Con uno scatto improvviso Franchino girò il polso, l’omino ruotò e sparò una cannonata micidiale che fulminò Mario sul posto. La pallina schizzò e si infilò come un razzo nella porta, accompagnata da un suono metallico cupo e dalle grida di giubilo dei presenti.
Carlone, con il dito, fece scorrere un altro dado sul segnapunti e poi disse con un tono vagamente sarcastico e condito dal cinismo di uno sciacallo: “E adesso….cosa volete fare?”.
Bella domanda. Quella pallina era l’ultima. Game over.
Non solo avevamo perso, ma a stracciarci erano stati Carlone, Franchino e Giacchetta. Quelli erano ragazzi più grandi che bevevano birra, fumavano e portavano in giro le ragazze sul motorino.
Ma non era quello il problema. Perdere a calciobalilla contro i più grandi ci poteva anche stare: di solito, bastava accettare la sconfitta, ed incassare, a denti stretti, qualche sfottò.
Il problema era che li avevamo sfidati noi. O meglio, li avevano sfidati, a mia insaputa, quelle due emerite teste vuote di Mario e Adolfo ed avevano tirato dentro anche me. Roba da tirare il collo a tutti e due.
Come se non bastasse, i due premi Nobel, praticamente convinti di avere già la vittoria in tasca, ci avevano pure scommesso sopra: un giro sui motorini contro una penitenza che i grandi avrebbero deciso al momento.
Ma si poteva essere così deficienti?
E così ora eravamo tutti e tre in balia dei vincitori. Che non aspettavano altro.
Se non volevamo prendere una manica di botte ed essere derisi a vita da tutto il paese, ragazze comprese, dovevamo accettare senza fiatare tutto quello che sarebbe uscito dalle loro bocche.
Quei tre erano noti per essere dei bulli attaccabrighe e per raggiungere vette inesplorate di acida cattiveria. Qualsiasi penitenza ci avrebbero imposto ce la saremmo ricordata per anni.
Altro che sfottò….
“Dunque vediamo….”, sospirò Franchino, posando su di noi il suo tipico sguardo da Torquemada, “Visto che è estate e fa caldo, direi che ci vuole proprio un buon bagno ristoratore….”.
Solo un bagno? Tutto sommato poteva andarci peggio.
“In…mutande…?”.
“No, vestiti!”.
Anche con i vestiti addosso un bagno non sembrava una penitenza così orribile. Perché quei tre si fermavano a così poco?
“Nel…canale….?”.
“No!”.
“Nel….fiume…?”.
“Neanche…”.
Cominciai a pensare che ci fosse sotto qualcosa.
“In qualche fosso qui intorno…?”.
“Neppure”.
“E allora…dove…?”.
“Nella vasca dei liquami della stalla di Broggi!”.
Svenni praticamente all’istante e qualcuno ebbe l’accortezza di tenermi per le braccia altrimenti sarei franato a peso morto sul pavimento.
Broggi aveva più di duecento bestie e la vasca dei liquami della sua stalla era grande come una piscina olimpionica. Altro che per anni, sguazzare in mezzo a tonnellate di piscio e letame ce lo saremmo ricordati per tutta la vita!
Mario e Adolfo stavano facendo tutti gli sforzi possibili per non scoppiare a piangere. Io non ce la feci. Le mie budella si contorsero e la prima lacrima che scese lungo la guancia sembrò scorrere sul mio cuore, tagliandolo come una lama.
Durante le mie vacanze in campagna, quando tutto si veste di estate e la fronte è sempre madida ma si asciuga con il fervore di correre e scoprire, avevo sperimentato praticamente di tutto, con ferite e cicatrici conseguenti. Ma questo non mi aveva mai scalfito, perché faceva parte dell’estate. Anzi, era l’estate stessa e laggiù, lontano dalla città e dalle catene della scuola, era tutta la mia vita.
Ma per affrontare la penitenza imposta da Franchino non sarebbe bastato.
Non ce l’avrei mai fatta ad entrare in quella vasca.
Mi guardai intorno per cercare una via di fuga. Non ce ne erano: l’unico modo per scampare la penitenza era finire sotterrati di botte e additati per sempre al pubblico scherno.
E non mi sembrava una soluzione praticabile.
Ebbi la consapevolezza di essere arrivato al capolinea. Imprecai mentalmente. Cercai di pensare in fretta ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad immaginarmi un modo per uscirne senza mettere in discussione la nostra integrità fisica e la nostra dignità.
Valutai anche l’ipotesi di aggredire quei tre di sorpresa. A quel punto il coraggio non mi sarebbe mancato. Ma quelli erano più grandi e non erano proprio dei pivelli. Sarebbe stato un suicidio.
Seduti ad un tavolo lì accanto, due avventori stavano chiacchierando tra cadaveri di bottiglie vuote.
Captai al volo uno spezzone di quella conversazione e subito dai cassetti della memoria, quelli con l’etichetta “frasi ad effetto”, per intenderci, o meglio ancora “botte di culo pazzesche”, sgattaiolò fuori l’idea.
D'altra parte, in paese, non si parlava d’altro.
Allora presi fiato e tentai il tutto per tutto.
“La vasca no!”, urlai, “Piuttosto….il fantasma!”.
Il caos che regnava dentro il bar cessò di colpo.
Le chiacchiere si zittirono, i bicchieri smisero di tintinnare, i dadi di rotolare, i giocatori rimasero paralizzati nell’atto di calare le carte sul tavolo, i bevitori si bloccarono con il bicchiere a mezz’aria o incollato alle labbra, Bruno, il barista, continuò a riempire un bicchiere noncurante del vino che stava traboccando sul pavimento, le sigarette smisero di fare fumo e si smorzò in un sussurro tiepido l’eco di risa ed imprecazioni.
Qualcuno giurava che, di sera, passando accanto al cimitero, si udissero dei lugubri lamenti.
