Il pomeriggio di un giorno di un’estate lontana stringeva la campagna in un abbraccio di luce forte e gialla.
Via Soliggia era deserta e si stagliava davanti a me, stretta, come volesse farsi minuscola per non disturbare le piante, vere ed incontrastate dominatrici del paesaggio.
L’aria profumata stuzzicava i polmoni, il sole sferzava la pelle ed invogliava a vivere la vita senza perderne nemmeno una goccia, in una quiete così magica che in città era inimmaginabile ed anzi non sembrava neanche di questo mondo.
Percorsi volando le poche decine di metri che separavano casa mia da quella di Mario e, quando sbucai nel cortile, lo trovai seduto sotto il portico con un muso lungo un chilometro.
L’euforia iniziale si afflosciò in un attimo. Mi avvicinai timoroso e gli chiesi cosa stesse succedendo.
“Succede che mia mamma non mi fa uscire se prima non raccolgo tutte le uova dal pollaio!”, mugugnò con un tono di voce tendente al pianto.
I lavori che, di solito, la mamma di Mario affibbiava ai figli erano noti in tutto il circondario e non si trattava mai di passeggiate, soprattutto pensando a cosa poteva capitare in caso di rifiuto.
Perciò mi meravigliai che quella volta, invece, a Mario fosse toccato un compito facile e di tutto riposo, che non gli avrebbe certo impedito di spendere il pomeriggio a scorticarsi vivo nei soliti giochi di noi bambini.
Ancora di più, però, mi stupiva il suo atteggiamento. Non riuscivo a capire come mai il mio amico, grande e grosso com’era, adesso frignasse solo per quattro uova!
“E allora?”, cercai di scuoterlo, “Va là che ti è andata bene! Pensa se tua mamma ti affibbiava le erbacce da strappare o la vasca delle anatre da pulire!”.
Mario mi fissò con aria stralunata e non accennò ad alzarsi. I suoi occhi erano tanto lucidi che, se andava avanti così, le prime lacrime non ci avrebbero messo molto a spuntare.
Allora lo strattonai per un braccio nel tentativo di incoraggiarlo: “Non mi dire che preferisci segare tutta quella legna?”, urlai, indicando una catasta di tronchi lì accanto, alta quanto il Monte Rosa, “Muoviti, pelandrone, che ti aiuto io!”.
Mario finalmente si alzò e mi seguì di malavoglia dietro il portico, dove c’era il pollaio.
Era il solito recinto fatto di pali sbilenchi e rete metallica arrugginita, rinforzata con reti di letti in disuso, che già di suo rimandava impressioni negative.
Le galline se ne stavano tutte accovacciate tranquillamente all’ombra a godersi il fresco e io pensai che, effettivamente, quello sarebbe stato un lavoro breve ed insignificante del quale solo un cretino poteva avere paura.
Appena richiuso il malfermo cancelletto alle nostre spalle, però, mi resi conto di aver fatto una grossa stupidaggine. Infatti, non mi ero accorto di un’altra cosa che c’era là dentro, una cosa che, preso dalla fretta, non avevo visto prima e non avevo potuto valutare con più attenzione.
Mi voltai verso Mario per cercare una briciola di conforto, ma lui mi restituì uno sguardo pieno di lacrime, che sembrava volermi dire: “Cosa ti avevo detto?”.
Dalla parte di pollaio coperta dal portico era spuntato un gallo.
Di solito nel pollaio, come recitava il famoso proverbio, non dovevano mai essercene due, di galli, ma trovarne uno solo era perfettamente normale.
Era i gallo a non essere normale perché era grosso quanto uno struzzo e più che lanciare il tradizionale “chicchiricchì” emise un ruggito.
E, in quanto ad apertura alare, quel gigante avrebbe potuto tranquillamente competere con un condor andino.
Da dove diavolo saltava fuori un mostro del genere?
Rimandai questo quesito a dopo perché si stava presentando un altro problema.
Eravamo tutti e due dalla stessa parte della rete. Quella sbagliata.
L’istinto prese il sopravvento mentre qualcosa, dentro di me, cominciò a muoversi, giù nel basso ventre.
In un attimo dimenticai tutto: le uova, il pallone, la fionda, la bicicletta….tutte le altre cose erano magicamente scomparse dalla mia mente, fuggite via, come sabbia soffiata dal vento!
C’era solo una cosa che mi interessava: uscire immediatamente da là e scapparmene al più presto a casa!
