La strada lasciava intravedere la banchina del porto, in una giornata plumbea e fredda, il vento accarezzava la pelle rendendola rigida e rossastra mentre le figure umane apparivano e scomparivano con l'alternarsi delle onde che andavano a infrangersi sulla diga, costruita a protezione dell'insenatura.
L'inganno era chiaro solo per l'occhio e una via, passando sopra la costruzione, portava al vecchio castello aragonese.
Osservando da lontano il mare si aveva l'impressione che tutto fosse al di sotto delle sue spume biancastre, io poi ho sempre avuto uno strano timore quando camminavo su quella strada costruita in tal posizione...
Eppure ero lì quando il tempo chiamava, tempesta e vento il mio soprannome interiore.
Di fronte alla diga, dal lato opposto, un piccolo bosco con un parco giochi ospitava i sogni dei bambini.
Dipingevo questa tela nelle notti insonni e i ricordi scuotevano l'animo rendendolo inquieto come una bufera infernale, il volo si infrangeva poi nell'immaginare il reticolato che costeggiava il parco giochi.
Esso racchiudeva in un quadrato enorme l'aeroporto, le cui piste terminavano a pochi metri dal mare, in estate la pista più lunga era il luogo delle mie osservazioni più attente.
In attesa dell'autobus, che portava in centro città dallo stabilimento balneare, s'era soliti partire insieme agli aerei che decollavano.
Una piccola stradina costeggiava la pista principale risultando essere l'unico approdo al mare, l'autobus la percorreva e il gioco dei piccoli consisteva nello scommettere sulle condizioni del tempo.
L'atmosfera gioiosa si mischiava con gli odori che dalle borse, colme di tortellini al sugo, salivano prepotentemente al naso.
“Il Granchio Rosso” attendeva calmo e pulito nella sua disposizione a celle separate che lo rendevano simile a un campo di concentramento.
Era molto grande e ci ospitava per le vacanze estive... no, non era un brutto essere dotato di carapace: il Granchio Rosso era uno stabilimento balneare.
Aveva due quadrati di sabbia attorno ai quali vi erano le cabine, nel centro il bar con la rotonda che guardava dritto sul lungo pontile inoltrato nel mare, l'alta bandiera segnalava sempre in modo agitato lo scorrere delle onde.
Le gerarchie la facevano da padrone in quel luogo, nel quadrato a ovest i comuni mortali e i loro pestilenziali bimbi, a est invece l'alta borghesia con i costumi in pizzo di lontra, le docce in piombo profuso color oro e le cabine da dieci posti.
Io bighellonavo fra i box per impiegati statali a un solo stipendio.
In compenso il lato povero della società aveva un lungo corridoio che spiava il mare con le sue panchine in legno. Oltre vi era la sabbia naturale, le pietre e... La marea di buste di plastica che le navi in partenza del porto gentilmente concedevano alla spiaggia.
L'apice della vacanza erano le gare di ferragosto, a cui io non potevo partecipare perché ancora troppo piccolo per entrare in un sacco.
Mi vendicavo scavando delle trincee dalle quali sparavo con la pistola ad acqua, castelli di sabbia e ricchi premi e la vita poi ti leva il gusto di essere ingenuo.
Mi ritrovai così sull'autobus che circumnavigava la costa attorno al porto.
Sì, dalle buche di sabbia ero passato allo zaino a tracolla, conservando la fermata al Granchio Rosso.
Ero un adulto con i pantaloni corti e un vocabolario di Latino pesante come un masso che proteggeva la mia amata diga, un liceale provetto, pardon in prova, no in provetta: ecco la giusta definizione ero in provetta allo scientifico tra esperimenti “moschicidi” e plastici “colosseici”.
Lo stabilimento balneare non esisteva già più e il mare aveva mangiato spiaggia e cabine, resistevano, alias monoliti di Odissea nello Spazio, due vecchie cabine e un angolino del bar a sfidare il tempo e le sue intemperanze o intemperie, se meglio raffigura la storia.
