La campagna è dura come la roccia, rigata a tratti di verde e si stende, sconfinata, fino all’orizzonte dove cielo e terra si fondono in una banda d’argento opaco e il sole si schianta e si frantuma in inquietanti riverberi, così violenti da fare quasi rumore.
L’aria soffia lenta ed è fuoco sulla pelle. Pettina le risaie e solleva aromi aspri di sterpaglie secche ed alghe putride in agonia sul fondo fangoso di mille fossi.
La inspiro lentamente e la ributto fuori con forza mentre i pioppi si innalzano come lingue di fuoco su di un cielo che brucia di vortici di seta e nuvole bianche e vaporose si inseguono come cadaveri decomposti portati a valle da un fiume in piena.
Riannodo i fili del pensiero e li fisso su di un panorama lontano. I ricordi corrono nella polvere che danza e non cessano di urlare. Li cerco, li accarezzo pizzicando le corde dell’anima con il plettro della memoria e la storia diventa immagine davanti a me.
Era d’estate. Quando non fa mai notte, quando si può stare fuori anche dopo cena. Fino a tardi. Quando ci si siede tranquilli sulla striscia d’asfalto deserta a giocare col gatto e le falene, mentre l’aria tiepida è una carezza che sa di zampironi e di fiori. Quando le rane cantano la loro serenata alla luna e le stelle cadenti giocano a bowling con quelle rimaste appese nel cielo color carbone.
Era d’estate. Quando Daniele sparì.
L’allarme scattò intorno a mezzanotte. Lo cercarono dappertutto e fu una notte drammatica, quella. All’alba trovarono la bici, il cestino e la canna da pesca giù al fiume, sulla spiaggetta della cascata.
I sommozzatori, invece, non trovarono nulla e dopo un paio di giorni a setacciare acqua se ne andarono.
Era d’estate e faceva caldo. Molto caldo. Ma non il caldo africano di oggi e in inverno nevicava e pioveva forte. Oggi piove poco e nevica ancora meno e l’emergenza idrica è sempre lì, dietro l’angolo. Ma allora no. La portata del fiume, da Giugno a Settembre, non calava granché e certe disattenzioni potevano costare molto care.
Daniele non c’era più. Sparito. Non sembrava vero.
Non poteva essere successo davvero. Proprio a lui che era il più giudizioso. Che se ne stava sempre lontano dai pericoli, mentre noi eravamo perennemente fradici e ci accendevamo come cerini, strisciando sull’asfalto, dopo perenni acrobazie mal riuscite sulle bici.
Proprio a lui, sempre pulito ed educato, quando noi, di solito, assomigliavamo agli Aborigeni australiani coperti di fango per la danza rituale e il nostro vocabolario era anche peggiore di quello degli scaricatori di porto.
Crescendo, le cose non cambiarono.
Nel periodo in cui si esce dall’età del gioco e l’infanzia sta per diventare un ricordo, Daniele era una spanna avanti a tutti. Inutile girarci intorno. Quando le ragazze appaiono sotto una luce diversa e l’aria calda e i profumi delle piante, la sera, diventano così forti, cosi particolari, da dare alla testa e alzare la pelle, e non solo quella, Daniele restava sempre la personalità dominante.
Lui più snello ed atletico, io più grasso e cronicamente impacciato. E se al campetto riuscivo qualche volta a levare un pallone dal sette, mentre lui non riusciva neanche a dribblare una sedia, nessuno lo notava.
Perché lui era più intraprendente, sempre al centro dell’attenzione. Il più brillante, capace di essere tutto, che aveva sempre la battuta pronta e con le ragazze ci sapeva fare, fondendo in un mix divino ironia, dolcezza e romanticismo, mentre io ero proprio una frana, taciturno, divorato dalla timidezza e sempre con la testa tra le nuvole a rincorrere chissà quali sogni d’amore.
Era d’estate e, quella sera, in un attimo, Daniele si era giocato tutto. Anche Benedetta.
Vedere Benedetta per me era come affacciarsi da una balconata altissima su di un paesaggio stupendo. Un senso di vertigini senza fine prendeva la mente e lo stomaco e costringeva ad aggrapparsi a quel balcone con entrambe le mani per resistere alla tentazione di annullarsi.
E i suoi occhi….Dio mio….i suoi occhi erano come perle antiche che emanavano un chiarore di alba. Grigi, con tracce verdi e azzurre, come l’oceano in burrasca, più intensi degli astri che bruciano sulla volta celeste.
Ma contro Daniele non c’era partita. Era come voler battere una Ferrari cavalcando una bicicletta sgonfia.
Daniele si prese Benedetta e a me restarono solo i sogni e tanto silenzio dentro.
Da allora sono passati milioni di anni e un po’ di cose sono cambiate.
Un paio d’anni dopo Benedetta si trasferì in città per frequentare l’università e finì per sposarsi con un compagno di corso.
Io sono rimasto solo. Chiuso ed introverso, come sempre. Il tempo che passa ha intaccato i miei sogni e la realtà ha cambiato il mio mondo perfetto. Nessuna relazione stabile: semplicemente non sono mai riuscito a sbloccarmi. Solo qualche avventura fugace qua e là, più per scommessa che per amore vero.
Daniele non lo hanno più trovato.
Chissà dove si è infilato il suo corpo. Portato a valle dalla corrente, incastrato tra le radici vicino alla riva, o magari sotto la sabbia. Oppure sul fondo del fiume.
Anche il paese è cambiato.