Perciò, senza mai voltare le spalle al bestione, piano piano indietreggiai per guadagnare l’uscita e, quando credetti di essere abbastanza vicino al cancelletto, con un balzo felino mi girai per agguantare il catenaccio.
Fu la mossa giusta, e sarebbe stata vincente se anche Mario non avesse avuto la stessa idea.
Il risultato fu che le nostre teste si scontrarono all’altezza del catenaccio, producendo un suono cupo, ed entrambi rovinammo a terra.
E quando ci rialzammo il gallo, infastidito da tutto quel trambusto, attaccò.
In una frazione di secondo il panico ci investì e il pollaio si trasformò in un’arena da rodeo dove noi non eravamo dalla parte del pubblico.
Cominciammo a correre in tondo, a perdifiato, spinti da un mix di adrenalina e paura, rovesciando abbeveratoi, calpestando uova, mangime e galline terrorizzate, in un turbinio di polvere, urla e piume.
Ma il gallo non ci dava tregua.
Fermarsi per aprire il cancelletto sarebbe stato un suicidio e la recinzione era troppo alta perché due bambini di dieci anni potessero scavalcarla. Al decimo giro, suppergiù, sentii il mio cuore accelerare più della Ford Escort 1100 di mio padre mentre Mario cercava di aprirsi un varco assestando al cancelletto un colpo deciso ad ogni giro.
E giro dopo giro, colpo dopo colpo, il cancelletto si aprì di quel tanto che bastava per trasformarsi nella nostra via di fuga.
Intorno al ventesimo giro avvenne l’evasione. Con le gambe martoriate dalle beccate di quel demonio piumato riuscimmo finalmente a sgattaiolare fuori dall’inferno.
E il gallo dietro.
Il cortile e, un secondo dopo, anche via Soliggia e via Roma si trasformarono nelle strette viuzze di Pamplona durante il tradizionale Encierro di San Fermin.
Ma non era una grande festa, quella. Niente allegria, nessuna voglia di sfida, nessuna ubriacatura di sangria.
Niente di tutto questo.
C’erano solo due bambini, con le coronarie simili a nacchere, che fuggivano terrorizzati per il paese inseguiti da un mostro piumato, mentre anche le galline, trovato aperto il varco, erano scappate e si erano tutte sparpagliate per la strada e negli orti circostanti.
Non mi ricordo per quanto tempo andammo avanti a correre, so che corremmo fino a quando non sentimmo più né gambe né braccia, fino a mettere in discussione il fatto di essere ancora vivi….
“Mamma mia!”, esclamò mia figlia mettendosi a sedere sul letto, “Ma…poi ce l’avete fatta a non farvi prendere?”.
“Dal gallo si….dalle nostre mamme no...”.
“Uh! E cosa è successo?”.
Pensai al disastro che avevamo combinato e, improvvisamente, sentii l’impellente necessità di massaggiarmi per bene il fondoschiena. “Beh, ecco…è una storia lunga…”, sospirai, “Magari te la racconterò un’altra volta. Adesso è ora di dormire…”.
Diedi alla bambina il bacio della buonanotte e, prima di uscire dalla stanza, mi soffermai un attimo a sbirciare tra le fessure della persiana.
Là fuori, via Soliggia era sempre la stessa, forse con parecchie piante in meno e qualche automobile in più, ma sempre quieta, dolce ed immobile. E così tanto magica, con i soliti lampioni che inondavano l’asfalto in un impasto di luci lievi.
Stavo per andarmene quando mi sembrò di veder saettare sulla strada le ombre di due bambini, che correvano a più non posso, inseguiti da un gallo variopinto di proporzioni gigantesche.
Avrei voluto spalancare di colpo la persiana per urlare: “Forza ragazzi, che ce la fate!”.
Ma poi mi accorsi che in via Soliggia non c’era nessuno: c’era solo la notte placida del solito paese di campagna, una notte tersa e serena, colorata dai sogni di mia figlia che salivano al cielo come mille e mille farfalle di luce.
Via Soliggia era deserta e si stagliava davanti a me, stretta, come volesse farsi minuscola per non disturbare le piante, vere ed incontrastate dominatrici del paesaggio.
L’aria profumata stuzzicava i polmoni, il sole sferzava la pelle ed invogliava a vivere la vita senza perderne nemmeno una goccia, in una quiete così magica che in città era inimmaginabile ed anzi non sembrava neanche di questo mondo.