Qualcun altro era certo che i lamenti provenissero dalla cappella del conte De Bernardis, morto più di un secolo prima. Sul conte De Bernardis se ne dicevano di ogni, che ne facevano ai nostri occhi un soggetto molto attuale: donnaiolo impenitente, bestemmiatore, baro e debitore moroso ed insolvente. Un “grande” quindi, un contestatore d’altri tempi, per noi. Per i più vecchi, invece, era l’Anticristo in persona, capace di fare ancora paura dopo più di cento anni.
Lo aveva detto persino Don Alfredo a Messa: l’anima del conte non trovava pace perché stava patendo le pene dell’inferno a causa della vita dissoluta che aveva condotto.
I più, ovviamente, non ci credevano ma parecchi altri sì e, a quel tempo, tanto bastò per creare in paese la leggenda del fantasma.
“Bella forza!”, ribatté piccato Franchino, “Lo sanno tutti che il fantasma non esiste!”.
“Non è vero!”, fece una voce dal fondo del locale.
“Sono solo fantasie di chi alza troppo il gomito!”, urlò Carlone il cui cervello, evidentemente, doveva avere qualche problema con la manopola dell’audio.
“No, io l’ho sentito con le mie orecchie e non avevo bevuto!”, disse qualcun altro.
“Ma va!”, rispose Giacchetta, “E’ uno scherzo di qualche buontempone!”.
“E allora….”, proposi ai tre bulli, “Se siete così sicuri che il fantasma non esiste, perché non venite anche voi?”.
Giacchetta sbiancò e Carlone assunse l’espressione di uno che ha appena ricevuto un calcio nel basso ventre ed ostenta indifferenza. Franchino trattenne il respiro, che poi buttò fuori di colpo chiudendo seccamente la questione: “Voi avete perso e voi sconterete la penitenza! Per me va bene anche il fantasma, quindi scegliete alla svelta: o quello o la vasca!”.
Ero contento come un vaso di porcellana gettato dal quinto piano. Il cimitero non suscitava allegria già di suo e pensare di entrarvi di notte a cercare un fantasma faceva collassare tutti gli organi interni.
Ma con l’altro piatto della bilancia colmo di letame c’era poco da scegliere. “Vada per il fantasma….”, risposi, mentre Mario e Adolfo svennero e, dato che nessuno li sorresse, franarono a peso morto sul pavimento.
Franchino sciolse l’assemblea. “Bene, domani sera vi presenterete qui e tutti insieme andremo al cimitero. Poi voi tre entrerete a vedere se il fantasma esiste!”.
Il bar riprese a respirare tra rumore di bicchieri, fumo, urla e tante bestemmie.
“E sapete già cosa succederà se non verrete!”, urlò di nuovo Carlone, mentre stavamo uscendo. “Prenderete un sacco di legnate e diventerete per sempre le femminucce, i cagasotto, i conigli….e tutto il paese vi prenderà per i fondelli per l’eternità!”, poi chiuse la questione con una risata che sembrava più il sibilo di un motore a due tempi ingolfato.
La sera dopo, quando mi presentai al bar, i tre bulli erano già là, con tanto di ragazze al seguito. Anche Mario e Adolfo erano arrivati prima di me. Mario se ne stava piantato sul ciglio di via Roma, come uno spaventapasseri, con lo sguardo perso nell’immensità dei campi e l'espressione di un tacchino a cui hanno appena spiegato cosa succederà a Natale. Il suo respiro era impazzito. Inspirava ed espirava come un toro pronto alla carica.
Adolfo, nel frattempo, era sgattaiolato dentro al bar e, per darsi coraggio, si era riempito di gazzosa fino agli occhi. Quando uscì assomigliava ad una mongolfiera e più che camminare fluttuava a mezz’aria.
Nel cielo i pipistrelli avevano ormai sostituito le rondini. Con la morte nel cuore ed il fiato corto ci avviammo verso il cimitero, seguiti dai bulli con le ragazze, tuffandoci dentro una notte così limpida e cristallina che quasi sconvolgeva i sensi di chi stava a contemplare il cielo, osservandone gli infiniti particolari.
Una vivida luna estiva pennellava d’argento i tetti delle case, scavandovi ombre profonde. Un leggero alito di vento faceva ondeggiare il granoturco come una vela verdeggiante e gli alberi che contornavano la strada ci guardavano passare facendo sussurrare le loro chiome.
Il vecchio cancello era chiuso, ma non a chiave. A quel tempo, ladri di rame, adepti di Satana fatti in casa e videosorveglianza non erano ancora stati inventati. Si aprì sui cardini arrugginiti producendo un cigolio sinistro che ci fece correre un brivido impercettibile lungo la schiena.
“Tu devi essere matto…”, sussurrò Mario una volta dentro.
“E voi no, eh? A sfidare proprio quei tre….ma cosa cavolo vi è saltato in…”.
“Si, ma hai idea del pasticcio in cui ci hai cacciati? Di notte, in mezzo alle tombe, al buio….sai che spasso!”.
“Non che tuffarsi nella vasca dei liquami sia tutta questa goduria…”, puntualizzai io, ma il mio tono aveva perso ogni ombra di ironia.
Quando vidi i vialetti deserti e silenziosi aprirsi davanti a me sotto la luce lunare, come venature riempite di tenebre, capii chiaramente che, quella notte, la vera prova sarebbe stata quella di affrontare due paure anziché una sola. Oltre alla mia, avrei dovuto combattere anche quella di Mario e Adolfo.
La cappella di famiglia del conte si trovava in fondo. Per arrivarci avremmo dovuto attraversare tutto il cimitero.
Il riverbero della luna emanava una tenue fosforescenza che, unita al fioco tremolio delle lampade votive, conferiva a lapidi e tombe un profilo incerto, infinitamente più spettrale dell’oscurità completa.
Una scia di sussurri ci seguiva, un corteo di ombre contorte si schierava in silenzio, qua e là, alle nostre spalle e sembrava ci fosse sempre qualcosa di ignoto in agguato, pronto a cogliere l'occasione per balzare fuori e scatenarsi.
Eravamo quasi a metà strada quando si levò il lamento.
Iniziò lentamente, soffuso e lieve, poi salì sempre più di intensità arrampicandosi in cielo come l’ombra di un ragno minaccioso, fino a penetrare nei pori della pelle con la forza di una cannonata.