Tutte le case adesso hanno l’antenna e parecchie pure la parabola. Stamberghe rudi e fredde, scrostate e macilente, di un tempo sono diventate abitazioni dignitose, piccole isole di comfort persino belle a vedersi. Le letamaie si sono trasformate in aiuole multicolori e i pollai ora servono per metterci le auto.
Hanno rifatto le strade e al vecchio bar adesso si possono fare anche le fotocopie.
Ma il fiume è rimasto sempre lo stesso.
Sempre cupo e solenne scorre giù, in fondo ai campi, cullato dai mulinelli che trascinano sul fondo schiuma e foglie, sfiorando rive deserte irte di rovi e grigie spiagge calpestate da aironi solitari.
E anche le anse e le golene sono ancora là. Inviolate e deserte. E silenziose.
Ma con questo caldo, che azzanna alla gola e prosciuga anche l’anima, il livello dell’acqua è sceso parecchio.
E, chissà come, sono cominciate a circolare strane voci.
Qualcuno ne ride, qualcuno bisbiglia, ma qualcun’altro evita di prendere la strada dell’argine se non nei giorni di pieno sole e, comunque, sempre nelle ore centrali.
Deve essere stato Mario ad accendere la miccia.
Mario non è vecchio, ha solo un anno più di me, e non né neanche rincoglionito.
E’ che da quando è stato sbattuto in cassa integrazione ha molto più tempo libero per andare a pescare.
E lo ha visto.
E, adesso, ha paura.
Mario, che è ancora capace di alzare un armadio con due sole dita, non esce più di casa.
Un Sabato pomeriggio andai a trovarlo.
Lo trovai tappato in una cucina trasformata in altoforno, con tutte le tapparelle abbassate, a bere qualcosa che doveva essere birra ma che assomigliava più ad una palude africana.
Aveva gli occhi spiritati e la sua faccia era bianca come uno straccio vecchio dimenticato nella candeggina. Sono abbastanza avanti con gli anni per saper riconoscere lo sguardo di chi ha alzato troppo il gomito e di chi, invece, è spaventato. E Mario non mi sembrava proprio ubriaco.
Ma che proprio lui, così grande e grosso, avesse paura di qualcosa mi suonava nuovo.
Pensai che mi fossi sbagliato, che si fosse veramente preso una fottuta sbornia ma, quando iniziò a parlare, le sue parole mi piombarono addosso come un treno in corsa e fecero impallidire di colpo l’ISIS, Al Qaeda e tutte le altre boiate sul terrorismo mondiale.
Quello che mi disse mi riportò indietro di quasi quaranta anni.
“Paolo, porca troia…..credimi….non sono ubriaco….!!”.
Gli dissi di calmarsi ed abbassare la voce, che si sentiva fino in piazza.
“L’altro giorno sono andato a pescare….giù all’ansa di Schivanoia….e lui….e lui….”.
Si interruppe e mi fissò. I suoi occhi ora erano vuoti, persi dietro a pensieri troppo nascosti e il suo volto sembrava quello di una statua di un santo in una chiesa gremita. Stringeva il bicchiere con tale forza che le nocche affiorarono bianche sotto la pelle. L’altra mano la posò sulla mia spalla. Sentii che tremava. Cazzo, per ridurre così uno come Mario ce ne vuole!
“Lui…? Lui chi??”, mi informai perplesso.
“DANIELE!! Era lì sulla riva del fondone che mi aspettava….Dio mio….dovevi vedere come era ridotto!! Era disfatto, marcio e….divorato dai pesci….CAZZO….UNO SCHELETRO….!! I capelli c’erano ancora ma….erano appiccicati al teschio….e….oh Signore Gesù! Le ossa….le ossa! Le ossa erano coperte di fanghiglia nera e alghe...e….”.
“DANIELE?? MA COSA CAZ….”.
“Si, era lui!! E….e….me lo ha detto!!”.
“Vacca boia, Mario, tu stai troppo alzato di notte a vedi troppi film!!”.
“No, Paolo, Dio Santo, sono sicuro!! ERA LUI!!”
Dentro di me cominciava a gonfiarsi un brivido d’inquietudine. Cercai di scacciare quell’immagine dalla testa e di trovare qualcosa di rassicurante da dirgli, ma riuscii solo ad alterarmi di più. “Ma porca puttana, Mario, da quando in qua i cadaveri se ne vanno in giro a parlare alla gente….??!!”, urlai, “E poi, come cavolo fai a dire che era proprio Daniele, se era ridotto in quello stato?”.
Mario prese coraggio scolandosi altra birra. Ne bevve un boccale intero in un fiato.
“Me lo ha detto lui…..e.…mentre parlava….gorgogliava e….sputava denti e pezzi di carne….e….oh Dio aiutami….altri pezzi di carne e di pelle cadevano dal corpo….e….i girini….i girini che….!!”.
“TE LO HA DETTO LUI!!”, lo interruppi bruscamente, “Mario, per Dio, ma tu sei complet….”.
“TI GIURO CHE E’ COSI’!! Ma…cosa diavolo c’entro io?? Perché ci devo andare di mezzo io??”.
Mario iniziò a piangere. Mi avvicinai con la sedia.
“Andare di mezzo tu? E per cosa?”, gli dissi con il tono di voce più calmo che riuscii a produrre.
“Perché mi ha detto di dirti….che….un giorno di questi verrà a trovarti….che busserà alla tua porta….perché….perché….CAZZO PAOLO SEI STATO TU CHE.…!!!”.
“ADESSO BASTA!!”, gridai, pestando un tremendo pugno sul tavolo, “Tu hai bevuto troppo!! Piantala lì con la bottiglia e vai a farti una bella dormita!!”.
