, versi di bestie o di persone, che non riuscimmo a distinguere. Le sentimmo arrivare, prima remote, poi via via più vicine, fino quasi ad un passo da noi. Poi si fermarono e rimasero sospese là, nei campi, nel vuoto.
Poi arrivò la risata.
Sembrava la risata di un bambino, ma non era allegra. Era una specie di imitazione, un lamento e trasmetteva famelica crudeltà. Entrava nelle ossa e seccava la lingua incollandola al palato.
E quel lamento si accompagnava ad uno strano mutare della nebbia che tendeva ora al blu elettrico, ora al viola mentre all’interno dei suoi vortici mi sembrava di scorgere figure sbiadite, sfumate e dai contorni confusi.
Il terrore puro montò subito, improvviso, salendo dai testicoli fino alla bocca dello stomaco.
Olly emise un verso disperato, un singhiozzo di terrore infantile. Mi girai di scatto e mi trovai ad un centimetro i suoi occhi, persi nella febbre della paura. Sembravano fatti di gelatina liquida ed erano l’unica cosa davvero in vista in quell’oscuro grigiore di mondo morto.
Cercai di scacciare l’immagine dalla testa e di trovare qualcosa di rassicurante da dirgli, ma non ci riuscii.
Sentii, invece, la mia mano aggrapparsi al manubrio della bici come se fosse l’ultimo punto di appoggio affacciato su di un mondo ostile.
Balzammo in sella e cominciammo a pedalare a più non posso senza neanche guardare dove andavamo.
Meglio finire contro un albero o dentro un fosso che rimanere ancora un secondo in mezzo a quella coltre di omertà gelida ed alienante.
Arrivai al culmine della salita per primo.
“Paolo, aspettami.…!!”, sentii in lontananza la voce di Olly che mi chiamava.
Doveva essere almeno a metà.
Inchiodai i freni. “Muoviti!! Sono quassù!!”, urlai.
“Non ce la faccio….Paolo….aiutami….”.
Sentivo i suoi richiami sempre più lontani e distorti.
“Olly, dove cavolo sei??”.
“Sono qui….Paolo….sono dentro la nebbia….”.
Girai la bici ed iniziai lentamente a scendere per andare a prenderlo.
Ma, dopo un paio di metri, mi bloccai di colpo perché quei suoni innaturali, quelle voci, quei versi strani ripresero.
Immediatamente dopo, piombò su di me ancora quella risata maledetta.
E quel turbinio sporco e denso, venato di striature violacee, dal fondo della discesa, cominciò lentamente a salire.
E poi un odore marcio e dolciastro, di cadaveri in putrefazione, un biascicare acquoso, liquido e gorgogliante sgorgava dal fiume e veniva verso di me.
Dietro, solo il fantasma evanescente di quel maledetto edificio, che sembrava l’incubo di un delirante ed, ancora, il pianto ormai lontano e confuso di Olly: “Paolo….la nebbia….”.
“Cazzo! Devo levarmi da qui!”, fu allora il mio unico pensiero sfibrato.
Saltai sulla bici e ricominciai a salire, pedalando dentro l’argenteo muro vaporoso.
Volai via, con la lingua stretta tra i denti e gli intestini incollati al fondo dei pantaloni. La nebbia mi sferzava la faccia, la bici tremava sotto di me e i ciottoli dello sterrato schizzavano come proiettili. Un solo imperativo nella mente: correre, mettere più strada possibile tra me e quel posto orrendo!
Non mi girai neppure per accertarmi se Olly fosse a ruota. Lo avevo lasciato a metà salita: poteva già essere arrivato di sopra ed ora pedalare dietro di me.
Continuai a pedalare, come un forsennato, fino alla provinciale. Giunto sulla strada asfaltata pompai ancora sui pedali, in preda ad un terrore inimmaginabile. Mancava meno di un chilometro al paese e solo quando finalmente vi entrai e venni avvolto dalle luci fioche dei lampioni mi voltai.
Ma Olly non c’era.
Lo attesi per quasi mezz’ora, appoggiato al muro dell’officina. Poi scappai a chiudermi in casa.
Mio papà disse che, vista la nebbia fitta, avremmo anticipato il rientro in città. E, dopo un paio d’ore, ero già in viaggio cullato del dolce tepore del riscaldamento della nostra auto. Mai come quell’anno fui contento di lasciare la campagna, anche se sapevo bene che, fino alla prossima Pasqua, non ci sarei potuto tornare.
Neanche Olly ci tornò.