Lo spavento si impossessò presto di me. Il lamento strisciava nell’aria senza fretta, con una crudeltà sottile. Sembrava voler squarciare la terra e il cielo con una lentezza melodica e compiaciuta. Penetrò nelle mie orecchie depositandovi una sensazione per niente piacevole.
Mi bloccai impietrito, trattenendo il fiato. Ebbi l'impressione che la spina dorsale mi si fosse svuotata e che qualcuno l’avesse riempita di ghiaccio. Mario gorgogliò, Adolfo rimase muto. La gazzosa che si dimenava nel suo stomaco gorgogliò per lui.
Non erano vaneggiamenti di ubriachi. Non era uno scherzo. Il lamento esisteva davvero.
Avrei voluto rimangiarmi le parole, ma ormai era troppo tardi. Valutai anche la possibilità di rinunciare e rinviare la prova, ma subito dopo la cancellai dalla mente. Non sarebbe stato salutare.
Il lamento proveniva proprio dalle cappelle in fondo al cimitero, dove le ombre della notte sembravano assieparsi e formare una gigantesca macchia nera. Avevo sempre pensato che la notte non fosse soltanto assenza di luce, ma presenza di qualcosa. Di forme di vita morenti, di spettri, di cose oscure venute dall’aldilà.
Non avevamo nè candele né tantomeno una torcia. In mezzo alle tombe, non c’era nemmeno un interruttore a portata di mano per dissipare l’oscurità.
E adesso c’era stato quel lamento.
“Non è niente, ragazzi…..”, rassicurai i miei amici, “Non può succederci niente, qui dentro. Ci sono solo i morti….”.
“Appunto…”, rispose Mario tremando, “Pensa se adesso decidono di usci…”.
Ancora quel lamento. E sempre nello stesso punto.
Cercai di classificarlo. Forse era un improvviso colpo di vento che aveva mosso qualcosa…ma cosa? Delle foglie? No, non erano foglie, quello era un rumore diverso, come se….
Di nuovo il lamento, stavolta più forte di prima.
Il mio cuore iniziò a martellare nel petto chiedendo udienza per uscire alla svelta da quel posto.
Avrei tanto voluto accontentarlo e scapparmene fuori anch’io e poi, magari, prendere l’autostrada per Giove e fanculo a tutti. Mario riprese a tremare mentre Adolfo lasciò che le sue paure continuassero a galleggiare tranquille nell’oceano frizzante di cui si era impregnato.
Mi guardai attorno, frugando tra le ombre, cercando di riconoscere le forme delle lapidi che vedevo quando entravo al cimitero di mattina, quando la luce del sole era viva, quando sapevo che nessun pericolo sarebbe spuntato dal nulla.
Il rumore ora era sparito. Tesi le orecchie per percepire il minimo suono, scandagliando la notte come un sonar in cerca di navi nemiche in pieno oceano. Un abbaiare lontano irruppe e si spense subito come una candela al vento notturno.
Proseguimmo verso il fondo, attraversando la zona più vecchia. Ora camminavamo più spediti e stavamo per arrivare alle cappelle quando riecheggiò ancora il lamento.
Proveniva proprio da un punto indefinito davanti a noi, in mezzo a quell’ammasso di tenebra che la luce lunare faticava a penetrare e che sembrava essersi chiusa addosso a noi come un coperchio di una bara.
Cercai di respirare a fondo, ma riuscii solo a tossire. Il cuore mi rimproverò di non averlo ascoltato.
“C’è…c’è…qualcuno?”, chiesi al buio davanti a noi, maledicendomi subito dopo per quella dimostrazione di debolezza. Se i tre bulli, anziché restare di guardia al cancello, fossero stati lì a spiarci ci avrebbero presi in giro per anni. “Ecco i conigli che se la fanno sotto dalla paura…!”, e giù a ridere.
Poco dopo arrivammo. Le cappelle erano davanti a noi e soffocavano sotto i rampicanti. I cancelletti erano arrugginiti, le pareti scrostate e i nomi di chi riposava là dentro non si leggevano quasi più.
La cappella della famiglia De Bernardis era la più grande. Ci avvicinammo cautamente, un passo alla volta, come se camminassimo su di un campo minato.
Il lamento si levò di nuovo e ci colse mentre posavamo le mani sulla maniglia del cancelletto.
Sentimmo il sangue trasformarsi in scaglie di vetro.
Con fatica riuscimmo ad entrare. Dentro la cappella c’era un odore di cantine dimenticate, dolciastro e pungente, e la sensazione di quiete e vertigine assoluta, come un corpo in bilico sull’abisso del nulla.
Eravamo dentro da pochi secondi quando, di colpo, ci fermammo pietrificati dal terrore. Dal fondo della cappella proveniva, inconfondibile nel silenzio, un sommesso rantolo misto ad un fruscio sinistro.
A tentoni ci spostammo verso il fondo, verso quei rumori che, ad ogni istante, si facevano più vicini.
Dopo pochi passi Mario inciampò, mi voltai per afferrargli il braccio e in quel preciso momento giunse di nuovo il lamento che, amplificato dai muri della cappella, si trasformò in un grido lacerante.
Ciò che udimmo ci tolse il fiato. Sentimmo i brividi della pelle d’oca serpeggiare lungo le braccia e la schiena e poi quel fastidio dietro la nuca, quella sorta di percezione che suggeriva una presenza, una presenza sgradita e inquietante, ma a quel punto si poteva solo andare avanti.
Incapaci di pensare lucidamente rimanemmo a fissare quel punto buio come ipnotizzati con gli occhi spalancati e quasi fuori dalle orbite, la bocca aperta in un grido soffocato e l’espressione di disperata paura scolpita nel volto.
Mario si riprese per primo, prese un paio di fiammiferi dalla tasca e li accese.
Non l’avesse mai fatto.
La luce era fioca e debole ma fu sufficiente per svelare il fantasma.
Restammo come in trance, con la voce strozzata in gola, tutti i peli e pelucchi ritti, e le gambe che stavano per cedere.