“No, ti dico che non ho bevuto!! E….lo ha visto anche il Franchino che tornava dai campi col trattore e….dopo…. quelli dell’Enel, che erano andati giù alla cabina….”.
Non avevo per niente voglia di assecondare i disturbi alcolici del mio amico. Lo mandai a quel paese e me ne andai sbattendo la porta, lasciandolo solo, in balia dei suoi deliri.
Come credergli? Da quando lo conosco, Mario si era sempre dimostrato affidabile e senza tanti grilli per la testa e chiunque volesse superarlo in lealtà sarebbe partito in netto svantaggio.
Però quella storia davvero non stava né in cielo né in terra. Scheletri che parlano…..ma come cazzo si fa….!!
Arrivai a casa di corsa, con in corpo una strana sensazione, poco piacevole, simile ad un rigurgito acido che non trova la strada, mentre residui di memoria si affacciavano repentini per poi svanire subito.
Il grande sole stemperava un forte alone cremisi sull’orizzonte di cobalto, riempiendo di fatui bagliori il paesaggio uniforme e sonnacchioso dell’immensa pianura. Macchie sanguigne di papaveri risaltavano sul giallo accecante dei campi di grano mentre il verde brillante dei trifogli ed i piccoli fiori viola dell’erba medica spruzzavano la tavolozza della natura.
Era ora di cena e, in giro, ormai, non c’era più nessuno.
Proprio come quella sera.
Era d’estate, e io avevo trangugiato tutto in fretta, come al solito, per potermene uscire prima.
Fu un caso fortuito, una dannata coincidenza. Come aprii la porta intravidi Daniele in fondo a via Roma, a cavallo della bici, con canna da pesca e cestino, che prendeva la strada dell’argine.
Dopo il mulino abbandonato c’era l’ansa di Schivanoia. Con il suo fondone. Un buco pauroso, profondissimo, che si raggiungeva solo dopo aver attraversato un immenso pioppeto.
Immaginavo ci sarebbe andato. Ci andava spesso a pescare là, di sera.
Sulle prime non ci badai più di tanto ma poi, rapida e dolorosa come una freccia infuocata, l’istantanea di Benedetta, i lunghi capelli neri pettinati dal vento dietro le spalle come una vela, incollata a Daniele, saettò e si piantò dritta nel cervello.
Tutto avvenne in un attimo. L’attimo che passa tra il momento in cui la scena di loro due abbracciati irruppe a tradimento nella mia mente, tagliandomi il respiro, e il momento in cui decisi di prendere quello che mi serviva.
Lasciai passare una decina di minuti. Poi saltai sulla bici e lo seguii.
Quando arrivai al fondone stava già pescando.
Il sole scoloriva in un tramonto che sapeva di sabbia fine e dorata e l’acqua del fondone, scura e torbida, puzzava di alghe e nafta.
Scesi sul ciglio. Daniele riavvolse la lenza e sorrise.
Mi disse che doveva rivelarmi una cosa.
Era una cosa che già conoscevo. Mi mancava solo il particolare, non indifferente, di sentirmela dire in faccia.
“Ce l’ho fatta, Paolo! Benedetta è mia!”.
Mandai giù un grumo di saliva che sapeva di petrolio.
“Ieri sera, in piazza….mi ha dato un bacio! Lo capisci? Un bacio, lungo e….”.
Come se non lo sapessi! Come se non li avessi visti!
E come se non stessi vedendo, adesso, il suo sguardo. Beffardo, ironico, da primo della classe. Come sempre.
Prima ancora che la mente avesse elaborato il gesto, il grosso bastone che mi ero portato roteò.
L’impatto con la testa di Daniele fu secco e violento e mi destò da un oblio di pochi secondi.
Cazzo! E adesso??
Dovevo finire il lavoro o avrei passato guai ben peggiori che vedere la mia amata tra le braccia del perfettino di turno.
Il bastone si alzò e colpì di nuovo.
Daniele incassò senza riuscire a contrastarmi. Ero più grosso, è vero, però lui era più atletico.
Forse la ragione per cui non si difese fu un’altra. Non se lo aspettava. Da me.
In fondo, io ero quello goffo, timido e buono. Ed ero suo amico.
Mi sembrò di non avergli fatto troppo male, ma lui barcollò. Aveva gli occhi sbarrati e un rivolo scarlatto gli usciva dalle orecchie e dal naso. Gli solcava il fianco e gocciolava sul terreno, raccogliendosi in una pozza vermiglia.
Girò su sé stesso un paio di volte, come le bamboline dei carillon, e poi si afflosciò sulla riva umida del fondone.
Dalla borsa che avevo portato presi un pezzo di corda. Feci un cappio e glielo infilai al collo.
Dall’altro capo legai una grossa pietra. E cominciai a spingere.
Ad un tratto il corpo si mosse. Daniele ebbe un sussulto e farfugliò qualcosa. Merda! Era ancora vivo!
Apriva e chiudeva la bocca, schiacciava la lingua tra i denti e spruzzava goccioline di saliva, emettendo un lamento distorto, simile ad un miagolio proveniente da una dimensione arcana.
Avvicinai la mia faccia alla sua e sentii che respirava. Mi bloccai.
Ma se la torta è già stata tirata fuori dal forno, non è che ce la si può rimettere. Neanche se, all’improvviso, sembri fare più schifo di un gatto morto.
“Ce l’ho fatta, Paolo! Benedetta è mia!”.
Spinsi con più forza e Daniele piombò in acqua, con un tonfo sordo, e scomparve, giù, nelle buie profondità melmose e putride.
