Giorgio accartocciò l’ennesima lattina di birra vuota e la gettò con noncuranza nel lavello, già stracolmo di piatti e stoviglie.
Si concentrò sul televisore che, dal primo pomeriggio, stava sputando il bollettino meteorologico come fosse una sentenza di un tribunale. Il video mostrava le immagini del traliccio di ferro e asfalto che scavalcava il grande fiume, poco più a valle. Era un balcone pieno di gente, un palco sullo spettacolo terribile del mostro che si era risvegliato, mentre gli inviati, dislocati in zone diverse, sottolineavano con profonda enfasi quale sarebbe stato lo scenario previsto per le prossime ore: “…si prevede che la piena scavalcherà l’ultimo argine intorno alla una e trenta di questa notte…tutti i residenti delle zone interessate saranno coadiuvati dalla Protezione Civile a…”.
Il fatto è che lui lo scenario lo conosceva benissimo, anche senza bollettino meteorologico.
Giorgio era nato e cresciuto lì e aveva imparato, nel tempo, a capire i capricci del fiume. E di piene ne aveva viste parecchie. L’ultima risaliva ad una decina d’anni prima: gli era costata qualche campo allagato, qualche argine distrutto ma, in cambio, aveva salvato la casa dato che la piena, quando era arrivata da quelle parti, era ormai esausta e se ne era andata lasciando sul pavimento solo un velo di acqua giallastra.
Negli ultimi giorni Giorgio aveva ispezionato l’argine in lungo ed in largo e aveva visto il livello del fiume salire parecchio. L’ondata montava, eccome se montava: ad occhio dovevano essere almeno quindici centimetri l’ora e giù al ponte era già a due metri sopra il livello di guardia.
Sommando dieci giorni ininterrotti di pioggia, Giorgio non ci aveva messo molto a capire che, questa volta, non se la sarebbe cavata con così poco. Per la vera sberla, quella da 13/15 mila metri cubi al secondo, era solo questione di tempo: Dio stava strizzando il cielo come fanno le massaie con gli stracci sudici e sarebbe stato un miracolo se l’acqua si fosse fermata solo al primo piano.
Giorgio si prese un’altra birra dal frigorifero e si avvicinò alla finestra. I raggi della luna illuminavano in lontananza la gobba d’acqua, nera di detriti, che, dopo essersi presa la golena, arrivando a sfiorare gli argini, sembrava proprio avere l’intenzione di venire fuori a farsi una passeggiata per i campi.
“Chi ha la casa sull’argine dorme male”, recitava un vecchio proverbio e lui abitava non tanto distante dall’ultimo argine, in una piccola cascina isolata in mezzo ai campi. Ma aveva sempre dormito bene.
Perlomeno fino a quando non aveva cominciato a sentire quelle voci.
Le prime furono quelle di Mara. La ragazza più bella del paese, amante della natura e degli animali, che dopo una corte lunghissima e devastante era riuscito finalmente a sposare.
Era bellissima, come la luce del sole tra gli alberi o il canto degli uccelli in campagna ma, un mese prima, gli aveva fatto scoprire un lato che lui avrebbe fatto volentieri a meno di conoscere.
“Ma come può finire tutto così…?”, aveva implorato Giorgio al termine dell’ennesimo litigio.
“Non lo capisci? Restare con te sarebbe solo imbarazzante!!”, gli aveva risposto lei, con una durezza che non ammetteva repliche.
“Sei ridicolo…patetico…!”, aveva aggiunto ancora, “A quaranta anni suonati hai la stessa maturità emotiva di un ragazzino e non sai fare altro che blaterare promesse su promesse!”.
A queste voci si erano aggiunte quelle del suo amico Piero.
Anche Piero era un agricoltore e, qualche giorno prima, avevano fatto un giro insieme sull’argine per studiare la situazione. Avevano contato i blocchi di pietra dei piloni del ponte ed avevano visto che un altro era andato sotto, avevano poggiato le mani sui pilastroni di ghisa per indovinare vibrazioni sospette.