L’immagine del fantasma si rovesciò impietosa su di noi come una secchiata di catrame nero e denso.
Era proprio là, davanti a noi, ed era…
Era un grosso barbagianni, un esemplare magnifico, peraltro, che, evidentemente, aveva eletto la cappella abbandonata del conte come rifugio e se ne stava lì tranquillo, quasi infastidito dalla presenza di tre deficienti che, chissà perché, venivano ad invadere la sua tana.
E il lamento che avevamo sentito altro non era che il suo richiamo.
Cominciammo a ridere, prima silenziosamente poi sempre più forte, fino alle lacrime.
Tutta questa paura per niente. Non c’era assolutamente nulla di soprannaturale. Alla faccia dei creduloni e delle prediche del parroco, il fantasma, alla fine, non esisteva.
Lasciammo la cappella e il suo inquilino e ci avviammo verso l’uscita. Attorno, le ombre della notte avevano ormai preso possesso del cimitero, avviluppando lapidi e monumenti in un abbraccio freddo e spettrale.
Eravamo quasi arrivati al cancello quando scorgemmo delle ombre muoversi davanti a noi.
Cosa diavolo poteva essere? Fantasmi veri, stavolta? Morti usciti dalle tombe?
Proprio adesso che avevamo superato la prova.
Ci nascondemmo dietro una grossa lapide.
“Dove siete?”, risuonò una voce. Era Franchino.
“Venite fuori!”, urlò Carlone. Quella sera sembrava avesse il jack di un amplificatore infilato su da qualche parte.
Tirammo un sospiro di sollievo.
“Avete trovato il fantasma?”, gridò Giacchetta avvicinandosi.
Sfoggiando la migliore faccia di bronzo, stavamo per uscire dal nascondiglio e sbattere in faccia a quei tre la nostra scoperta, ma non ne avemmo il tempo.
La gazzosa che si stava contorcendo nello stomaco di Adolfo ebbe la meglio e Adolfo esplose.
Il gigantesco rutto che ne seguì proruppe con il fragore di un’atomica, facendo ondeggiare i fiori deposti sulle tombe lì accanto e propagando il fall-out sonoro per tutta la superficie del cimitero, fino ai campi circostanti. Più che un rutto sembrava il ruggito di una belva preistorica, l’urlo di un mostro aberrante ed abominevole, vomitato dagli abissi infernali più profondi, che nulla aveva di umano.
I tre bulli erano a pochi centimetri e rimasero letteralmente cristallizzati.
Vedemmo i loro capelli drizzarsi sulla testa, come una cresta, e l’espressione sfacciata e strafottente dei loro volti trasformarsi in una maschera di terrore puro, con occhi e bocca spalancati.
Si guardarono attoniti, cercando di balbettare qualcosa, ma dalle loro bocche uscirono solo gorgoglii, rantoli confusi e suoni inarticolati.
Mario uscì per primo e quando quelli videro l’ombra enorme del mio amico, che era grosso come un armadio, spuntare lentamente da dietro la lapide, mollarono gli ormeggi ed urlarono con tutto il fiato che avevano in corpo: “IL FANTASMAAAAAAA!!!!”.
Poi fecero un rapidissimo dietro-front e se la squagliarono zigzagando tra le tombe.
Noi uscimmo qualche minuto dopo ed attraversammo tranquillamente il cancello lasciato aperto dai tre fuggiaschi terrorizzati.
Al cospetto della luna, restammo fermi ad ascoltare il silenzio della grande pianura mescolarsi ai rumori lontani di qualche auto in transito sulla statale.
Restammo ancora lì, fermi, a pensare a tutti quei fessi che avevano scambiato il richiamo di un rapace per un lamento dell’oltretomba. Chissà le loro facce quando glielo avremmo svelato!
Soprattutto, non riuscivamo a trattenere le risate pensando alla figuraccia che avevano fatto i tre bulli e a come se la erano data a gambe.
“Eh si! Si sono proprio presi un bello spavento…”.
La voce sembrava quella di uno che parli con la testa in un secchio dal fondo della tromba delle scale.
“Ma….chi ha parlato?”.
“Io no!”, disse Mario, “Io nemmeno!”, fece eco Adolfo che, ormai disinnescato, aveva riacquistato l’uso della parola.
“Bravi, avete dimostrato di essere veramente coraggiosi…!”.
“Adesso basta con questi giochetti!”, urlai scrutando i miei amici con sospetto. Socchiusi gli occhi come per cercare di leggergli nel pensiero, “Qui qualcuno ha parlato e non ero io!”.
Mario e Adolfo assunsero un atteggiamento sarcastico: “E nemmeno noi!”.
“Sono stato io…!”.
“Ehi, stavolta vi ho sentiti bene. Non fate i furbi!”.
“Soprattutto, avete dato una bella lezione a quei tre bulli…!”.
“Ancora? Adesso mi sto proprio incazz….”.
Mario e Adolfo si voltarono di scatto con l’intenzione di lanciarmi occhiate di fuoco e di sbizzarrirsi in colorite manifestazioni di insofferenza.
E proprio in quel momento il cancello del cimitero si richiuse. Da solo.
“Beh…stanotte mi sono proprio divertito! Ora però devo andare…”.
“Voi avete sentito qualcosa?”, chiesi io pallido in volto.
“Pe...pe…perché, co…cosa c’era da sentire?”.
"Buonanotte ragazzi e…venite ancora a trovarmi…!”.
“Niente, lasciate perdere…”.
“E non abbiate paura dei morti, se li rispettate non vi faranno del male. Vogliono solo non essere dimenticati…”.
“Certo che lasciamo perdere….e di corsa!”.
Ci incamminammo rapidi verso le luci del paese. Il vento soffiava più forte e spandeva il profumo soave dei campi coltivati che si perdevano verso l’orizzonte buio. I grilli non avevano ancora cessato il loro canto sebbene le tende dell’oscurità fossero già calate sull’immensa pianura.
Poco dopo, i nostri passi cominciarono a diventare sempre più veloci.
A metà strada stavamo già correndo.
