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La marcia santa - parte I

LA MARCIA SANTA


Sono sempre stato considerato strano. Me ne sono anche sempre preoccupato poco, fino a quando non mi sono trasferito qui. Da quel momento, le cose sono cambiate. Dal primo giorno in cui ho messo piede a XXXX capii che mi sarei dovuto abituare a quell’etichetta che gli sguardi della gente mi incollava addosso. Non era così comune che qualcuno si trasferisse a XXXX, mi dissero. Non osai mai chiedere perché: nell’aria gravava un’atmosfera talmente disturbante da risultare sufficiente come spiegazione. Ma secondo quest’idea l’Inghilterra intera dovrebbe essere disabitata e l’Islanda sarebbe null’altro che terra da conquistare. No, quella spiegazione non mi sarebbe dovuta bastare. Solo più tardi ho capito, qualche settimana dopo il mio arrivo. Iniziavo da poco ad aggirarmi per la città con un’ansia meno palpabile, nonostante gli abitanti continuassero ad additarmi, senza nemmeno impegnarsi molto per nascondere l’interesse che tutti nutrivano nei miei confronti. Non direi che ci fosse malizia in quegli sguardi indagatori, piuttosto una curiosità morbosa, quasi ossessiva, e non me ne capacitavo. Il tabaccaio fu la prima persona con cui scambiai delle chiacchiere, e data la frequenza con cui mi recavo da lui, posso dire che era divenuto il mio primo amico, sebbene fossi sicuro che la stessa cosa non valesse per lui. Fumavo, fumavo molto al tempo. Il trasloco aveva scosso i miei nervi, già di per sé piuttosto delicati. Gli psicologi sono d’accordo nell’ accomunare il trasloco al lutto, e nel mio caso ciò era particolarmente vero poiché era stato proprio un lutto, quello del mio ragazzo, a farmi traslocare: necessitavo di un cambiamento nella mia vita, di distaccarmi dai luoghi della memoria, e colsi al volo un’occasione di lavoro – misteriosamente conveniente per il ruolo offerto – che mi portò a sugellare definitivamente la scelta. Non avevo mai sentito parlare di XXXX, e nonostante le opportune ricerche svolte prima ancora di accettare il lavoro, non trovai molto sul web, se non fatti di cronaca nera e qualche pubblicità della fiera di paese. Meglio così, pensai, sarà ancora più difficile rintracciarmi. Volevo stare da solo. La mia famiglia non pensò nemmeno di distogliermi dall’intento, conscia che una volta presa una qualsiasi decisione, era impresa ardua farmi cambiare idea, inoltre, anche mia madre e i miei fratelli come me erano dell’idea che cambiare aria in seguito alla tragedia che si era abbattuta sulla mia vita fosse la scelta migliore. Mi preoccupai poco di quale effetto potesse fare la notizia che un ragazzo omosessuale si fosse trasferito lì, e se, in un primo momento, avevo attribuito a questa mia condizione la ragione dell’ossessione dei miei ormai compaesani, col tempo dovetti ricredermi. Non era questo ad interessarli. Del resto, ripensandoci, come avrebbero potuto saperlo? Non facevo nulla che potesse darei nell’occhio: non vestivo appariscente, non sfoggiavo tinte inusuali, non ero solito fare ciò che secondo l’immaginario collettivo è solito fare una persona omosessuale. Insomma, era una persona qualunque, con uno strano passato, in una città qualunque nel centro Italia. Così credevo almeno. Ciò che era interessante è che questo alone di mistero e curiosità che mi portavo dietro col tempo divenne un’attrattiva irresistibile per chiunque mi capitasse di incontrare durante il giorno. Ricevevo visite continue, da parte di un numero così cospicuo di supposti vicini di casa da farmi suppore di vivere in un condominio infinito le cui abitazioni rimanessero nascoste ad occhio umano. A lavoro – nella biblioteca comunale - dove svolgevo lavoro di archiviazione e allo stesso tempo di ricerca per gli studi che portavo avanti, c’era un andirivieni piuttosto vivace di gente che veniva lì con la scusa di prendere in prestito titoli casuali per potermi osservare da vicino o addirittura per parlare con me. In poco tempo il cicaleggio su di me divenne una sinfonia di voci. Devo ammetterlo, non mi infastidiva, tutto sommato: ero il nuovo centro del paese, la nuova attrattiva. Ed erano tutti cordiali quando capitava che mi incontrassero al bar la mattina, tutti in vena di scambiare quattro chiacchiere, c’era persino chi mi offriva il caffè. Alle poste, in fila, era una conferenza stampa senza microfoni. In farmacia, dal ferramenta, in banca, ovunque io andassi ero fonte di intrattenimento. L’unico posto, di norma poco affollato, dove non venivo braccato come un attore di hollywood era l’alimentare, l’unico alimentare aperto in città, dove spesso mi rifugiavo, anche quando non avevo bisogno di comprare nulla, per sfuggire allo tsunami di domande che mi inondavano. Carlo, questo il nome dell’uomo dietro il bancone, gestiva anche il macellaio accanto, che invece era più affollato. Era un uomo di un’età compresa tra i trenta e i quaranta, di bella presenza, dai modo semplici e dall’aspetto pacifico; faceva strano immaginarlo nel Macello a sterminare pascoli interi per sfamare le bocche di XXXX, ma di fatto era ciò che accadeva tutti i lunedì mattina, quando le saracinesche dei due locali erano abbassate. Carlo mi aveva preso in simpatia sin dal primo giorno, aveva rintracciato in me quel sincero dolore che tentavo di nascondere dentro agli occhi, e anche io avevo per lui un affetto sincero, mi piaceva parlare con lui. Era