Percorsi volando le poche decine di metri che separavano casa mia da quella di Mario e, quando sbucai nel cortile, lo trovai seduto sotto il portico con un muso lungo un chilometro.
L’euforia iniziale si afflosciò in un attimo. Mi avvicinai timoroso e gli chiesi cosa stesse succedendo.
“Succede che mia mamma non mi fa uscire se prima non raccolgo tutte le uova dal pollaio!”, mugugnò con un tono di voce tendente al pianto.
I lavori che, di solito, la mamma di Mario affibbiava ai figli erano noti in tutto il circondario e non si trattava mai di passeggiate, soprattutto pensando a cosa poteva capitare in caso di rifiuto.
Perciò mi meravigliai che quella volta, invece, a Mario fosse toccato un compito facile e di tutto riposo, che non gli avrebbe certo impedito di spendere il pomeriggio a scorticarsi vivo nei soliti giochi di noi bambini.
Ancora di più, però, mi stupiva il suo atteggiamento. Non riuscivo a capire come mai il mio amico, grande e grosso com’era, adesso frignasse solo per quattro uova!
“E allora?”, cercai di scuoterlo, “Va là che ti è andata bene! Pensa se tua mamma ti affibbiava le erbacce da strappare o la vasca delle anatre da pulire!”.
Mario mi fissò con aria stralunata e non accennò ad alzarsi. I suoi occhi erano tanto lucidi che, se andava avanti così, le prime lacrime non ci avrebbero messo molto a spuntare.
Allora lo strattonai per un braccio nel tentativo di incoraggiarlo: “Non mi dire che preferisci segare tutta quella legna?”, urlai, indicando una catasta di tronchi lì accanto, alta quanto il Monte Rosa, “Muoviti, pelandrone, che ti aiuto io!”.
Mario finalmente si alzò e mi seguì di malavoglia dietro il portico, dove c’era il pollaio.
Era il solito recinto fatto di pali sbilenchi e rete metallica arrugginita, rinforzata con reti di letti in disuso, che già di suo rimandava impressioni negative.
Le galline se ne stavano tutte accovacciate tranquillamente all’ombra a godersi il fresco e io pensai che, effettivamente, quello sarebbe stato un lavoro breve ed insignificante del quale solo un cretino poteva avere paura.
Appena richiuso il malfermo cancelletto alle nostre spalle, però, mi resi conto di aver fatto una grossa stupidaggine. Infatti, non mi ero accorto di un’altra cosa che c’era là dentro, una cosa che, preso dalla fretta, non avevo visto prima e non avevo potuto valutare con più attenzione.
Mi voltai verso Mario per cercare una briciola di conforto, ma lui mi restituì uno sguardo pieno di lacrime, che sembrava volermi dire: “Cosa ti avevo detto?”.
Dalla parte di pollaio coperta dal portico era spuntato un gallo.
Di solito nel pollaio, come recitava il famoso proverbio, non dovevano mai essercene due, di galli, ma trovarne uno solo era perfettamente normale.
Era i gallo a non essere normale perché era grosso quanto uno struzzo e più che lanciare il tradizionale “chicchiricchì” emise un ruggito.
E, in quanto ad apertura alare, quel gigante avrebbe potuto tranquillamente competere con un condor andino.
Da dove diavolo saltava fuori un mostro del genere?
Rimandai questo quesito a dopo perché si stava presentando un altro problema.
Eravamo tutti e due dalla stessa parte della rete. Quella sbagliata.
L’istinto prese il sopravvento mentre qualcosa, dentro di me, cominciò a muoversi, giù nel basso ventre.
In un attimo dimenticai tutto: le uova, il pallone, la fionda, la bicicletta….tutte le altre cose erano magicamente scomparse dalla mia mente, fuggite via, come sabbia soffiata dal vento!
C’era solo una cosa che mi interessava: uscire immediatamente da là e scapparmene al più presto a casa!
Perciò, senza mai voltare le spalle al bestione, piano piano indietreggiai per guadagnare l’uscita e, quando credetti di essere abbastanza vicino al cancelletto, con un balzo felino mi girai per agguantare il catenaccio.
Fu la mossa giusta, e sarebbe stata vincente se anche Mario non avesse avuto la stessa idea.
Il risultato fu che le nostre teste si scontrarono all’altezza del catenaccio, producendo un suono cupo, ed entrambi rovinammo a terra.
E quando ci rialzammo il gallo, infastidito da tutto quel trambusto, attaccò.