Carlone, con il dito, fece scorrere un altro dado sul segnapunti e poi disse con un tono vagamente sarcastico e condito dal cinismo di uno sciacallo: “E adesso….cosa volete fare?”.
Bella domanda. Quella pallina era l’ultima. Game over.
Non solo avevamo perso, ma a stracciarci erano stati Carlone, Franchino e Giacchetta. Quelli erano ragazzi più grandi che bevevano birra, fumavano e portavano in giro le ragazze sul motorino.
Ma non era quello il problema. Perdere a calciobalilla contro i più grandi ci poteva anche stare: di solito, bastava accettare la sconfitta, ed incassare, a denti stretti, qualche sfottò.
Il problema era che li avevamo sfidati noi. O meglio, li avevano sfidati, a mia insaputa, quelle due emerite teste vuote di Mario e Adolfo ed avevano tirato dentro anche me. Roba da tirare il collo a tutti e due.
Come se non bastasse, i due premi Nobel, praticamente convinti di avere già la vittoria in tasca, ci avevano pure scommesso sopra: un giro sui motorini contro una penitenza che i grandi avrebbero deciso al momento.
Ma si poteva essere così deficienti?
E così ora eravamo tutti e tre in balia dei vincitori. Che non aspettavano altro.
Se non volevamo prendere una manica di botte ed essere derisi a vita da tutto il paese, ragazze comprese, dovevamo accettare senza fiatare tutto quello che sarebbe uscito dalle loro bocche.
Quei tre erano noti per essere dei bulli attaccabrighe e per raggiungere vette inesplorate di acida cattiveria. Qualsiasi penitenza ci avrebbero imposto ce la saremmo ricordata per anni.
Altro che sfottò….
“Dunque vediamo….”, sospirò Franchino, posando su di noi il suo tipico sguardo da Torquemada, “Visto che è estate e fa caldo, direi che ci vuole proprio un buon bagno ristoratore….”.
Solo un bagno? Tutto sommato poteva andarci peggio.
“In…mutande…?”.
“No, vestiti!”.
Anche con i vestiti addosso un bagno non sembrava una penitenza così orribile. Perché quei tre si fermavano a così poco?
“Nel…canale….?”.
“No!”.
“Nel….fiume…?”.
“Neanche…”.
Cominciai a pensare che ci fosse sotto qualcosa.
“In qualche fosso qui intorno…?”.
“Neppure”.
“E allora…dove…?”.
“Nella vasca dei liquami della stalla di Broggi!”.
Svenni praticamente all’istante e qualcuno ebbe l’accortezza di tenermi per le braccia altrimenti sarei franato a peso morto sul pavimento.
Broggi aveva più di duecento bestie e la vasca dei liquami della sua stalla era grande come una piscina olimpionica. Altro che per anni, sguazzare in mezzo a tonnellate di piscio e letame ce lo saremmo ricordati per tutta la vita!
Mario e Adolfo stavano facendo tutti gli sforzi possibili per non scoppiare a piangere. Io non ce la feci. Le mie budella si contorsero e la prima lacrima che scese lungo la guancia sembrò scorrere sul mio cuore, tagliandolo come una lama.
Durante le mie vacanze in campagna, quando tutto si veste di estate e la fronte è sempre madida ma si asciuga con il fervore di correre e scoprire, avevo sperimentato praticamente di tutto, con ferite e cicatrici conseguenti. Ma questo non mi aveva mai scalfito, perché faceva parte dell’estate. Anzi, era l’estate stessa e laggiù, lontano dalla città e dalle catene della scuola, era tutta la mia vita.
Ma per affrontare la penitenza imposta da Franchino non sarebbe bastato.
Non ce l’avrei mai fatta ad entrare in quella vasca.
Mi guardai intorno per cercare una via di fuga. Non ce ne erano: l’unico modo per scampare la penitenza era finire sotterrati di botte e additati per sempre al pubblico scherno.
E non mi sembrava una soluzione praticabile.
Ebbi la consapevolezza di essere arrivato al capolinea. Imprecai mentalmente. Cercai di pensare in fretta ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo ad immaginarmi un modo per uscirne senza mettere in discussione la nostra integrità fisica e la nostra dignità.
Valutai anche l’ipotesi di aggredire quei tre di sorpresa. A quel punto il coraggio non mi sarebbe mancato. Ma quelli erano più grandi e non erano proprio dei pivelli. Sarebbe stato un suicidio.
Seduti ad un tavolo lì accanto, due avventori stavano chiacchierando tra cadaveri di bottiglie vuote.
Captai al volo uno spezzone di quella conversazione e subito dai cassetti della memoria, quelli con l’etichetta “frasi ad effetto”, per intenderci, o meglio ancora “botte di culo pazzesche”, sgattaiolò fuori l’idea.
D'altra parte, in paese, non si parlava d’altro.
Allora presi fiato e tentai il tutto per tutto.
“La vasca no!”, urlai, “Piuttosto….il fantasma!”.
Il caos che regnava dentro il bar cessò di colpo.
Le chiacchiere si zittirono, i bicchieri smisero di tintinnare, i dadi di rotolare, i giocatori rimasero paralizzati nell’atto di calare le carte sul tavolo, i bevitori si bloccarono con il bicchiere a mezz’aria o incollato alle labbra, Bruno, il barista, continuò a riempire un bicchiere noncurante del vino che stava traboccando sul pavimento, le sigarette smisero di fare fumo e si smorzò in un sussurro tiepido l’eco di risa ed imprecazioni.
Qualcuno giurava che, di sera, passando accanto al cimitero, si udissero dei lugubri lamenti.
Qualcun altro era certo che i lamenti provenissero dalla cappella del conte De Bernardis, morto più di un secolo prima. Sul conte De Bernardis se ne dicevano di ogni, che ne facevano ai nostri occhi un soggetto molto attuale: donnaiolo impenitente, bestemmiatore, baro e debitore moroso ed insolvente. Un “grande” quindi, un contestatore d’altri tempi, per noi. Per i più vecchi, invece, era l’Anticristo in persona, capace di fare ancora paura dopo più di cento anni.
Lo aveva detto persino Don Alfredo a Messa: l’anima del conte non trovava pace perché stava patendo le pene dell’inferno a causa della vita dissoluta che aveva condotto.