“Ti dico che fra uno o due giorni va di sopra...”.
“No…vedrai che passa e se ne va…”.
La piena del grande fiume è una scommessa che, a perderla, si paga molto cara. Ma Piero, terminate le ispezioni, non ce l’aveva fatta più a tenersi e aveva vuotato il sacco, facendo capire a Giorgio che, da lì in poi, l’ondata di piena sarebbe stata l’ultimo dei suoi problemi.
“Giorgio….ti dico che era lei, cazzo, credimi!!”.
“Ma….come…?”.
“Si, era Mara! L’ho vista….la settimana passata, seduta in quel bar grande che c’è in città, accanto alla stazione degli autobus….”.
“Si…era andata in città per fare compere, ma….”.
“Il fatto è che… era seduta al tavolino insieme a Michele, il meccanico….”.
Giorgio provò di colpo un sottile senso di inquietudine, ma cercò di minimizzare.
“Beh…e allora…?”.
“Ecco…loro…oh cazzo Giorgio, non so come dirtelo….si tenevano la mano e dopo…si sono avvicinati….sfiorati e….”.
Giorgio sussultò. Viveva in quella cascina da quando era nato e non si era mai stancato di lavorare nei campi né di servire e riverire quella che da dieci anni e passa divideva con lui il tetto e il letto coniugale.
Forse con il tempo le cose sarebbero andate meglio, pensò. Forse la frattura che si era venuta a creare tra loro due si sarebbe un giorno finalmente rinsaldata.
Ma certe ferite non si possono rimarginare. Come non si rimargina un argine che l’ondata di piena sta crepando piano piano. Quando la piena arriva non la si può fermare. Quando una donna si mette in testa che non ti vuole più, non c'è niente da fare.
Per questo Giorgio aveva le lacrime agli occhi.
Spense il televisore e si accasciò di nuovo sulla sedia. Rimase ad osservare la sua immagine riflessa nello schermo nero. Era la perfetta rappresentazione della sua vita in quel momento. Un buco oscuro nel quale non poteva fare altro che fissare sé stesso mentre andava in pezzi.
Guardò l’orologio. Erano da poco passate le ventitré: avrebbe avuto tutto il tempo.
Indossò il giaccone giallo impermeabile, calzò i lunghi stivali di gomma da pescatore e andò in salotto.
Sul divano, distesa e vestita di tutto punto, c’era Mara che dormiva un sonno profondo.
Giorgio si fermò un attimo a pensare. Pensava a quello che era avvenuto nel pomeriggio.
Avevano di nuovo litigato.
“L’ho vista…seduta in quel bar…era insieme a Michele, il meccanico…si tenevano la mano e dopo...”.
Tutto avvenne in un attimo. L’attimo che passa tra il momento in cui, come una scossa elettrica, l’istantanea dei due amanti, teneramente abbracciati, si piantò dritta nel cervello di Giorgio e il momento in cui Giorgio decise che avrebbe preparato lui la cena.
Una cena frugale, si intende. Dovevano tenersi pronti a scappare da un momento all’altro e perciò era da qualche giorno che il frigorifero non veniva rifornito.
Giorgio cucinò quello che c’era, preparò la tavola e, quando la cena fu pronta, aggiunse al piatto di Mara tutto il contenuto del tubetto di tranquillanti che aveva preso dal mobiletto del bagno e che aveva accuratamente polverizzato.
Giorgio tornò in sé. Guardò Mara e le accarezzò una guancia. Poi la prese in braccio, delicatamente, come si fa con una giovane sposa al ritorno dalla cerimonia, si tirò in testa il cappuccio dell’impermeabile ed uscì.
Gli scrosci di pioggia sembravano più delle cascate d’acqua e lo colpirono con la forza di un TIR lanciato a tutta velocità. Gocce enormi sembrano quasi seguire il ritmo schizofrenico ed esasperato di un tiptap suonato da una orchestrina di squilibrati.
Si incamminò nel cortile. In certi punti il fango arrivava oltre le ginocchia ma, arrancando, Giorgio riuscì ad avanzare fino al capanno dove erano ricoverati gli animali.