La fermata c'era.
Le mie gambe erano vecchie e io giovane, il mio spirito non accettava la crescita, vedendo la morte di quei posti a me familiari.
Io sono vento di levante e morte di ponente.
Mi tiravo dietro sempre tempeste e tramonti, sognavo dighe e onde vigorose e distruttive.
Avrei voluto scrivere dei miei successi scolastici ma essi erano troppo scolastici per uno che da piccolo aveva già viaggiato per le vie delle stelle.
Cercavo negli occhi della gente la diga che arginava la loro vita, sperando che allo stesso tempo vedessero la mia.
Consideravo il tempo una variante dello spazio e mi spostavo non tenendo conto di esso, almeno così credevo di poter sempre fare.
Io terminavo le vite, quelle mie naturalmente, per sentirmi nuovamente vivo, trascorsi così dighe e panchine tra tempeste e sconfitte.
Vinsi perdendo.
Se fossi sopravvissuto ai miei sogni non avrei mai potuto scrivere, morire in essi vuol dire vivere nella loro futura raffigurazione.
Venne il tempo d'un altro tempo e io, che prima mi consideravo adulto rispetto al tempo stesso, mi ritrovai a essere più vecchio di quel che ritenevo.
Finì l'autobus verso il mare e iniziò la mia carriera di podista verso il porto.
Facevo in dieci minuti il percorso liceo-stazione, non per nulla il mio prof. d'educazione fisica era stato allenatore di Pietro Mennea.
Portavo con me sempre un pontile verso il mare dell'ignoto e una panchina di legno che volgeva il cuore alle acque di smeraldo.
Ero finto poeta nel mio finto voler a tutti i costi essere sogno, amai e scrissi nei percorsi del porto, portai a spasso colori e tele e dalle panchine dipinsi vite e storie.
Anche quella vecchiaia terminò e io uccisi per la seconda volta il mio tempo.
Quante ancora sarebbero dovute essere le vecchiaie prima dell'ultima? Lasciai panchine e cavalcavia in deposito presso due occhi di cristallo e, con in mano il vuoto, presi l'ultimo autobus.
Viaggiava da solo, non aveva conducente e io avevo i capelli bianchi.
Da quel viaggio sono passati più di trenta degli anni terrestri e non ho più i capelli bianchi.
Ho rivisto per caso la mia panchina: due steli di legno e un rugginoso aspetto.
Viva e morta al tempo stesso come me che uso il vinavil per incollare al tempo le mie emozioni, vive e morte.
Sì, son fatto così.
Tempesta, vento, dighe e panchine sono compagne illusorie delle mie morti, io vivo nella morte e di morte vivo per nascere nel tempo desiderato.
Nel tempo della mia vita, quella senza termine, quella che ti fa sentire vecchio al termine delle esperienze e giovane quando l'ultima vecchiaia si spegnerà nella panchina dei ricordi.
Quella prediletta.
L'inganno era chiaro solo per l'occhio e una via, passando sopra la costruzione, portava al vecchio castello aragonese.
Osservando da lontano il mare si aveva l'impressione che tutto fosse al di sotto delle sue spume biancastre, io poi ho sempre avuto uno strano timore quando camminavo su quella strada costruita in tal posizione...
Eppure ero lì quando il tempo chiamava, tempesta e vento il mio soprannome interiore.
Di fronte alla diga, dal lato opposto, un piccolo bosco con un parco giochi ospitava i sogni dei bambini.
Dipingevo questa tela nelle notti insonni e i ricordi scuotevano l'animo rendendolo inquieto come una bufera infernale, il volo si infrangeva poi nell'immaginare il reticolato che costeggiava il parco giochi.
Esso racchiudeva in un quadrato enorme l'aeroporto, le cui piste terminavano a pochi metri dal mare, in estate la pista più lunga era il luogo delle mie osservazioni più attente.
In attesa dell'autobus, che portava in centro città dallo stabilimento balneare, s'era soliti partire insieme agli aerei che decollavano.