I più, ovviamente, non ci credevano ma parecchi altri sì e, a quel tempo, tanto bastò per creare in paese la leggenda del fantasma.
“Bella forza!”, ribatté piccato Franchino, “Lo sanno tutti che il fantasma non esiste!”.
“Non è vero!”, fece una voce dal fondo del locale.
“Sono solo fantasie di chi alza troppo il gomito!”, urlò Carlone il cui cervello, evidentemente, doveva avere qualche problema con la manopola dell’audio.
“No, io l’ho sentito con le mie orecchie e non avevo bevuto!”, disse qualcun altro.
“Ma va!”, rispose Giacchetta, “E’ uno scherzo di qualche buontempone!”.
“E allora….”, proposi ai tre bulli, “Se siete così sicuri che il fantasma non esiste, perché non venite anche voi?”.
Giacchetta sbiancò e Carlone assunse l’espressione di uno che ha appena ricevuto un calcio nel basso ventre ed ostenta indifferenza. Franchino trattenne il respiro, che poi buttò fuori di colpo chiudendo seccamente la questione: “Voi avete perso e voi sconterete la penitenza! Per me va bene anche il fantasma, quindi scegliete alla svelta: o quello o la vasca!”.
Ero contento come un vaso di porcellana gettato dal quinto piano. Il cimitero non suscitava allegria già di suo e pensare di entrarvi di notte a cercare un fantasma faceva collassare tutti gli organi interni.
Ma con l’altro piatto della bilancia colmo di letame c’era poco da scegliere. “Vada per il fantasma….”, risposi, mentre Mario e Adolfo svennero e, dato che nessuno li sorresse, franarono a peso morto sul pavimento.
Franchino sciolse l’assemblea. “Bene, domani sera vi presenterete qui e tutti insieme andremo al cimitero. Poi voi tre entrerete a vedere se il fantasma esiste!”.
Il bar riprese a respirare tra rumore di bicchieri, fumo, urla e tante bestemmie.
“E sapete già cosa succederà se non verrete!”, urlò di nuovo Carlone, mentre stavamo uscendo. “Prenderete un sacco di legnate e diventerete per sempre le femminucce, i cagasotto, i conigli….e tutto il paese vi prenderà per i fondelli per l’eternità!”, poi chiuse la questione con una risata che sembrava più il sibilo di un motore a due tempi ingolfato.
La sera dopo, quando mi presentai al bar, i tre bulli erano già là, con tanto di ragazze al seguito. Anche Mario e Adolfo erano arrivati prima di me. Mario se ne stava piantato sul ciglio di via Roma, come uno spaventapasseri, con lo sguardo perso nell’immensità dei campi e l'espressione di un tacchino a cui hanno appena spiegato cosa succederà a Natale. Il suo respiro era impazzito. Inspirava ed espirava come un toro pronto alla carica.
Adolfo, nel frattempo, era sgattaiolato dentro al bar e, per darsi coraggio, si era riempito di gazzosa fino agli occhi. Quando uscì assomigliava ad una mongolfiera e più che camminare fluttuava a mezz’aria.
Nel cielo i pipistrelli avevano ormai sostituito le rondini. Con la morte nel cuore ed il fiato corto ci avviammo verso il cimitero, seguiti dai bulli con le ragazze, tuffandoci dentro una notte così limpida e cristallina che quasi sconvolgeva i sensi di chi stava a contemplare il cielo, osservandone gli infiniti particolari.
Una vivida luna estiva pennellava d’argento i tetti delle case, scavandovi ombre profonde. Un leggero alito di vento faceva ondeggiare il granoturco come una vela verdeggiante e gli alberi che contornavano la strada ci guardavano passare facendo sussurrare le loro chiome.
Il vecchio cancello era chiuso, ma non a chiave. A quel tempo, ladri di rame, adepti di Satana fatti in casa e videosorveglianza non erano ancora stati inventati. Si aprì sui cardini arrugginiti producendo un cigolio sinistro che ci fece correre un brivido impercettibile lungo la schiena.
“Tu devi essere matto…”, sussurrò Mario una volta dentro.
“E voi no, eh? A sfidare proprio quei tre….ma cosa cavolo vi è saltato in…”.
“Si, ma hai idea del pasticcio in cui ci hai cacciati? Di notte, in mezzo alle tombe, al buio….sai che spasso!”.
“Non che tuffarsi nella vasca dei liquami sia tutta questa goduria…”, puntualizzai io, ma il mio tono aveva perso ogni ombra di ironia.
Quando vidi i vialetti deserti e silenziosi aprirsi davanti a me sotto la luce lunare, come venature riempite di tenebre, capii chiaramente che, quella notte, la vera prova sarebbe stata quella di affrontare due paure anziché una sola. Oltre alla mia, avrei dovuto combattere anche quella di Mario e Adolfo.
La cappella di famiglia del conte si trovava in fondo. Per arrivarci avremmo dovuto attraversare tutto il cimitero.
Il riverbero della luna emanava una tenue fosforescenza che, unita al fioco tremolio delle lampade votive, conferiva a lapidi e tombe un profilo incerto, infinitamente più spettrale dell’oscurità completa.
Una scia di sussurri ci seguiva, un corteo di ombre contorte si schierava in silenzio, qua e là, alle nostre spalle e sembrava ci fosse sempre qualcosa di ignoto in agguato, pronto a cogliere l'occasione per balzare fuori e scatenarsi.
Eravamo quasi a metà strada quando si levò il lamento.
Iniziò lentamente, soffuso e lieve, poi salì sempre più di intensità arrampicandosi in cielo come l’ombra di un ragno minaccioso, fino a penetrare nei pori della pelle con la forza di una cannonata.
Lo spavento si impossessò presto di me. Il lamento strisciava nell’aria senza fretta, con una crudeltà sottile. Sembrava voler squarciare la terra e il cielo con una lentezza melodica e compiaciuta. Penetrò nelle mie orecchie depositandovi una sensazione per niente piacevole.