Una volta entrato, adagiò Mara sopra una catasta di legna, accanto alle gabbie degli animali, e le diede un bacio sulla fronte.
Poi chiuse tutto a chiave e se ne tornò in casa a prepararsi per l’arrivo dell’acqua.
Quando un fiume di quelle dimensioni arriva a saltare anche l’ultimo argine, la violenza dell’acqua spazza via ogni cosa, automobili, alberi, baracche e persino case. Certo, case piccole e moderne, non come la sua, costruita con solide fondamenta e con muri spessi e pesanti, come ogni buona e vecchia casa colonica.
Giorgio prese dal frigorifero un paio di lattine di birra e gli ultimi frutti rimasti e ficcò il tutto nelle grandi tasche dell’impermeabile.
Salì al primo piano, prese un pezzo di corda e la torcia elettrica. Poi aprì la botola del soffitto.
Il tetto era scivoloso per la pioggia e le raffiche d’acqua non davano tregua. Giorgio riuscì a mettersi a cavalcioni del comignolo ed ancorarsi legandosi con la corda. Sapeva che i soccorsi sarebbero tardati. Da come stavano andando le cose la strada provinciale avrebbe dovuto già essere allagata, mentre per percorrere le sterrate che portavano all’argine ora ci voleva un sommergibile.
Era successo anche durante l’ultima inondazione. La Protezione Civile, sempre a corto di mezzi, si preoccupava più della gente che viveva nei paesi più grossi che sorgevano lungo il fiume, lasciando sempre per ultime le cascine isolate, piantate in mezzo alla grande tavolata dei campi.
Si accertò di essersi ancorato per bene e rimase ad aspettare.
Non aspettò molto. Dopo neanche mezz’ora il fiume saltò l’argine ed uscì per i campi.
La massa nerastra e puzzolente, che prima si dimenava al di là della finestra della cucina, divenne ora, vista dal tetto, un fiume che scorreva nella direzione sbagliata. La sua.
Per prima cosa gli giunse l’odore. Immensamente marcio e rancido, putrescente da togliere il respiro, come se di colpo l’ondata di piena avesse scoperchiato milioni di tombe o rovistato dentro infiniti immondezzai.
Poi arrivò l’aria, spostata dall’onda d’urto dell’immensa massa d’acqua. Soffiava forte, violenta, penetrava nei pori della pelle, fino in fondo, a scavare dentro le ossa. Schiaffeggiava tutto, spruzzando acqua nerastra, mista a fango e sporcizia, e stendeva una patina putrida e maleodorante. Piegava e spezzava i rami degli alberi prima ancora che l’acqua arrivasse a livellare ogni cosa.
Infine, implacabile ed inarrestabile, giunse l’ondata di piena.
Quando l’ondata polverizzò e spazzò via il capanno dove teneva la legna e gli animali ci furono versi e grida strazianti.
Giorgio sentì o, perlomeno, gli parve di sentire anche un grido contorto, disperato, emesso da una voce femminile, ma alla fine stabilì che lo aveva confuso con l’urlo del vento.
Una frazione di secondo dopo l’ondata si schiantò contro la casa con un rombo simile a quello di un aereo al decollo.
La casa si mosse con un fremito, tanto che Giorgio rischiò di essere disarcionato dal comignolo al quale si era legato, i vecchi mattoni scricchiolarono forte e qualcuno volò via, mentre acqua, fango, detriti di ogni genere sfregiavano l’intonaco esterno e facevano saltare vetri, porte e finestre.
Poco dopo l’ondata passò portandosi dietro detriti, bidoni, mobili, tronchi d’albero, una campana per la raccolta del vetro, auto, una roulotte, carcasse di animali e, infine, il ricordo di una ragazza la cui bellezza era affilata come un rasoio e a guardarla ci si feriva gli occhi, che ora si smarriva per sempre nei vortici della piena e del tempo.
Giorgio si asciugò una lacrima mentre l’ondata di piena si mangiò come niente il boschetto oltre la casa e scomparve nel nero mantello della notte.