Presi la sua bici, la canna da pesca, il cestino e macinai circa un chilometro sulla sterrata verso valle, fino alla spiaggetta della cascata. Là depositai tutto in bella vista e me ne tornai a piedi al fondone attraverso i campi. Recuperai la mia bici e filai a casa.
Ormai il sole era tramontato e nessuno si accorse di nulla. Sul tardi, vennero a bussare anche a casa mia, ma io dissi che, quella sera, me ne ero rimasto al bar e Daniele non l’avevo proprio visto.
Quando trovarono le sue cose giù alla spiaggetta, fecero due più due e smisero di fare domande.
Da allora ho passato tutto il tempo a fingere che non sia mai successo nulla, a non far trapelare niente all’esterno. A seppellire quella storia sotto una roccia bella grossa. Dio santo! Sono passati quasi quaranta anni e non ho mai detto niente a nessuno, ovviamente. Ho rimosso, cancellato e davvero ricordavo poco di quei momenti. Oggi sono più vecchio, più grasso, sempre timido, però un po’più furbo. Ma quando Mario mi ha raccontato quella cosa tutto è tornato a galla, come se fosse successo solo ieri.
Ora è tardi, sono le undici passate. La grande notte padana vibra nel gracidio delle rane e nel fruscio del granoturco e incombe con le sue fauci spalancate. Il cielo è un tappeto cosparso di stelle, talmente perfetto che sembra fatto di cartapesta. La luna è piena, ottima per lupi mannari, vampiri e per quelli come me che non riescono a dormire. Risplende di una luce sovrannaturale e tinge ogni cosa con una meravigliosa ombra bianca.
Un vento spavaldo si sguinzaglia per le vie del paese e soffia sui lampioni. A tratti sembra quasi volerli spegnere, come candeline di un’immensa torta fatta di buio. Si incunea tra i rami degli alberi e fa lo stesso rumore di una cascata. Rumoreggia, come onde sulla scogliera e grida spargendo la polvere dei campi.
Assaporo questo attimo di pace. Un attimo, forse l’ultimo, dove tutto è fermo, dove un minuto può durare una vita e la notte può passare in un istante e vorrei tanto che fosse sempre così. Il latrare lontano di un cane mi scuote. In questa spessa coltre di tranquillità riecheggia come un verso di un antico dinosauro.
Le poche luci, ancora accese, nelle case risaltano come lucciole che si rincorrono su di un prato sconfinato.
Il caldo è opprimente, lo sento agitarsi come un serpente sotto la pelle. Raschia le pupille come polvere di vetro e fa rimpiangere l’ombra fresca sugli argini, sotto i salici. Sa di erba e di terra, ma, se respiro a fondo, posso sentire anche l’odore di qualcos’altro. Non riesco a definirlo bene, ma non mi piace.
Ruggisce la belva che si dimena dentro il mio stomaco. Ruggisce e morde. Cerco di mandare giù i farinosi rimasugli di Maalox ancora appiccicati alla lingua e mi chiedo cosa succederà domani.
La situazione è critica. Le voci in paese sono diventate tante e la gente comincia a guardarmi storto.
I Carabinieri, praticamente inutili in questo buco di paese, dove non succede mai niente, ora si stanno facendo vedere in giro un po’troppo spesso.
Ma non è questo il problema.
Anche se ho passato la cinquantina sono ancora abbastanza forte per distribuire qualche sana sventola a chi decide di tenere la lingua troppo lunga. E che i Carabinieri girino pure. Tanto non hanno prove.
Il problema è che da un paio di settimane, di notte, sento bussare alla porta.
E al mattino in cortile trovo sempre una striscia fangosa, disseminata di alghe nerastre e viscide e brandelli di qualcosa di fradicio, che non profuma esattamente di Eau de Chanel.
Forse è qualche figlio di puttana che si diverte a farmi gli scherzi.
Forse no.
Il fatto è che non lo so più neanch’io.
E non so nemmeno fino a quando potrò andare avanti così. A contare le ore, i minuti, lunghi come gocce distillate di sudore e sofferenza che scivolano via con lentezza insopportabile. Avvinghiato come un vampiro al collo di una bottiglia che spacca lo stomaco e frantuma il cervello, mentre il cuore batte come un tamburo nelle tempie e l’angoscia muta il sangue in schegge di vetro.
Alla fine ho stabilito di aver resistito abbastanza. Stanotte lo farò entrare.
Mi attaccherò alla bottiglia e ricorderò i miei giorni più belli. Quando ero più giovane, innocente, ed anche un piccolo paese del tubo perso tra i campi mi sembrava il paradiso terrestre.
Quando era d’estate. Quando non fa mai notte, quando si può stare fuori anche dopo cena. Fino a tardi. Quando ci si siede tranquilli sulla striscia d’asfalto deserta a giocare col gatto e le falene, mentre l’aria tiepida è una carezza che sa di zampironi e di fiori. Quando le rane cantano la loro serenata alla luna e le stelle cadenti giocano a bowling con quelle rimaste appese nel cielo color carbone.
E quello che Daniele mi farà, me lo farà mentre sorrido.
L’aria soffia lenta ed è fuoco sulla pelle. Pettina le risaie e solleva aromi aspri di sterpaglie secche ed alghe putride in agonia sul fondo fangoso di mille fossi.
La inspiro lentamente e la ributto fuori con forza mentre i pioppi si innalzano come lingue di fuoco su di un cielo che brucia di vortici di seta e nuvole bianche e vaporose si inseguono come cadaveri decomposti portati a valle da un fiume in piena.