Non tornò più.
Quando, la primavera successiva, ripresi a scendere per i fine settimana seppi che lo cercarono dappertutto, senza esito. Chiamarono persino i Pompieri, dal capoluogo, con il gommone e i cani, ma non ci fu nulla da fare.
Alla fine conclusero che Olly, malgrado la scarsa visibilità, fosse sceso fino al fiume per fumare di nascosto o tirare sassi, come faceva di solito. Irruento e scalmanato com’era non era stato attento ed era scivolato in acqua.
Nessuno in paese ci aveva visti uscire insieme e io me ne guardai bene dal dire una sola parola di cosa era successo quel maledetto pomeriggio.
Non dissi nulla neanche dopo ma, in tutti gli anni a venire, con la mente tornai spesso al povero Olly, che si aggrappava disperatamente a me perché era sicuro che lo avrei portato via da quell’incubo grigio-viola.
Perché sapeva che ero suo amico e che non lo avrei mai abbandonato dentro quell’inferno di ovatta putrida.
Ma non avevo avuto scelta.
Dopo più di quaranta anni non so ancora bene cosa avrei dovuto fare.
Quello che so è che la nebbia è ritornata fitta in Lomellina.
E che oggi è ancora più fitta del solito.
Mia figlia è in casa e sta preparando una torta con mia moglie.
Qui fuori, invece, la nebbia cagliata indugia sui tetti, sui campi deserti, sulle rotoballe di paglia disfatte.
Si adagia piano, come una bella donna su di un grande letto e si spande per il paese, colando in ogni anfratto.
Nasconde le cose, che appaiono e spariscono come entità incorporee.
Il suo respiro gelido accarezza le strade sconnesse, le stoppie marcite, i rami spogliati di foglie, i cespugli intorpiditi nel sonno autunnale e i tronchi degli alberi in attesa.
Si avvicina, biancastra e fumosa, con il suo odore di morte.
E con quella risata. Che mi ricorda tanto un diesel spompato.
Nel suo vorticare distinguo qualcosa di confuso, indefinito.
Ci sono cose strane dentro la nebbia.
E io so cosa sono.
Spero che, quando usciranno, mia moglie e mia figlia non saranno lì a vedere.
Spero che qualsiasi cosa esca si ricordi che, una volta, eravamo amici.
Mia figlia si fermò incantata e stupita. Già annunciata dal pallore del cielo, la nebbia era scesa nel giro di qualche minuto nascondendo le case, l’auto, il giardino e velando ogni rumore.
“Ma…dove siamo?”, gridò, tirandomi per il braccio.
Accennai un sorriso. “Eh…eh…siamo in giardino, non vedi?”, spiegai. “Dietro di noi c’è la casa, là c’è l’orto, in mezzo il capanno degli attrezzi….”.
Nei piccoli paesi della Lomellina, dove le case sembrano sparse sopra la grande pianura, come sementi su di un campo fertile, la nebbia è uno dei tratti somatici dell’autunno.
Laggiù l’autunno dipinge quadri che svelano fragranze inebrianti. L’aria è pervasa dagli aromi delle stoppie marcite, del fumo sottile che fugge dai comignoli e si perde tra le grigie nubi, del terreno umido e dei funghi nascosti nel sottobosco spontaneo di robinie e noccioli.
Ma, spesso, arriva la nebbia. Si presenta senza neanche bussare e si corica sui campi improduttivi e lungo i fossi, avvolgendo le case e le piante. Solo i campanili e gli alberi più alti riescono, talvolta, ad emergere come isole misteriose, sperdute in un mare di cotone bagnato.
E’ come una grigia cortina protettiva, che tiene lontane le angosce e le brutture del mondo, una culla di bambagia gelida che scalda i cuori troppo tristi ma, a volte, è così fitta che non permette di vedere oltre i venti metri scarsi e sembra voler ingoiare tutto: luci, suoni, rumori e persino le onde elettromagnetiche del cellulare.
Presi la bambina per mano e rientrai in casa.
Ero praticamente arrivato alla porta, e già stavo per impugnare la maniglia, quando mi bloccai e rimasi lì, impalato, ad osservare la coltre biancastra che stava stendendo il suo sudario fradicio su tutto il paese.
“Perché ti sei fermato di colpo, papà?”.
Sbuffi di nebbia densa se ne venivano a danzare fin sotto il porticato. Dipingevano strani ghirigori, spinti da un soffio di vento sottile e colavano sui muri e lungo le travi, tracciandovi una patina opaca ed inquietante.