La luce del nuovo giorno gli rivelò che aveva avuto ragione lui. L’acqua si era fermata quasi al tetto e lo aveva trasformato in un novello Robinson Crusoe, sperduto su di un isola fatta di tegole, in mezzo ad un oceano d’acqua sporca sul quale galleggiava di tutto.
Da questo oceano sconfinato si alzavano vapori di nebbia sottile che dipingevano il grigio del cielo con una sfumatura argentea.
Ancorato al comignolo aspettava che qualcuno lo venisse a salvare e intanto pensava a cosa avrebbe raccontato.
Era noto in tutto il paese che Mara amava gli animali e che si sarebbe fatta in quattro per salvare i conigli, le galline e le oche dentro il capanno. E lui glielo aveva detto e ripetuto che quella era una pazzia, che stavolta non c’era per niente da scherzare e che era meglio mettersi al sicuro di corsa e al diavolo le bestie.
Ma lei era tenace e caparbia, lo sapevano tutti. Quando si metteva in testa una cosa la doveva portare a termine. Non c’era niente da fare, era come voler opporre un ombrello ad un uragano, era come voler fermare l’ondata di piena con le sole mani.
Si era impuntata, come faceva sempre, e lui si era precipitato, aveva cercato di raggiungerla, di salvarla, ma non aveva fatto in tempo.
I resti degli alberi attorno alla casa apparivano come ombre scheletriche frustate dal vento.
La pioggia aveva finalmente smesso di mitragliare. Giorgio si slegò dal camino e si stiracchiò per bene.
Poi, infilò una mano nella tasca dell’impermeabile e si aprì una lattina di birra.
Si concentrò sul televisore che, dal primo pomeriggio, stava sputando il bollettino meteorologico come fosse una sentenza di un tribunale. Il video mostrava le immagini del traliccio di ferro e asfalto che scavalcava il grande fiume, poco più a valle. Era un balcone pieno di gente, un palco sullo spettacolo terribile del mostro che si era risvegliato, mentre gli inviati, dislocati in zone diverse, sottolineavano con profonda enfasi quale sarebbe stato lo scenario previsto per le prossime ore: “…si prevede che la piena scavalcherà l’ultimo argine intorno alla una e trenta di questa notte…tutti i residenti delle zone interessate saranno coadiuvati dalla Protezione Civile a…”.
Il fatto è che lui lo scenario lo conosceva benissimo, anche senza bollettino meteorologico.
Giorgio era nato e cresciuto lì e aveva imparato, nel tempo, a capire i capricci del fiume. E di piene ne aveva viste parecchie. L’ultima risaliva ad una decina d’anni prima: gli era costata qualche campo allagato, qualche argine distrutto ma, in cambio, aveva salvato la casa dato che la piena, quando era arrivata da quelle parti, era ormai esausta e se ne era andata lasciando sul pavimento solo un velo di acqua giallastra.
Negli ultimi giorni Giorgio aveva ispezionato l’argine in lungo ed in largo e aveva visto il livello del fiume salire parecchio. L’ondata montava, eccome se montava: ad occhio dovevano essere almeno quindici centimetri l’ora e giù al ponte era già a due metri sopra il livello di guardia.
Sommando dieci giorni ininterrotti di pioggia, Giorgio non ci aveva messo molto a capire che, questa volta, non se la sarebbe cavata con così poco. Per la vera sberla, quella da 13/15 mila metri cubi al secondo, era solo questione di tempo: Dio stava strizzando il cielo come fanno le massaie con gli stracci sudici e sarebbe stato un miracolo se l’acqua si fosse fermata solo al primo piano.
Giorgio si prese un’altra birra dal frigorifero e si avvicinò alla finestra. I raggi della luna illuminavano in lontananza la gobba d’acqua, nera di detriti, che, dopo essersi presa la golena, arrivando a sfiorare gli argini, sembrava proprio avere l’intenzione di venire fuori a farsi una passeggiata per i campi.