Riannodo i fili del pensiero e li fisso su di un panorama lontano. I ricordi corrono nella polvere che danza e non cessano di urlare. Li cerco, li accarezzo pizzicando le corde dell’anima con il plettro della memoria e la storia diventa immagine davanti a me.
Era d’estate. Quando non fa mai notte, quando si può stare fuori anche dopo cena. Fino a tardi. Quando ci si siede tranquilli sulla striscia d’asfalto deserta a giocare col gatto e le falene, mentre l’aria tiepida è una carezza che sa di zampironi e di fiori. Quando le rane cantano la loro serenata alla luna e le stelle cadenti giocano a bowling con quelle rimaste appese nel cielo color carbone.
Era d’estate. Quando Daniele sparì.
L’allarme scattò intorno a mezzanotte. Lo cercarono dappertutto e fu una notte drammatica, quella. All’alba trovarono la bici, il cestino e la canna da pesca giù al fiume, sulla spiaggetta della cascata.
I sommozzatori, invece, non trovarono nulla e dopo un paio di giorni a setacciare acqua se ne andarono.
Era d’estate e faceva caldo. Molto caldo. Ma non il caldo africano di oggi e in inverno nevicava e pioveva forte. Oggi piove poco e nevica ancora meno e l’emergenza idrica è sempre lì, dietro l’angolo. Ma allora no. La portata del fiume, da Giugno a Settembre, non calava granché e certe disattenzioni potevano costare molto care.
Daniele non c’era più. Sparito. Non sembrava vero.
Non poteva essere successo davvero. Proprio a lui che era il più giudizioso. Che se ne stava sempre lontano dai pericoli, mentre noi eravamo perennemente fradici e ci accendevamo come cerini, strisciando sull’asfalto, dopo perenni acrobazie mal riuscite sulle bici.
Proprio a lui, sempre pulito ed educato, quando noi, di solito, assomigliavamo agli Aborigeni australiani coperti di fango per la danza rituale e il nostro vocabolario era anche peggiore di quello degli scaricatori di porto.
Crescendo, le cose non cambiarono.
Nel periodo in cui si esce dall’età del gioco e l’infanzia sta per diventare un ricordo, Daniele era una spanna avanti a tutti. Inutile girarci intorno. Quando le ragazze appaiono sotto una luce diversa e l’aria calda e i profumi delle piante, la sera, diventano così forti, cosi particolari, da dare alla testa e alzare la pelle, e non solo quella, Daniele restava sempre la personalità dominante.
Lui più snello ed atletico, io più grasso e cronicamente impacciato. E se al campetto riuscivo qualche volta a levare un pallone dal sette, mentre lui non riusciva neanche a dribblare una sedia, nessuno lo notava.
Perché lui era più intraprendente, sempre al centro dell’attenzione. Il più brillante, capace di essere tutto, che aveva sempre la battuta pronta e con le ragazze ci sapeva fare, fondendo in un mix divino ironia, dolcezza e romanticismo, mentre io ero proprio una frana, taciturno, divorato dalla timidezza e sempre con la testa tra le nuvole a rincorrere chissà quali sogni d’amore.
Era d’estate e, quella sera, in un attimo, Daniele si era giocato tutto. Anche Benedetta.
Vedere Benedetta per me era come affacciarsi da una balconata altissima su di un paesaggio stupendo. Un senso di vertigini senza fine prendeva la mente e lo stomaco e costringeva ad aggrapparsi a quel balcone con entrambe le mani per resistere alla tentazione di annullarsi.
E i suoi occhi….Dio mio….i suoi occhi erano come perle antiche che emanavano un chiarore di alba. Grigi, con tracce verdi e azzurre, come l’oceano in burrasca, più intensi degli astri che bruciano sulla volta celeste.
Ma contro Daniele non c’era partita. Era come voler battere una Ferrari cavalcando una bicicletta sgonfia.
Daniele si prese Benedetta e a me restarono solo i sogni e tanto silenzio dentro.
Da allora sono passati milioni di anni e un po’ di cose sono cambiate.
Un paio d’anni dopo Benedetta si trasferì in città per frequentare l’università e finì per sposarsi con un compagno di corso.
Io sono rimasto solo. Chiuso ed introverso, come sempre. Il tempo che passa ha intaccato i miei sogni e la realtà ha cambiato il mio mondo perfetto. Nessuna relazione stabile: semplicemente non sono mai riuscito a sbloccarmi. Solo qualche avventura fugace qua e là, più per scommessa che per amore vero.
Daniele non lo hanno più trovato.
Chissà dove si è infilato il suo corpo. Portato a valle dalla corrente, incastrato tra le radici vicino alla riva, o magari sotto la sabbia. Oppure sul fondo del fiume.
Anche il paese è cambiato.
Tutte le case adesso hanno l’antenna e parecchie pure la parabola. Stamberghe rudi e fredde, scrostate e macilente, di un tempo sono diventate abitazioni dignitose, piccole isole di comfort persino belle a vedersi. Le letamaie si sono trasformate in aiuole multicolori e i pollai ora servono per metterci le auto.
Hanno rifatto le strade e al vecchio bar adesso si possono fare anche le fotocopie.
Ma il fiume è rimasto sempre lo stesso.
Sempre cupo e solenne scorre giù, in fondo ai campi, cullato dai mulinelli che trascinano sul fondo schiuma e foglie, sfiorando rive deserte irte di rovi e grigie spiagge calpestate da aironi solitari.
E anche le anse e le golene sono ancora là. Inviolate e deserte. E silenziose.