“Hai visto qualcosa? Ti prego, papà, dimmelo!”.
“Ehm...ecco…il gatto dei vicini si deve essere di nuovo intrufolato nel nostro giardino….”, sospirai, “Ma ora entra perché inizia a fare freddo e, se non sbaglio, devi preparare la torta con mamma!”.
A sentire parlare di torta, la bambina sgattaiolò in casa alla velocità della luce ed io rimasi fuori, da solo, con la maniglia ancora in mano, in balia di pensieri confusi, avvolto da quel lenzuolo grigio.
Avevo abbozzato una scusa banale, per mia figlia. Le avevo rifilato una balla colossale per soddisfare la sua ovvia, puerile, curiosità.
Non potevo certo rivelarle quello che mi stava passando per la mente.
Non era una cosa che si poteva raccontare. Soprattutto prima di dormire.
Perché anche un giorno di un autunno lontano c’era tanta nebbia. Proprio come questa.
Era il giorno dei Morti. Il giorno in cui i cimiteri fioriscono. Il giorno che sanciva la chiusura della nostra casa di campagna fino alla Pasqua successiva.
Il giorno in cui io e Olly andammo in bici fino al vecchio mulino abbandonato.
L’appuntamento era per il primo pomeriggio. Appena terminato il pranzo inforcai la bici e partii.
Fuori pareva di essere in una lavatrice. La nebbia si depositava sui vestiti, sui capelli e sulla pelle in piccole gocce appiccicose, fino a inzupparmi, come se avesse piovuto. Il fiato che mi usciva dalla bocca era così denso da farmi assomigliare ad un comignolo ambulante.
In piazza c’era Olly che sembrava un sacco umido.
“Che nebbia, eh!”, buttai là, “Sembra quasi di respirare ossigeno liquido!”. Olly mi fissò con due occhi troppo grandi e poi rispose ridendo alla sua maniera, vale a dire, come un diesel messo in moto a temperatura troppo bassa.
Gli diedi una grande pacca sulla schiena e partimmo.
Lungo la strada il rumore delle ruote sullo sterrato risuonava sordo, come se la nebbia lo fagocitasse con ingordigia. E noi ci giocavamo, in quella coltre spessa, guidati più dall’incoscienza che dal coraggio.
Immaginavamo di essere dei cavalieri intrepidi, pronti a salvare la principessa rapita. C’era un vecchio pioppo marcito che appariva e scompariva nel grigio. Era il re tiranno che aveva imprigionato la principessa e ci aspettava per tenderci una trappola. Più avanti un tetto, più spavaldo degli altri, era il muro del castello che avremmo scalato e conquistato.
Ma la nebbia è una bugia e dirada quando ne penetriamo i segreti. Il re tiranno tornò pioppo il castello abitazione. Il campanile, da lontano, ci guardava rimproverandoci per l'incoscienza. Ma noi non ce ne preoccupammo. Il diesel della risata di Olly riprese a macinare il ritmo sincopato che gli apparteneva e anch’io scoppiai a ridere come un pazzo.
Continuando a ridere come deficienti arrivammo alla discesa che portava giù all’argine del fiume.
Il vecchio mulino era là sotto, sepolto in fondo a quel mare lattiginoso. Mancavano solo un centinaio di metri.
Olly tirò dritto e, da vero incosciente, imboccò la discesa in velocità. Lo vidi scomparire nel nulla mentre io, invece, strizzavo i freni facendo slittare la bici a lungo sulla ghiaia fine.
Cercai di chiamarlo ma sembrava che l’intero mondo in cui ci muovevamo fosse isolato sotto una campana di grigiore plumbeo, che lasciava fuori suoni ed immagini.
Tesi l’orecchio al massimo e, poco dopo, flebile e lontana, la voce tremante di Olly finalmente arrivò.
“Aiuto…!!”.
Come volevasi dimostrare quel mammalucco era caduto e adesso mi sarebbe toccato riportarlo a casa di peso.
“Aiuto…!!”, gridò ancora e, questa volta, insieme alla voce, arrivarono anche le lacrime.
Olly piangeva e gridava. Doveva essersi preso una bella botta, pensai. E pensai anche che gli stava bene, così imparava ad essere più prudente!
Subito dopo, però, lo sentii urlare di scendere subito, di fare presto, perché c’era tanta nebbia.
Era dal primo mattino che, in tutto il circondario, non si vedeva ad un palmo e il cielo era solo una vaga speranza da cercare più con gli occhi della fantasia che con quelli della realtà.