“Chi ha la casa sull’argine dorme male”, recitava un vecchio proverbio e lui abitava non tanto distante dall’ultimo argine, in una piccola cascina isolata in mezzo ai campi. Ma aveva sempre dormito bene.
Perlomeno fino a quando non aveva cominciato a sentire quelle voci.
Le prime furono quelle di Mara. La ragazza più bella del paese, amante della natura e degli animali, che dopo una corte lunghissima e devastante era riuscito finalmente a sposare.
Era bellissima, come la luce del sole tra gli alberi o il canto degli uccelli in campagna ma, un mese prima, gli aveva fatto scoprire un lato che lui avrebbe fatto volentieri a meno di conoscere.
“Ma come può finire tutto così…?”, aveva implorato Giorgio al termine dell’ennesimo litigio.
“Non lo capisci? Restare con te sarebbe solo imbarazzante!!”, gli aveva risposto lei, con una durezza che non ammetteva repliche.
“Sei ridicolo…patetico…!”, aveva aggiunto ancora, “A quaranta anni suonati hai la stessa maturità emotiva di un ragazzino e non sai fare altro che blaterare promesse su promesse!”.
A queste voci si erano aggiunte quelle del suo amico Piero.
Anche Piero era un agricoltore e, qualche giorno prima, avevano fatto un giro insieme sull’argine per studiare la situazione. Avevano contato i blocchi di pietra dei piloni del ponte ed avevano visto che un altro era andato sotto, avevano poggiato le mani sui pilastroni di ghisa per indovinare vibrazioni sospette.
“Ti dico che fra uno o due giorni va di sopra...”.
“No…vedrai che passa e se ne va…”.
La piena del grande fiume è una scommessa che, a perderla, si paga molto cara. Ma Piero, terminate le ispezioni, non ce l’aveva fatta più a tenersi e aveva vuotato il sacco, facendo capire a Giorgio che, da lì in poi, l’ondata di piena sarebbe stata l’ultimo dei suoi problemi.
“Giorgio….ti dico che era lei, cazzo, credimi!!”.
“Ma….come…?”.
“Si, era Mara! L’ho vista….la settimana passata, seduta in quel bar grande che c’è in città, accanto alla stazione degli autobus….”.
“Si…era andata in città per fare compere, ma….”.
“Il fatto è che… era seduta al tavolino insieme a Michele, il meccanico….”.
Giorgio provò di colpo un sottile senso di inquietudine, ma cercò di minimizzare.
“Beh…e allora…?”.
“Ecco…loro…oh cazzo Giorgio, non so come dirtelo….si tenevano la mano e dopo…si sono avvicinati….sfiorati e….”.
Giorgio sussultò. Viveva in quella cascina da quando era nato e non si era mai stancato di lavorare nei campi né di servire e riverire quella che da dieci anni e passa divideva con lui il tetto e il letto coniugale.
Forse con il tempo le cose sarebbero andate meglio, pensò. Forse la frattura che si era venuta a creare tra loro due si sarebbe un giorno finalmente rinsaldata.
Ma certe ferite non si possono rimarginare. Come non si rimargina un argine che l’ondata di piena sta crepando piano piano. Quando la piena arriva non la si può fermare. Quando una donna si mette in testa che non ti vuole più, non c'è niente da fare.
Per questo Giorgio aveva le lacrime agli occhi.
Spense il televisore e si accasciò di nuovo sulla sedia. Rimase ad osservare la sua immagine riflessa nello schermo nero. Era la perfetta rappresentazione della sua vita in quel momento. Un buco oscuro nel quale non poteva fare altro che fissare sé stesso mentre andava in pezzi.
Guardò l’orologio. Erano da poco passate le ventitré: avrebbe avuto tutto il tempo.
Indossò il giaccone giallo impermeabile, calzò i lunghi stivali di gomma da pescatore e andò in salotto.
Sul divano, distesa e vestita di tutto punto, c’era Mara che dormiva un sonno profondo.
Giorgio si fermò un attimo a pensare. Pensava a quello che era avvenuto nel pomeriggio.
Avevano di nuovo litigato.