Ma con questo caldo, che azzanna alla gola e prosciuga anche l’anima, il livello dell’acqua è sceso parecchio.
E, chissà come, sono cominciate a circolare strane voci.
Qualcuno ne ride, qualcuno bisbiglia, ma qualcun’altro evita di prendere la strada dell’argine se non nei giorni di pieno sole e, comunque, sempre nelle ore centrali.
Deve essere stato Mario ad accendere la miccia.
Mario non è vecchio, ha solo un anno più di me, e non né neanche rincoglionito.
E’ che da quando è stato sbattuto in cassa integrazione ha molto più tempo libero per andare a pescare.
E lo ha visto.
E, adesso, ha paura.
Mario, che è ancora capace di alzare un armadio con due sole dita, non esce più di casa.
Un Sabato pomeriggio andai a trovarlo.
Lo trovai tappato in una cucina trasformata in altoforno, con tutte le tapparelle abbassate, a bere qualcosa che doveva essere birra ma che assomigliava più ad una palude africana.
Aveva gli occhi spiritati e la sua faccia era bianca come uno straccio vecchio dimenticato nella candeggina. Sono abbastanza avanti con gli anni per saper riconoscere lo sguardo di chi ha alzato troppo il gomito e di chi, invece, è spaventato. E Mario non mi sembrava proprio ubriaco.
Ma che proprio lui, così grande e grosso, avesse paura di qualcosa mi suonava nuovo.
Pensai che mi fossi sbagliato, che si fosse veramente preso una fottuta sbornia ma, quando iniziò a parlare, le sue parole mi piombarono addosso come un treno in corsa e fecero impallidire di colpo l’ISIS, Al Qaeda e tutte le altre boiate sul terrorismo mondiale.
Quello che mi disse mi riportò indietro di quasi quaranta anni.
“Paolo, porca troia…..credimi….non sono ubriaco….!!”.
Gli dissi di calmarsi ed abbassare la voce, che si sentiva fino in piazza.
“L’altro giorno sono andato a pescare….giù all’ansa di Schivanoia….e lui….e lui….”.
Si interruppe e mi fissò. I suoi occhi ora erano vuoti, persi dietro a pensieri troppo nascosti e il suo volto sembrava quello di una statua di un santo in una chiesa gremita. Stringeva il bicchiere con tale forza che le nocche affiorarono bianche sotto la pelle. L’altra mano la posò sulla mia spalla. Sentii che tremava. Cazzo, per ridurre così uno come Mario ce ne vuole!
“Lui…? Lui chi??”, mi informai perplesso.
“DANIELE!! Era lì sulla riva del fondone che mi aspettava….Dio mio….dovevi vedere come era ridotto!! Era disfatto, marcio e….divorato dai pesci….CAZZO….UNO SCHELETRO….!! I capelli c’erano ancora ma….erano appiccicati al teschio….e….oh Signore Gesù! Le ossa….le ossa! Le ossa erano coperte di fanghiglia nera e alghe...e….”.
“DANIELE?? MA COSA CAZ….”.
“Si, era lui!! E….e….me lo ha detto!!”.
“Vacca boia, Mario, tu stai troppo alzato di notte a vedi troppi film!!”.
“No, Paolo, Dio Santo, sono sicuro!! ERA LUI!!”
Dentro di me cominciava a gonfiarsi un brivido d’inquietudine. Cercai di scacciare quell’immagine dalla testa e di trovare qualcosa di rassicurante da dirgli, ma riuscii solo ad alterarmi di più. “Ma porca puttana, Mario, da quando in qua i cadaveri se ne vanno in giro a parlare alla gente….??!!”, urlai, “E poi, come cavolo fai a dire che era proprio Daniele, se era ridotto in quello stato?”.
Mario prese coraggio scolandosi altra birra. Ne bevve un boccale intero in un fiato.
“Me lo ha detto lui…..e.…mentre parlava….gorgogliava e….sputava denti e pezzi di carne….e….oh Dio aiutami….altri pezzi di carne e di pelle cadevano dal corpo….e….i girini….i girini che….!!”.
“TE LO HA DETTO LUI!!”, lo interruppi bruscamente, “Mario, per Dio, ma tu sei complet….”.
“TI GIURO CHE E’ COSI’!! Ma…cosa diavolo c’entro io?? Perché ci devo andare di mezzo io??”.
Mario iniziò a piangere. Mi avvicinai con la sedia.
“Andare di mezzo tu? E per cosa?”, gli dissi con il tono di voce più calmo che riuscii a produrre.
“Perché mi ha detto di dirti….che….un giorno di questi verrà a trovarti….che busserà alla tua porta….perché….perché….CAZZO PAOLO SEI STATO TU CHE.…!!!”.
“ADESSO BASTA!!”, gridai, pestando un tremendo pugno sul tavolo, “Tu hai bevuto troppo!! Piantala lì con la bottiglia e vai a farti una bella dormita!!”.
“No, ti dico che non ho bevuto!! E….lo ha visto anche il Franchino che tornava dai campi col trattore e….dopo…. quelli dell’Enel, che erano andati giù alla cabina….”.
Non avevo per niente voglia di assecondare i disturbi alcolici del mio amico. Lo mandai a quel paese e me ne andai sbattendo la porta, lasciandolo solo, in balia dei suoi deliri.
Come credergli? Da quando lo conosco, Mario si era sempre dimostrato affidabile e senza tanti grilli per la testa e chiunque volesse superarlo in lealtà sarebbe partito in netto svantaggio.
Però quella storia davvero non stava né in cielo né in terra. Scheletri che parlano…..ma come cazzo si fa….!!