Che bella scoperta aveva fatto!
Allargai le braccia sconsolato e saltai in sella. Mi ricordo che, mentre scendevo, pensai male di lui. Lo paragonai ad un coniglio pavido. Proprio lui, che era lo scavezzacollo del paese!
Mi sbagliavo.
Lo raggiunsi, in fondo alla discesa, e là anch’io sentii quella nebbia.
Era più spessa, più densa, da poterne quasi sentirne il sapore.
Era come un lenzuolo bagnato che tentava di soffocarmi. Vagava lenta, raggrumandosi in qualche punto, formando macchie dai contorni fumosi.
Tutto intorno, solo quel panorama grigio, sporco e ripetitivo. Il nulla.
I campi che d’estate si inondavano di mille colori non esistevano più. Si erano trasformati in grigie distese amorfe da cui spuntavano, qua e là, le mani scure, scheletriche, degli alberi spogli. Alle nostre orecchie non giungeva altro suono che quello ritmato del nostro respiro.
Il paesaggio era ammutolito, velato ed oppresso da una specie di calzamaglia cinerea.
Niente motori, niente voci, niente richiami di uccelli. Niente di niente.
I rami secchi degli alberi sembravano tanti coltelli pronti a colpire un cielo bianco come gli abiti delle spose.
Non era la prima volta che ce ne andavamo a zonzo in mezzo alla nebbia. Quella volta, però, fu diverso, quella volta c’era qualcosa di strano, di innaturale, in tutto quel non vedere nulla.
Provammo a fare noi un po’di rumore, qualsiasi, perché le orecchie ronzano quando si ascolta il silenzio, ma anche l’eco dei nostri rumori durò un battito di ciglia, come se qualcosa, fuori, li aspirasse.
Risalimmo velocemente in bici e macinammo l’ultimo tratto di strada che ci separava dal vecchio mulino.
Quando arrivammo la sensazione di oppressione peggiorò, dandomi l’idea di essere rinchiuso in una stanza del manicomio. Una di quelle stanze imbottite che isolano le persone ed assorbono ogni tentativo di richiamo.
L’edificio, scrostato, pericolante e con le finestre sfondate, sembrava la bocca sdentata di una belva.
Davanti a noi il buio, senza spiragli, degli alberi cresciuti spontanei in quello che, una volta, era stato il cortile. Gli alberi di quell’intrico frusciavano lievemente emettendo una specie di respiro. La nebbia, là in mezzo, era immobile ma sembrava attraversata da strani suoni, uggiolii, forse sospiri. Suoni che non distinguevo bene ma che non mi piacevano.
Lasciammo le bici e, fatto qualche passo, arrivammo al cospetto degli alberi. Olly mi tratteneva stringendomi una spalla. Mi implorava di non andare più avanti, di scappare, di tornarcene a casa.
Ma io non lo ascoltai. Volevo qualcosa di speciale da raccontare ai miei compagni di scuola in città.
Volevo qualcosa che mi facesse sentire speciale, che non mi facesse emarginare, come sempre, per i miei vestiti del mercato.
Entrai spedito in quel boschetto misterioso ed infido trascinando il povero Olly con me.
Mi appoggiai al primo tronco. Era liscio. Sicuramente non era una robinia o una quercia. Il colore non lo vidi. Nella spessa coltre di nebbia, che ci aveva serrato dentro un nulla umido, le mie mani, però, sentirono quel tronco. Era caldo. Era come appoggiare le mani sul ventre di qualcuno: la superficie pulsava e sembrava di sentire qualcosa muoversi, serpeggiare, sotto la corteccia.
Ritrassi il braccio in un lampo, con un sibilo di ribrezzo e di terrore. Un velo di sudore freddo mi raggelava la fronte, mescolandosi con la nebbia rancida che ci circondava.
Uscii di corsa dal boschetto, seguito da Olly che, ormai, formava disperatamente un tutt’uno con il mio braccio, e mi precipitai verso le bici che avevamo lasciato poco più indietro.
Dopo pochi passi ci girammo: il vecchio mulino appariva come un incubo grigio. Sembrava un tumore nella nebbia, scuro, ammuffito, indefinito. Le sagome delle bici si disegnarono a poco a poco, lì accanto.
E, prima di arrivarci, mancavano forse due o tre metri, la nebbia si animò.