In una frazione di secondo il panico ci investì e il pollaio si trasformò in un’arena da rodeo dove noi non eravamo dalla parte del pubblico.
Cominciammo a correre in tondo, a perdifiato, spinti da un mix di adrenalina e paura, rovesciando abbeveratoi, calpestando uova, mangime e galline terrorizzate, in un turbinio di polvere, urla e piume.
Ma il gallo non ci dava tregua.
Fermarsi per aprire il cancelletto sarebbe stato un suicidio e la recinzione era troppo alta perché due bambini di dieci anni potessero scavalcarla. Al decimo giro, suppergiù, sentii il mio cuore accelerare più della Ford Escort 1100 di mio padre mentre Mario cercava di aprirsi un varco assestando al cancelletto un colpo deciso ad ogni giro.
E giro dopo giro, colpo dopo colpo, il cancelletto si aprì di quel tanto che bastava per trasformarsi nella nostra via di fuga.
Intorno al ventesimo giro avvenne l’evasione. Con le gambe martoriate dalle beccate di quel demonio piumato riuscimmo finalmente a sgattaiolare fuori dall’inferno.
E il gallo dietro.
Il cortile e, un secondo dopo, anche via Soliggia e via Roma si trasformarono nelle strette viuzze di Pamplona durante il tradizionale Encierro di San Fermin.
Ma non era una grande festa, quella. Niente allegria, nessuna voglia di sfida, nessuna ubriacatura di sangria.
Niente di tutto questo.
C’erano solo due bambini, con le coronarie simili a nacchere, che fuggivano terrorizzati per il paese inseguiti da un mostro piumato, mentre anche le galline, trovato aperto il varco, erano scappate e si erano tutte sparpagliate per la strada e negli orti circostanti.
Non mi ricordo per quanto tempo andammo avanti a correre, so che corremmo fino a quando non sentimmo più né gambe né braccia, fino a mettere in discussione il fatto di essere ancora vivi….
“Mamma mia!”, esclamò mia figlia mettendosi a sedere sul letto, “Ma…poi ce l’avete fatta a non farvi prendere?”.
“Dal gallo si….dalle nostre mamme no...”.
“Uh! E cosa è successo?”.
Pensai al disastro che avevamo combinato e, improvvisamente, sentii l’impellente necessità di massaggiarmi per bene il fondoschiena. “Beh, ecco…è una storia lunga…”, sospirai, “Magari te la racconterò un’altra volta. Adesso è ora di dormire…”.
Diedi alla bambina il bacio della buonanotte e, prima di uscire dalla stanza, mi soffermai un attimo a sbirciare tra le fessure della persiana.
Là fuori, via Soliggia era sempre la stessa, forse con parecchie piante in meno e qualche automobile in più, ma sempre quieta, dolce ed immobile. E così tanto magica, con i soliti lampioni che inondavano l’asfalto in un impasto di luci lievi.
Stavo per andarmene quando mi sembrò di veder saettare sulla strada le ombre di due bambini, che correvano a più non posso, inseguiti da un gallo variopinto di proporzioni gigantesche.
Avrei voluto spalancare di colpo la persiana per urlare: “Forza ragazzi, che ce la fate!”.
Ma poi mi accorsi che in via Soliggia non c’era nessuno: c’era solo la notte placida del solito paese di campagna, una notte tersa e serena, colorata dai sogni di mia figlia che salivano al cielo come mille e mille farfalle di luce.
Opera scritta il 10/11/2021 - 11:35
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Voto: | su 2 votanti |
Commenti
Grazie Moreno per il giudizio. Il racconto è "quasi" autobiografico: ricordi ormai persi nei meandri della memoria, come quei ragazzini di tanto tempo fa.
Paolo Guastone 11/11/2021 - 08:58
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Grazie Alex per il passaggio ed il commento positivo. Sono contento che il racconto ti sia piaciuto
Paolo Guastone 11/11/2021 - 08:56
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Grazie Maria Luisa, sempre gentile e puntuale!
Paolo Guastone 11/11/2021 - 08:56
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Un bel racconto, mi è piaciuta molto la scena dell'inseguimento nel pollaio.
Grazie
Grazie
Moreno Maurutto 11/11/2021 - 08:48
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Bel racconto e ottima narrazione.
Alex Sandrini 10/11/2021 - 18:07
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Simpatico questo acconto coinvolgente. Un bel ricordo da raccontare.
Maria Luisa Bandiera 10/11/2021 - 15:43
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