Arrivai a casa di corsa, con in corpo una strana sensazione, poco piacevole, simile ad un rigurgito acido che non trova la strada, mentre residui di memoria si affacciavano repentini per poi svanire subito.
Il grande sole stemperava un forte alone cremisi sull’orizzonte di cobalto, riempiendo di fatui bagliori il paesaggio uniforme e sonnacchioso dell’immensa pianura. Macchie sanguigne di papaveri risaltavano sul giallo accecante dei campi di grano mentre il verde brillante dei trifogli ed i piccoli fiori viola dell’erba medica spruzzavano la tavolozza della natura.
Era ora di cena e, in giro, ormai, non c’era più nessuno.
Proprio come quella sera.
Era d’estate, e io avevo trangugiato tutto in fretta, come al solito, per potermene uscire prima.
Fu un caso fortuito, una dannata coincidenza. Come aprii la porta intravidi Daniele in fondo a via Roma, a cavallo della bici, con canna da pesca e cestino, che prendeva la strada dell’argine.
Dopo il mulino abbandonato c’era l’ansa di Schivanoia. Con il suo fondone. Un buco pauroso, profondissimo, che si raggiungeva solo dopo aver attraversato un immenso pioppeto.
Immaginavo ci sarebbe andato. Ci andava spesso a pescare là, di sera.
Sulle prime non ci badai più di tanto ma poi, rapida e dolorosa come una freccia infuocata, l’istantanea di Benedetta, i lunghi capelli neri pettinati dal vento dietro le spalle come una vela, incollata a Daniele, saettò e si piantò dritta nel cervello.
Tutto avvenne in un attimo. L’attimo che passa tra il momento in cui la scena di loro due abbracciati irruppe a tradimento nella mia mente, tagliandomi il respiro, e il momento in cui decisi di prendere quello che mi serviva.
Lasciai passare una decina di minuti. Poi saltai sulla bici e lo seguii.
Quando arrivai al fondone stava già pescando.
Il sole scoloriva in un tramonto che sapeva di sabbia fine e dorata e l’acqua del fondone, scura e torbida, puzzava di alghe e nafta.
Scesi sul ciglio. Daniele riavvolse la lenza e sorrise.
Mi disse che doveva rivelarmi una cosa.
Era una cosa che già conoscevo. Mi mancava solo il particolare, non indifferente, di sentirmela dire in faccia.
“Ce l’ho fatta, Paolo! Benedetta è mia!”.
Mandai giù un grumo di saliva che sapeva di petrolio.
“Ieri sera, in piazza….mi ha dato un bacio! Lo capisci? Un bacio, lungo e….”.
Come se non lo sapessi! Come se non li avessi visti!
E come se non stessi vedendo, adesso, il suo sguardo. Beffardo, ironico, da primo della classe. Come sempre.
Prima ancora che la mente avesse elaborato il gesto, il grosso bastone che mi ero portato roteò.
L’impatto con la testa di Daniele fu secco e violento e mi destò da un oblio di pochi secondi.
Cazzo! E adesso??
Dovevo finire il lavoro o avrei passato guai ben peggiori che vedere la mia amata tra le braccia del perfettino di turno.
Il bastone si alzò e colpì di nuovo.
Daniele incassò senza riuscire a contrastarmi. Ero più grosso, è vero, però lui era più atletico.
Forse la ragione per cui non si difese fu un’altra. Non se lo aspettava. Da me.
In fondo, io ero quello goffo, timido e buono. Ed ero suo amico.
Mi sembrò di non avergli fatto troppo male, ma lui barcollò. Aveva gli occhi sbarrati e un rivolo scarlatto gli usciva dalle orecchie e dal naso. Gli solcava il fianco e gocciolava sul terreno, raccogliendosi in una pozza vermiglia.
Girò su sé stesso un paio di volte, come le bamboline dei carillon, e poi si afflosciò sulla riva umida del fondone.
Dalla borsa che avevo portato presi un pezzo di corda. Feci un cappio e glielo infilai al collo.
Dall’altro capo legai una grossa pietra. E cominciai a spingere.
Ad un tratto il corpo si mosse. Daniele ebbe un sussulto e farfugliò qualcosa. Merda! Era ancora vivo!
Apriva e chiudeva la bocca, schiacciava la lingua tra i denti e spruzzava goccioline di saliva, emettendo un lamento distorto, simile ad un miagolio proveniente da una dimensione arcana.
Avvicinai la mia faccia alla sua e sentii che respirava. Mi bloccai.
Ma se la torta è già stata tirata fuori dal forno, non è che ce la si può rimettere. Neanche se, all’improvviso, sembri fare più schifo di un gatto morto.
“Ce l’ho fatta, Paolo! Benedetta è mia!”.
Spinsi con più forza e Daniele piombò in acqua, con un tonfo sordo, e scomparve, giù, nelle buie profondità melmose e putride.
Presi la sua bici, la canna da pesca, il cestino e macinai circa un chilometro sulla sterrata verso valle, fino alla spiaggetta della cascata. Là depositai tutto in bella vista e me ne tornai a piedi al fondone attraverso i campi. Recuperai la mia bici e filai a casa.
Ormai il sole era tramontato e nessuno si accorse di nulla. Sul tardi, vennero a bussare anche a casa mia, ma io dissi che, quella sera, me ne ero rimasto al bar e Daniele non l’avevo proprio visto.
Quando trovarono le sue cose giù alla spiaggetta, fecero due più due e smisero di fare domande.