In principio udimmo l’eco di suoni lontani, di voci in mezzo ai campi incolti. Voci confuse, richiami, sussurri, lamenti, versi di bestie o di persone, che non riuscimmo a distinguere. Le sentimmo arrivare, prima remote, poi via via più vicine, fino quasi ad un passo da noi. Poi si fermarono e rimasero sospese là, nei campi, nel vuoto.
Poi arrivò la risata.
Sembrava la risata di un bambino, ma non era allegra. Era una specie di imitazione, un lamento e trasmetteva famelica crudeltà. Entrava nelle ossa e seccava la lingua incollandola al palato.
E quel lamento si accompagnava ad uno strano mutare della nebbia che tendeva ora al blu elettrico, ora al viola mentre all’interno dei suoi vortici mi sembrava di scorgere figure sbiadite, sfumate e dai contorni confusi.
Il terrore puro montò subito, improvviso, salendo dai testicoli fino alla bocca dello stomaco.
Olly emise un verso disperato, un singhiozzo di terrore infantile. Mi girai di scatto e mi trovai ad un centimetro i suoi occhi, persi nella febbre della paura. Sembravano fatti di gelatina liquida ed erano l’unica cosa davvero in vista in quell’oscuro grigiore di mondo morto.
Cercai di scacciare l’immagine dalla testa e di trovare qualcosa di rassicurante da dirgli, ma non ci riuscii.
Sentii, invece, la mia mano aggrapparsi al manubrio della bici come se fosse l’ultimo punto di appoggio affacciato su di un mondo ostile.
Balzammo in sella e cominciammo a pedalare a più non posso senza neanche guardare dove andavamo.
Meglio finire contro un albero o dentro un fosso che rimanere ancora un secondo in mezzo a quella coltre di omertà gelida ed alienante.
Arrivai al culmine della salita per primo.
“Paolo, aspettami.…!!”, sentii in lontananza la voce di Olly che mi chiamava.
Doveva essere almeno a metà.
Inchiodai i freni. “Muoviti!! Sono quassù!!”, urlai.
“Non ce la faccio….Paolo….aiutami….”.
Sentivo i suoi richiami sempre più lontani e distorti.
“Olly, dove cavolo sei??”.
“Sono qui….Paolo….sono dentro la nebbia….”.
Girai la bici ed iniziai lentamente a scendere per andare a prenderlo.
Ma, dopo un paio di metri, mi bloccai di colpo perché quei suoni innaturali, quelle voci, quei versi strani ripresero.
Immediatamente dopo, piombò su di me ancora quella risata maledetta.
E quel turbinio sporco e denso, venato di striature violacee, dal fondo della discesa, cominciò lentamente a salire.
E poi un odore marcio e dolciastro, di cadaveri in putrefazione, un biascicare acquoso, liquido e gorgogliante sgorgava dal fiume e veniva verso di me.
Dietro, solo il fantasma evanescente di quel maledetto edificio, che sembrava l’incubo di un delirante ed, ancora, il pianto ormai lontano e confuso di Olly: “Paolo….la nebbia….”.
“Cazzo! Devo levarmi da qui!”, fu allora il mio unico pensiero sfibrato.
Saltai sulla bici e ricominciai a salire, pedalando dentro l’argenteo muro vaporoso.
Volai via, con la lingua stretta tra i denti e gli intestini incollati al fondo dei pantaloni. La nebbia mi sferzava la faccia, la bici tremava sotto di me e i ciottoli dello sterrato schizzavano come proiettili. Un solo imperativo nella mente: correre, mettere più strada possibile tra me e quel posto orrendo!
Non mi girai neppure per accertarmi se Olly fosse a ruota. Lo avevo lasciato a metà salita: poteva già essere arrivato di sopra ed ora pedalare dietro di me.
Continuai a pedalare, come un forsennato, fino alla provinciale. Giunto sulla strada asfaltata pompai ancora sui pedali, in preda ad un terrore inimmaginabile. Mancava meno di un chilometro al paese e solo quando finalmente vi entrai e venni avvolto dalle luci fioche dei lampioni mi voltai.
Ma Olly non c’era.
Lo attesi per quasi mezz’ora, appoggiato al muro dell’officina. Poi scappai a chiudermi in casa.
Mio papà disse che, vista la nebbia fitta, avremmo anticipato il rientro in città. E, dopo un paio d’ore, ero già in viaggio cullato del dolce tepore del riscaldamento della nostra auto. Mai come quell’anno fui contento di lasciare la campagna, anche se sapevo bene che, fino alla prossima Pasqua, non ci sarei potuto tornare.