Una piccola stradina costeggiava la pista principale risultando essere l'unico approdo al mare, l'autobus la percorreva e il gioco dei piccoli consisteva nello scommettere sulle condizioni del tempo.
L'atmosfera gioiosa si mischiava con gli odori che dalle borse, colme di tortellini al sugo, salivano prepotentemente al naso.
“Il Granchio Rosso” attendeva calmo e pulito nella sua disposizione a celle separate che lo rendevano simile a un campo di concentramento.
Era molto grande e ci ospitava per le vacanze estive... no, non era un brutto essere dotato di carapace: il Granchio Rosso era uno stabilimento balneare.
Aveva due quadrati di sabbia attorno ai quali vi erano le cabine, nel centro il bar con la rotonda che guardava dritto sul lungo pontile inoltrato nel mare, l'alta bandiera segnalava sempre in modo agitato lo scorrere delle onde.
Le gerarchie la facevano da padrone in quel luogo, nel quadrato a ovest i comuni mortali e i loro pestilenziali bimbi, a est invece l'alta borghesia con i costumi in pizzo di lontra, le docce in piombo profuso color oro e le cabine da dieci posti.
Io bighellonavo fra i box per impiegati statali a un solo stipendio.
In compenso il lato povero della società aveva un lungo corridoio che spiava il mare con le sue panchine in legno. Oltre vi era la sabbia naturale, le pietre e... La marea di buste di plastica che le navi in partenza del porto gentilmente concedevano alla spiaggia.
L'apice della vacanza erano le gare di ferragosto, a cui io non potevo partecipare perché ancora troppo piccolo per entrare in un sacco.
Mi vendicavo scavando delle trincee dalle quali sparavo con la pistola ad acqua, castelli di sabbia e ricchi premi e la vita poi ti leva il gusto di essere ingenuo.
Mi ritrovai così sull'autobus che circumnavigava la costa attorno al porto.
Sì, dalle buche di sabbia ero passato allo zaino a tracolla, conservando la fermata al Granchio Rosso.
Ero un adulto con i pantaloni corti e un vocabolario di Latino pesante come un masso che proteggeva la mia amata diga, un liceale provetto, pardon in prova, no in provetta: ecco la giusta definizione ero in provetta allo scientifico tra esperimenti “moschicidi” e plastici “colosseici”.
Lo stabilimento balneare non esisteva già più e il mare aveva mangiato spiaggia e cabine, resistevano, alias monoliti di Odissea nello Spazio, due vecchie cabine e un angolino del bar a sfidare il tempo e le sue intemperanze o intemperie, se meglio raffigura la storia.
La fermata c'era.
Le mie gambe erano vecchie e io giovane, il mio spirito non accettava la crescita, vedendo la morte di quei posti a me familiari.
Io sono vento di levante e morte di ponente.
Mi tiravo dietro sempre tempeste e tramonti, sognavo dighe e onde vigorose e distruttive.
Avrei voluto scrivere dei miei successi scolastici ma essi erano troppo scolastici per uno che da piccolo aveva già viaggiato per le vie delle stelle.
Cercavo negli occhi della gente la diga che arginava la loro vita, sperando che allo stesso tempo vedessero la mia.
Consideravo il tempo una variante dello spazio e mi spostavo non tenendo conto di esso, almeno così credevo di poter sempre fare.
Io terminavo le vite, quelle mie naturalmente, per sentirmi nuovamente vivo, trascorsi così dighe e panchine tra tempeste e sconfitte.
Vinsi perdendo.
Se fossi sopravvissuto ai miei sogni non avrei mai potuto scrivere, morire in essi vuol dire vivere nella loro futura raffigurazione.
Venne il tempo d'un altro tempo e io, che prima mi consideravo adulto rispetto al tempo stesso, mi ritrovai a essere più vecchio di quel che ritenevo.
Finì l'autobus verso il mare e iniziò la mia carriera di podista verso il porto.