Mi bloccai impietrito, trattenendo il fiato. Ebbi l'impressione che la spina dorsale mi si fosse svuotata e che qualcuno l’avesse riempita di ghiaccio. Mario gorgogliò, Adolfo rimase muto. La gazzosa che si dimenava nel suo stomaco gorgogliò per lui.
Non erano vaneggiamenti di ubriachi. Non era uno scherzo. Il lamento esisteva davvero.
Avrei voluto rimangiarmi le parole, ma ormai era troppo tardi. Valutai anche la possibilità di rinunciare e rinviare la prova, ma subito dopo la cancellai dalla mente. Non sarebbe stato salutare.
Il lamento proveniva proprio dalle cappelle in fondo al cimitero, dove le ombre della notte sembravano assieparsi e formare una gigantesca macchia nera. Avevo sempre pensato che la notte non fosse soltanto assenza di luce, ma presenza di qualcosa. Di forme di vita morenti, di spettri, di cose oscure venute dall’aldilà.
Non avevamo nè candele né tantomeno una torcia. In mezzo alle tombe, non c’era nemmeno un interruttore a portata di mano per dissipare l’oscurità.
E adesso c’era stato quel lamento.
“Non è niente, ragazzi…..”, rassicurai i miei amici, “Non può succederci niente, qui dentro. Ci sono solo i morti….”.
“Appunto…”, rispose Mario tremando, “Pensa se adesso decidono di usci…”.
Ancora quel lamento. E sempre nello stesso punto.
Cercai di classificarlo. Forse era un improvviso colpo di vento che aveva mosso qualcosa…ma cosa? Delle foglie? No, non erano foglie, quello era un rumore diverso, come se….
Di nuovo il lamento, stavolta più forte di prima.
Il mio cuore iniziò a martellare nel petto chiedendo udienza per uscire alla svelta da quel posto.
Avrei tanto voluto accontentarlo e scapparmene fuori anch’io e poi, magari, prendere l’autostrada per Giove e fanculo a tutti. Mario riprese a tremare mentre Adolfo lasciò che le sue paure continuassero a galleggiare tranquille nell’oceano frizzante di cui si era impregnato.
Mi guardai attorno, frugando tra le ombre, cercando di riconoscere le forme delle lapidi che vedevo quando entravo al cimitero di mattina, quando la luce del sole era viva, quando sapevo che nessun pericolo sarebbe spuntato dal nulla.
Il rumore ora era sparito. Tesi le orecchie per percepire il minimo suono, scandagliando la notte come un sonar in cerca di navi nemiche in pieno oceano. Un abbaiare lontano irruppe e si spense subito come una candela al vento notturno.
Proseguimmo verso il fondo, attraversando la zona più vecchia. Ora camminavamo più spediti e stavamo per arrivare alle cappelle quando riecheggiò ancora il lamento.
Proveniva proprio da un punto indefinito davanti a noi, in mezzo a quell’ammasso di tenebra che la luce lunare faticava a penetrare e che sembrava essersi chiusa addosso a noi come un coperchio di una bara.
Cercai di respirare a fondo, ma riuscii solo a tossire. Il cuore mi rimproverò di non averlo ascoltato.
“C’è…c’è…qualcuno?”, chiesi al buio davanti a noi, maledicendomi subito dopo per quella dimostrazione di debolezza. Se i tre bulli, anziché restare di guardia al cancello, fossero stati lì a spiarci ci avrebbero presi in giro per anni. “Ecco i conigli che se la fanno sotto dalla paura…!”, e giù a ridere.
Poco dopo arrivammo. Le cappelle erano davanti a noi e soffocavano sotto i rampicanti. I cancelletti erano arrugginiti, le pareti scrostate e i nomi di chi riposava là dentro non si leggevano quasi più.
La cappella della famiglia De Bernardis era la più grande. Ci avvicinammo cautamente, un passo alla volta, come se camminassimo su di un campo minato.
Il lamento si levò di nuovo e ci colse mentre posavamo le mani sulla maniglia del cancelletto.
Sentimmo il sangue trasformarsi in scaglie di vetro.
Con fatica riuscimmo ad entrare. Dentro la cappella c’era un odore di cantine dimenticate, dolciastro e pungente, e la sensazione di quiete e vertigine assoluta, come un corpo in bilico sull’abisso del nulla.
Eravamo dentro da pochi secondi quando, di colpo, ci fermammo pietrificati dal terrore. Dal fondo della cappella proveniva, inconfondibile nel silenzio, un sommesso rantolo misto ad un fruscio sinistro.
A tentoni ci spostammo verso il fondo, verso quei rumori che, ad ogni istante, si facevano più vicini.
Dopo pochi passi Mario inciampò, mi voltai per afferrargli il braccio e in quel preciso momento giunse di nuovo il lamento che, amplificato dai muri della cappella, si trasformò in un grido lacerante.
Ciò che udimmo ci tolse il fiato. Sentimmo i brividi della pelle d’oca serpeggiare lungo le braccia e la schiena e poi quel fastidio dietro la nuca, quella sorta di percezione che suggeriva una presenza, una presenza sgradita e inquietante, ma a quel punto si poteva solo andare avanti.
Incapaci di pensare lucidamente rimanemmo a fissare quel punto buio come ipnotizzati con gli occhi spalancati e quasi fuori dalle orbite, la bocca aperta in un grido soffocato e l’espressione di disperata paura scolpita nel volto.
Mario si riprese per primo, prese un paio di fiammiferi dalla tasca e li accese.
Non l’avesse mai fatto.
La luce era fioca e debole ma fu sufficiente per svelare il fantasma.
Restammo come in trance, con la voce strozzata in gola, tutti i peli e pelucchi ritti, e le gambe che stavano per cedere.
L’immagine del fantasma si rovesciò impietosa su di noi come una secchiata di catrame nero e denso.
Era proprio là, davanti a noi, ed era…
Era un grosso barbagianni, un esemplare magnifico, peraltro, che, evidentemente, aveva eletto la cappella abbandonata del conte come rifugio e se ne stava lì tranquillo, quasi infastidito dalla presenza di tre deficienti che, chissà perché, venivano ad invadere la sua tana.