Neanche Olly ci tornò.
Non tornò più.
Quando, la primavera successiva, ripresi a scendere per i fine settimana seppi che lo cercarono dappertutto, senza esito. Chiamarono persino i Pompieri, dal capoluogo, con il gommone e i cani, ma non ci fu nulla da fare.
Alla fine conclusero che Olly, malgrado la scarsa visibilità, fosse sceso fino al fiume per fumare di nascosto o tirare sassi, come faceva di solito. Irruento e scalmanato com’era non era stato attento ed era scivolato in acqua.
Nessuno in paese ci aveva visti uscire insieme e io me ne guardai bene dal dire una sola parola di cosa era successo quel maledetto pomeriggio.
Non dissi nulla neanche dopo ma, in tutti gli anni a venire, con la mente tornai spesso al povero Olly, che si aggrappava disperatamente a me perché era sicuro che lo avrei portato via da quell’incubo grigio-viola.
Perché sapeva che ero suo amico e che non lo avrei mai abbandonato dentro quell’inferno di ovatta putrida.
Ma non avevo avuto scelta.
Dopo più di quaranta anni non so ancora bene cosa avrei dovuto fare.
Quello che so è che la nebbia è ritornata fitta in Lomellina.
E che oggi è ancora più fitta del solito.
Mia figlia è in casa e sta preparando una torta con mia moglie.
Qui fuori, invece, la nebbia cagliata indugia sui tetti, sui campi deserti, sulle rotoballe di paglia disfatte.
Si adagia piano, come una bella donna su di un grande letto e si spande per il paese, colando in ogni anfratto.
Nasconde le cose, che appaiono e spariscono come entità incorporee.
Il suo respiro gelido accarezza le strade sconnesse, le stoppie marcite, i rami spogliati di foglie, i cespugli intorpiditi nel sonno autunnale e i tronchi degli alberi in attesa.
Si avvicina, biancastra e fumosa, con il suo odore di morte.
E con quella risata. Che mi ricorda tanto un diesel spompato.
Nel suo vorticare distinguo qualcosa di confuso, indefinito.
Ci sono cose strane dentro la nebbia.
E io so cosa sono.
Spero che, quando usciranno, mia moglie e mia figlia non saranno lì a vedere.
Spero che qualsiasi cosa esca si ricordi che, una volta, eravamo amici.
Opera scritta il 07/07/2020 - 12:30
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Commenti
Ebbene sì, sono proprio io!
Ti confesso che una delle ragioni per cui mi sono iscritto a questo sito è stata quella di averti ritrovata tra gli autori. Quindi, piacere assolutamente reciproco!
Ti confesso che una delle ragioni per cui mi sono iscritto a questo sito è stata quella di averti ritrovata tra gli autori. Quindi, piacere assolutamente reciproco!
Paolo Guastone 08/07/2020 - 09:12
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Leggendo questa storia, mi è tornato alla mente il ricordo di un autore di un sito ormai inesistente, che era riuscito suo malgrado a farmi avvicinare a quel genere noir/horror da me mai amato.
Ci riuscì grazie ad una prosa coinvolgente, farcita di descrizioni quasi liriche delle atmosfere e degli stati d'animo, che per me era un piacere assaporare.
Se Paolo è quell'autore, è un piacere averlo ritrovato...
Bellissimo racconto, con un finale da brivido...
Ci riuscì grazie ad una prosa coinvolgente, farcita di descrizioni quasi liriche delle atmosfere e degli stati d'animo, che per me era un piacere assaporare.
Se Paolo è quell'autore, è un piacere averlo ritrovato...
Bellissimo racconto, con un finale da brivido...
PAOLA SALZANO 07/07/2020 - 18:26
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Grazie anche a te per il bel commento. Sono contento che ti sia piaciuto.
Paolo Guastone 07/07/2020 - 15:07
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Anche da parte mia, complimenti per il racconto che si fa leggere nel suo susseguirsi d'immagini. Piaciuto molto!
Maria Luisa Bandiera 07/07/2020 - 14:53
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Troppo buono...eh...eh...Comunque grazie per la lettura ed il sincero apprezzamento.
Paolo Guastone 07/07/2020 - 13:34
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Solo un aggettivo: fantastico. Proprio ieri ho guardato con mio figlio "La ragazza nella nebbia". Ho letto d'un fiato il tuo racconto, davvero complimenti
Mirko D. Mastro(Poeta) 07/07/2020 - 13:31
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