Da allora ho passato tutto il tempo a fingere che non sia mai successo nulla, a non far trapelare niente all’esterno. A seppellire quella storia sotto una roccia bella grossa. Dio santo! Sono passati quasi quaranta anni e non ho mai detto niente a nessuno, ovviamente. Ho rimosso, cancellato e davvero ricordavo poco di quei momenti. Oggi sono più vecchio, più grasso, sempre timido, però un po’più furbo. Ma quando Mario mi ha raccontato quella cosa tutto è tornato a galla, come se fosse successo solo ieri.
Ora è tardi, sono le undici passate. La grande notte padana vibra nel gracidio delle rane e nel fruscio del granoturco e incombe con le sue fauci spalancate. Il cielo è un tappeto cosparso di stelle, talmente perfetto che sembra fatto di cartapesta. La luna è piena, ottima per lupi mannari, vampiri e per quelli come me che non riescono a dormire. Risplende di una luce sovrannaturale e tinge ogni cosa con una meravigliosa ombra bianca.
Un vento spavaldo si sguinzaglia per le vie del paese e soffia sui lampioni. A tratti sembra quasi volerli spegnere, come candeline di un’immensa torta fatta di buio. Si incunea tra i rami degli alberi e fa lo stesso rumore di una cascata. Rumoreggia, come onde sulla scogliera e grida spargendo la polvere dei campi.
Assaporo questo attimo di pace. Un attimo, forse l’ultimo, dove tutto è fermo, dove un minuto può durare una vita e la notte può passare in un istante e vorrei tanto che fosse sempre così. Il latrare lontano di un cane mi scuote. In questa spessa coltre di tranquillità riecheggia come un verso di un antico dinosauro.
Le poche luci, ancora accese, nelle case risaltano come lucciole che si rincorrono su di un prato sconfinato.
Il caldo è opprimente, lo sento agitarsi come un serpente sotto la pelle. Raschia le pupille come polvere di vetro e fa rimpiangere l’ombra fresca sugli argini, sotto i salici. Sa di erba e di terra, ma, se respiro a fondo, posso sentire anche l’odore di qualcos’altro. Non riesco a definirlo bene, ma non mi piace.
Ruggisce la belva che si dimena dentro il mio stomaco. Ruggisce e morde. Cerco di mandare giù i farinosi rimasugli di Maalox ancora appiccicati alla lingua e mi chiedo cosa succederà domani.
La situazione è critica. Le voci in paese sono diventate tante e la gente comincia a guardarmi storto.
I Carabinieri, praticamente inutili in questo buco di paese, dove non succede mai niente, ora si stanno facendo vedere in giro un po’troppo spesso.
Ma non è questo il problema.
Anche se ho passato la cinquantina sono ancora abbastanza forte per distribuire qualche sana sventola a chi decide di tenere la lingua troppo lunga. E che i Carabinieri girino pure. Tanto non hanno prove.
Il problema è che da un paio di settimane, di notte, sento bussare alla porta.
E al mattino in cortile trovo sempre una striscia fangosa, disseminata di alghe nerastre e viscide e brandelli di qualcosa di fradicio, che non profuma esattamente di Eau de Chanel.
Forse è qualche figlio di puttana che si diverte a farmi gli scherzi.
Forse no.
Il fatto è che non lo so più neanch’io.
E non so nemmeno fino a quando potrò andare avanti così. A contare le ore, i minuti, lunghi come gocce distillate di sudore e sofferenza che scivolano via con lentezza insopportabile. Avvinghiato come un vampiro al collo di una bottiglia che spacca lo stomaco e frantuma il cervello, mentre il cuore batte come un tamburo nelle tempie e l’angoscia muta il sangue in schegge di vetro.
Alla fine ho stabilito di aver resistito abbastanza. Stanotte lo farò entrare.
Mi attaccherò alla bottiglia e ricorderò i miei giorni più belli. Quando ero più giovane, innocente, ed anche un piccolo paese del tubo perso tra i campi mi sembrava il paradiso terrestre.
Quando era d’estate. Quando non fa mai notte, quando si può stare fuori anche dopo cena. Fino a tardi. Quando ci si siede tranquilli sulla striscia d’asfalto deserta a giocare col gatto e le falene, mentre l’aria tiepida è una carezza che sa di zampironi e di fiori. Quando le rane cantano la loro serenata alla luna e le stelle cadenti giocano a bowling con quelle rimaste appese nel cielo color carbone.
E quello che Daniele mi farà, me lo farà mentre sorrido.
Opera scritta il 26/08/2020 - 14:38
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Voto: | su 2 votanti |
Commenti
Caro Mirko, allora ti ringrazio due volte! Gli apprezzamenti ti fanno andare avanti, così come le critiche ti fanno migliorare.
Paolo Guastone 28/08/2020 - 08:56
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Complimenti per questo racconto e per il riconoscimento a quello di luglio
Mirko D. Mastro(Poeta) 27/08/2020 - 16:43
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Ti ringrazio Grazia per esserti sofrfermata a leggere queste righe. Sono contento che il racconto ti sia piaciuto.
Paolo Guastone 27/08/2020 - 08:53
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Grazie Anna Maria per il bel commento. Certe volte penso di focalizzarmi troppo su aspetti meno importanti. Però vedo che a volte serve.
Paolo Guastone 27/08/2020 - 08:52
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Scritto molto bene con dialoghi efficaci che rendono il dramma e la paura.
Grazia Giuliani 26/08/2020 - 18:15
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Drammatico racconto scritto molto bene; Efficace descrizione del’’ambiente fluviale e ben rese le emozioni del protagonista.
Anna Maria Foglia 26/08/2020 - 15:49
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