una persona semplice, ma mostrava buon gusto in molti argomenti e quando non sapevo con chi parlare, mi rivolgevo sempre a lui, perché quando non era interessante, sapeva farmi ridere. Ogni giorno mi lasciava un po’ di macinato da parte, e poi cartoni di latte, biscotti, caffè e qualche pacco di pasta, scusandosi ogni giorno che non lo avessero ancora rifornito a dovere. In effetti, notai, gli scaffali erano sempre vuoti, ma mi diedi come spiegazione che non appena riuscisse a rifornirsi, gli abitanti si precipitassero ad acquistare tutto il necessario, per cui, non faceva in tempo a riempire gli scaffali, che era nuovamente con le mensole vuote. Carlo mi piaceva, e presto capii che piaceva a tutti, in città. Era il cuore pulsante e simbolo di XXXX. Era lui ad organizzare la festa del paese, che loro chiamavano marcia santa. Il nome era peculiare tanto quanto l’attività: si svolgeva la prima domenica di novembre e si ripeteva tutte le domeniche fino al solstizio di inverno, consisteva nel recarsi nel cimitero del paese a commemorare i defunti della propria famiglia o di quelli che si conoscevano in vita portando con sé dei doni che i responsabili del cimitero si sarebbero occupati di riporre nella bara. Era una tradizione dal sapore ancestrale che trovavo inquietante ma al tempo stesso anche esorcizzante; era come creare nuovi legami con il corpo del defunto, della persona che era accanto a te poco prima e faceva parte della tua quotidianità. Ecco, era come perpetuare quella quotidianità anche nell’Aldilà. Carlo mi chiese se avrei partecipato anche io la prima domenica di novembre all’apertura della marcia, e io incuriosito risposi che sì, sarei stato volentieri dei loro. Sarebbe stato il mio battesimo d’ingresso al paese, disse lui. La notizia che sarei stato alla Marcia Santa si diffuse come avesse messo le ali per tutto il paese, e da quel momento iniziarono gli inviti a cena. Erano frequentissimi, continui. Fui obbligato da un senso di giustizia che mi albergava sin da quando ero piccolo a declinarli tutti quanti, dopo il primo, per non esser tacciato di avere preferenze. Ma loro continuavano a invitarmi: cene di compleanno, barbecue, cene per la cresima, per la comunione, buffet di ogni sorta, aperitivi, pranzi. Non capivo come mai d’improvviso si fosse sparsa questa febbre tra l’intera comunità che si ritrovava a gareggiare per chi riuscisse ad avermi ospite per primo. Io, dal canto mio, sentivo che non avrei potuto continuare a rifiutare, e allo stesso tempo non potevo prendermi la libertà di invitare a pranzo nessuno, per non decretare un vincitore casuale in quella folle gara. Il mistero su di me, perciò, si infittì sempre di più. Da che ero chiacchierato e stimato, ora divenni persino ambito. Ero la superstar, in paese. Sempre stato considerato strano e diverso, mi resi conto di aver più o meno volutamente contribuito ad estremizzare tutte le caratteristiche che mi rendevano tale, tanto da divenire un’icona di diversità. Gli inviti a cena non accennarono a diminuire. Anzi. Mi arrivavano anche per posta. A scrivermi era gente con cui presumibilmente avevo anche parlato, ma non avrei saputo dirlo con certezza stando al nome. Decisi che avrei atteso la Marcia Santa, sì, era la scelta giusta, il giorno dopo avrei organizzato una festa a casa mia. Ma dove? Avevo un pianterreno striminzito dove al massimo potevano entrare quattro persone, compresi me e il gatto. A tagliare le gambe a questo accenno di motivazione, fu il mio ritrovato stato depressivo; se inizialmente le chiacchiere di paese erano riuscite a distogliermi dal mio recente, ora iniziarono a perdere la presa, come ogni novità che perda il suo stato, e col suo diminuire, tornava a ingolfarsi il ricordo del mio fidanzato, con il quale avrei potuto ridere di tutto quello che mi stava accadendo, se fosse stato lì con me, ma se fosse stato ancora con me, pensavo, a quel punto ce ne saremmo rimasti nel nostro appartamento in centro con la normale nostra vita che, un secondo prima dell’incidente che me lo aveva strappato via, pareva perfetta. Mi chiusi per una settimana buona tra le mura di casa ad affogarmi il cuore tra fotografie e registrazioni della sua voce che avevo accuratamente conservato sul cellulare, mentre intanto i miei vicini di casa imperversavano come orde di locuste affamate di curiosità alla porta, chiedendo e bussando, bussando e chiedendo. Avevo l’impressione che coi loro occhietti piano piano cercassero dei pertugi tra le finestre per poter carpire quel qualcosa che stavano ricercando dal giorno del mio arrivo. L’unico che ebbi il piacere di accogliere fu Carlo, il quale mi consegnò il giornale della mattina, la solita litrata di latte, qualche uovo e un pacco di pasta. Era quanto gli era rimasto, disse. A me andava bene così. Chiese cosa mi fosse successo, era preoccupato, e alla sua preoccupazione risposi con un imbarazzo ancora maggiore, perché non sapevo dirglielo, non sapevo raccontargli di Federico, non sapevo ricostruirgli la vicenda, e non volevo ammettere la mia fragilità. Lui capì e se ne andò dopo avermi rassicurato che per qualsiasi cosa avrei potuto chiamarlo. Ero sul punto di invitarlo a cena – un po’ di compagnia mi avrebbe fatto bene – ma qualcosa mi fermò.




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Opera scritta il 01/11/2021 - 21:42
Da Matih Bobek
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