“L’ho vista…seduta in quel bar…era insieme a Michele, il meccanico…si tenevano la mano e dopo...”.
Tutto avvenne in un attimo. L’attimo che passa tra il momento in cui, come una scossa elettrica, l’istantanea dei due amanti, teneramente abbracciati, si piantò dritta nel cervello di Giorgio e il momento in cui Giorgio decise che avrebbe preparato lui la cena.
Una cena frugale, si intende. Dovevano tenersi pronti a scappare da un momento all’altro e perciò era da qualche giorno che il frigorifero non veniva rifornito.
Giorgio cucinò quello che c’era, preparò la tavola e, quando la cena fu pronta, aggiunse al piatto di Mara tutto il contenuto del tubetto di tranquillanti che aveva preso dal mobiletto del bagno e che aveva accuratamente polverizzato.
Giorgio tornò in sé. Guardò Mara e le accarezzò una guancia. Poi la prese in braccio, delicatamente, come si fa con una giovane sposa al ritorno dalla cerimonia, si tirò in testa il cappuccio dell’impermeabile ed uscì.
Gli scrosci di pioggia sembravano più delle cascate d’acqua e lo colpirono con la forza di un TIR lanciato a tutta velocità. Gocce enormi sembrano quasi seguire il ritmo schizofrenico ed esasperato di un tiptap suonato da una orchestrina di squilibrati.
Si incamminò nel cortile. In certi punti il fango arrivava oltre le ginocchia ma, arrancando, Giorgio riuscì ad avanzare fino al capanno dove erano ricoverati gli animali.
Una volta entrato, adagiò Mara sopra una catasta di legna, accanto alle gabbie degli animali, e le diede un bacio sulla fronte.
Poi chiuse tutto a chiave e se ne tornò in casa a prepararsi per l’arrivo dell’acqua.
Quando un fiume di quelle dimensioni arriva a saltare anche l’ultimo argine, la violenza dell’acqua spazza via ogni cosa, automobili, alberi, baracche e persino case. Certo, case piccole e moderne, non come la sua, costruita con solide fondamenta e con muri spessi e pesanti, come ogni buona e vecchia casa colonica.
Giorgio prese dal frigorifero un paio di lattine di birra e gli ultimi frutti rimasti e ficcò il tutto nelle grandi tasche dell’impermeabile.
Salì al primo piano, prese un pezzo di corda e la torcia elettrica. Poi aprì la botola del soffitto.
Il tetto era scivoloso per la pioggia e le raffiche d’acqua non davano tregua. Giorgio riuscì a mettersi a cavalcioni del comignolo ed ancorarsi legandosi con la corda. Sapeva che i soccorsi sarebbero tardati. Da come stavano andando le cose la strada provinciale avrebbe dovuto già essere allagata, mentre per percorrere le sterrate che portavano all’argine ora ci voleva un sommergibile.
Era successo anche durante l’ultima inondazione. La Protezione Civile, sempre a corto di mezzi, si preoccupava più della gente che viveva nei paesi più grossi che sorgevano lungo il fiume, lasciando sempre per ultime le cascine isolate, piantate in mezzo alla grande tavolata dei campi.
Si accertò di essersi ancorato per bene e rimase ad aspettare.
Non aspettò molto. Dopo neanche mezz’ora il fiume saltò l’argine ed uscì per i campi.
La massa nerastra e puzzolente, che prima si dimenava al di là della finestra della cucina, divenne ora, vista dal tetto, un fiume che scorreva nella direzione sbagliata. La sua.
Per prima cosa gli giunse l’odore. Immensamente marcio e rancido, putrescente da togliere il respiro, come se di colpo l’ondata di piena avesse scoperchiato milioni di tombe o rovistato dentro infiniti immondezzai.
Poi arrivò l’aria, spostata dall’onda d’urto dell’immensa massa d’acqua. Soffiava forte, violenta, penetrava nei pori della pelle, fino in fondo, a scavare dentro le ossa. Schiaffeggiava tutto, spruzzando acqua nerastra, mista a fango e sporcizia, e stendeva una patina putrida e maleodorante. Piegava e spezzava i rami degli alberi prima ancora che l’acqua arrivasse a livellare ogni cosa.