E il lamento che avevamo sentito altro non era che il suo richiamo.
Cominciammo a ridere, prima silenziosamente poi sempre più forte, fino alle lacrime.
Tutta questa paura per niente. Non c’era assolutamente nulla di soprannaturale. Alla faccia dei creduloni e delle prediche del parroco, il fantasma, alla fine, non esisteva.
Lasciammo la cappella e il suo inquilino e ci avviammo verso l’uscita. Attorno, le ombre della notte avevano ormai preso possesso del cimitero, avviluppando lapidi e monumenti in un abbraccio freddo e spettrale.
Eravamo quasi arrivati al cancello quando scorgemmo delle ombre muoversi davanti a noi.
Cosa diavolo poteva essere? Fantasmi veri, stavolta? Morti usciti dalle tombe?
Proprio adesso che avevamo superato la prova.
Ci nascondemmo dietro una grossa lapide.
“Dove siete?”, risuonò una voce. Era Franchino.
“Venite fuori!”, urlò Carlone. Quella sera sembrava avesse il jack di un amplificatore infilato su da qualche parte.
Tirammo un sospiro di sollievo.
“Avete trovato il fantasma?”, gridò Giacchetta avvicinandosi.
Sfoggiando la migliore faccia di bronzo, stavamo per uscire dal nascondiglio e sbattere in faccia a quei tre la nostra scoperta, ma non ne avemmo il tempo.
La gazzosa che si stava contorcendo nello stomaco di Adolfo ebbe la meglio e Adolfo esplose.
Il gigantesco rutto che ne seguì proruppe con il fragore di un’atomica, facendo ondeggiare i fiori deposti sulle tombe lì accanto e propagando il fall-out sonoro per tutta la superficie del cimitero, fino ai campi circostanti. Più che un rutto sembrava il ruggito di una belva preistorica, l’urlo di un mostro aberrante ed abominevole, vomitato dagli abissi infernali più profondi, che nulla aveva di umano.
I tre bulli erano a pochi centimetri e rimasero letteralmente cristallizzati.
Vedemmo i loro capelli drizzarsi sulla testa, come una cresta, e l’espressione sfacciata e strafottente dei loro volti trasformarsi in una maschera di terrore puro, con occhi e bocca spalancati.
Si guardarono attoniti, cercando di balbettare qualcosa, ma dalle loro bocche uscirono solo gorgoglii, rantoli confusi e suoni inarticolati.
Mario uscì per primo e quando quelli videro l’ombra enorme del mio amico, che era grosso come un armadio, spuntare lentamente da dietro la lapide, mollarono gli ormeggi ed urlarono con tutto il fiato che avevano in corpo: “IL FANTASMAAAAAAA!!!!”.
Poi fecero un rapidissimo dietro-front e se la squagliarono zigzagando tra le tombe.
Noi uscimmo qualche minuto dopo ed attraversammo tranquillamente il cancello lasciato aperto dai tre fuggiaschi terrorizzati.
Al cospetto della luna, restammo fermi ad ascoltare il silenzio della grande pianura mescolarsi ai rumori lontani di qualche auto in transito sulla statale.
Restammo ancora lì, fermi, a pensare a tutti quei fessi che avevano scambiato il richiamo di un rapace per un lamento dell’oltretomba. Chissà le loro facce quando glielo avremmo svelato!
Soprattutto, non riuscivamo a trattenere le risate pensando alla figuraccia che avevano fatto i tre bulli e a come se la erano data a gambe.
“Eh si! Si sono proprio presi un bello spavento…”.
La voce sembrava quella di uno che parli con la testa in un secchio dal fondo della tromba delle scale.
“Ma….chi ha parlato?”.
“Io no!”, disse Mario, “Io nemmeno!”, fece eco Adolfo che, ormai disinnescato, aveva riacquistato l’uso della parola.
“Bravi, avete dimostrato di essere veramente coraggiosi…!”.
“Adesso basta con questi giochetti!”, urlai scrutando i miei amici con sospetto. Socchiusi gli occhi come per cercare di leggergli nel pensiero, “Qui qualcuno ha parlato e non ero io!”.
Mario e Adolfo assunsero un atteggiamento sarcastico: “E nemmeno noi!”.
“Sono stato io…!”.
“Ehi, stavolta vi ho sentiti bene. Non fate i furbi!”.
“Soprattutto, avete dato una bella lezione a quei tre bulli…!”.
“Ancora? Adesso mi sto proprio incazz….”.
Mario e Adolfo si voltarono di scatto con l’intenzione di lanciarmi occhiate di fuoco e di sbizzarrirsi in colorite manifestazioni di insofferenza.
E proprio in quel momento il cancello del cimitero si richiuse. Da solo.
“Beh…stanotte mi sono proprio divertito! Ora però devo andare…”.
“Voi avete sentito qualcosa?”, chiesi io pallido in volto.
“Pe...pe…perché, co…cosa c’era da sentire?”.
"Buonanotte ragazzi e…venite ancora a trovarmi…!”.
“Niente, lasciate perdere…”.
“E non abbiate paura dei morti, se li rispettate non vi faranno del male. Vogliono solo non essere dimenticati…”.
“Certo che lasciamo perdere….e di corsa!”.
Ci incamminammo rapidi verso le luci del paese. Il vento soffiava più forte e spandeva il profumo soave dei campi coltivati che si perdevano verso l’orizzonte buio. I grilli non avevano ancora cessato il loro canto sebbene le tende dell’oscurità fossero già calate sull’immensa pianura.
Poco dopo, i nostri passi cominciarono a diventare sempre più veloci.
A metà strada stavamo già correndo.
Opera scritta il 09/09/2021 - 11:17
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Commenti
Ti ringrazio per la lettura ed il commento positivo. E comunque, anche a distanza di secoli, rimango della mia idea: le ragazze sono sempre superiori....
Paolo Guastone 13/09/2021 - 13:13
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Mi hai fatta tornare indietro anni luce quando da ragazzine dovevamo superare la prova di coraggio per essere pari ai maschi. Bravo
pipistra erebus 10/09/2021 - 18:52
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