Infine, implacabile ed inarrestabile, giunse l’ondata di piena.
Quando l’ondata polverizzò e spazzò via il capanno dove teneva la legna e gli animali ci furono versi e grida strazianti.
Giorgio sentì o, perlomeno, gli parve di sentire anche un grido contorto, disperato, emesso da una voce femminile, ma alla fine stabilì che lo aveva confuso con l’urlo del vento.
Una frazione di secondo dopo l’ondata si schiantò contro la casa con un rombo simile a quello di un aereo al decollo.
La casa si mosse con un fremito, tanto che Giorgio rischiò di essere disarcionato dal comignolo al quale si era legato, i vecchi mattoni scricchiolarono forte e qualcuno volò via, mentre acqua, fango, detriti di ogni genere sfregiavano l’intonaco esterno e facevano saltare vetri, porte e finestre.
Poco dopo l’ondata passò portandosi dietro detriti, bidoni, mobili, tronchi d’albero, una campana per la raccolta del vetro, auto, una roulotte, carcasse di animali e, infine, il ricordo di una ragazza la cui bellezza era affilata come un rasoio e a guardarla ci si feriva gli occhi, che ora si smarriva per sempre nei vortici della piena e del tempo.
Giorgio si asciugò una lacrima mentre l’ondata di piena si mangiò come niente il boschetto oltre la casa e scomparve nel nero mantello della notte.
La luce del nuovo giorno gli rivelò che aveva avuto ragione lui. L’acqua si era fermata quasi al tetto e lo aveva trasformato in un novello Robinson Crusoe, sperduto su di un isola fatta di tegole, in mezzo ad un oceano d’acqua sporca sul quale galleggiava di tutto.
Da questo oceano sconfinato si alzavano vapori di nebbia sottile che dipingevano il grigio del cielo con una sfumatura argentea.
Ancorato al comignolo aspettava che qualcuno lo venisse a salvare e intanto pensava a cosa avrebbe raccontato.
Era noto in tutto il paese che Mara amava gli animali e che si sarebbe fatta in quattro per salvare i conigli, le galline e le oche dentro il capanno. E lui glielo aveva detto e ripetuto che quella era una pazzia, che stavolta non c’era per niente da scherzare e che era meglio mettersi al sicuro di corsa e al diavolo le bestie.
Ma lei era tenace e caparbia, lo sapevano tutti. Quando si metteva in testa una cosa la doveva portare a termine. Non c’era niente da fare, era come voler opporre un ombrello ad un uragano, era come voler fermare l’ondata di piena con le sole mani.
Si era impuntata, come faceva sempre, e lui si era precipitato, aveva cercato di raggiungerla, di salvarla, ma non aveva fatto in tempo.
I resti degli alberi attorno alla casa apparivano come ombre scheletriche frustate dal vento.
La pioggia aveva finalmente smesso di mitragliare. Giorgio si slegò dal camino e si stiracchiò per bene.
Poi, infilò una mano nella tasca dell’impermeabile e si aprì una lattina di birra.
Opera scritta il 20/07/2020 - 12:55
Letta n.729 volte.
Voto: | su 3 votanti |
Commenti
Ah, ecco un bel finale. Mi è piaciuto.
Grazie.
Grazie.
Moreno Maurutto 21/07/2020 - 16:04
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Che racconto Paolo!
Storia allucinante ma credibile, con un ritmo che invoglia il lettore a proseguire, nell'attesa di un finale che si fa fatica a immaginare...
C'è da imparare, bravo
Storia allucinante ma credibile, con un ritmo che invoglia il lettore a proseguire, nell'attesa di un finale che si fa fatica a immaginare...
C'è da imparare, bravo
PAOLA SALZANO 21/07/2020 - 11:17
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Un racconto thriller, scritto con cura, apprezzato.
Maria Luisa Bandiera 21/07/2020 - 09:18
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