Facevo in dieci minuti il percorso liceo-stazione, non per nulla il mio prof. d'educazione fisica era stato allenatore di Pietro Mennea.
Portavo con me sempre un pontile verso il mare dell'ignoto e una panchina di legno che volgeva il cuore alle acque di smeraldo.
Ero finto poeta nel mio finto voler a tutti i costi essere sogno, amai e scrissi nei percorsi del porto, portai a spasso colori e tele e dalle panchine dipinsi vite e storie.
Anche quella vecchiaia terminò e io uccisi per la seconda volta il mio tempo.
Quante ancora sarebbero dovute essere le vecchiaie prima dell'ultima? Lasciai panchine e cavalcavia in deposito presso due occhi di cristallo e, con in mano il vuoto, presi l'ultimo autobus.
Viaggiava da solo, non aveva conducente e io avevo i capelli bianchi.
Da quel viaggio sono passati più di trenta degli anni terrestri e non ho più i capelli bianchi.
Ho rivisto per caso la mia panchina: due steli di legno e un rugginoso aspetto.
Viva e morta al tempo stesso come me che uso il vinavil per incollare al tempo le mie emozioni, vive e morte.
Sì, son fatto così.
Tempesta, vento, dighe e panchine sono compagne illusorie delle mie morti, io vivo nella morte e di morte vivo per nascere nel tempo desiderato.
Nel tempo della mia vita, quella senza termine, quella che ti fa sentire vecchio al termine delle esperienze e giovane quando l'ultima vecchiaia si spegnerà nella panchina dei ricordi.
Quella prediletta.
Opera scritta il 26/04/2022 - 12:13
Letta n.447 volte.
Voto: | su 2 votanti |
Commenti
Congratulazioni per il meritatissimo
riconoscimento
riconoscimento
Marina Assanti 13/05/2022 - 12:38
--------------------------------------
Delizioso scorrere della tua penna. Una lettura scorrevole,piacevole e poetica. Sei davvero molto bravo, complimenti di cuore. Buona giornata.
santa scardino 05/05/2022 - 09:18
--------------------------------------
Mi unisco empaticamente al commento e ai complimenti di Marina Assanti che condivido appieno. Bravo Jean
giorgio donati 05/05/2022 - 08:29
--------------------------------------
Eleganti panchine rivestite di fogliuzze e pagliuzze che si leggono piacevolmente grazie di cuore Tonino
FADDA TONINO 27/04/2022 - 10:54
--------------------------------------
Lo smarphone ha aggiunto una "n" per cui i ringraziamenti sono doppi
Jean C. G. 26/04/2022 - 19:14
--------------------------------------
Vi rinngrazio tutti di cuore e vi auguro una serena notte
Jean C. G. 26/04/2022 - 19:11
--------------------------------------
Ciò che rende unica e riconoscibile la tua scrittura è la perfetta sincronia poetica dei pensieri e azioni condite con quel pizzico di humor nei percorsi delle tue innumerevoli vite che non smette mai di stupire il lettore, Complimenti Jean.
genoveffa genè frau 26/04/2022 - 18:28
--------------------------------------
Un racconto scritto con poesia
tutto costellato di frasi fantasticamente toccanti. Complimenti Jean C
tutto costellato di frasi fantasticamente toccanti. Complimenti Jean C
Anna Cenni 26/04/2022 - 17:58
--------------------------------------
Finto poeta?
Più poeta di te non conosco.
Non ho aggettivi per questo racconto in cui ogni parola vorrebbe, forse, celare la malinconia, quella vera, quella del poeta, appunto, con qualche espressione apprezzata condita di humor, ma non ce ne sono di sufficientemente efficaci.
Accetta i miei complimenti, Poeta, sinceri e commossi!
Un saluto di stima e... 5* sono pochine per una narrazione così coinvolgente e trainante, ma è ciò che si può...
Più poeta di te non conosco.
Non ho aggettivi per questo racconto in cui ogni parola vorrebbe, forse, celare la malinconia, quella vera, quella del poeta, appunto, con qualche espressione apprezzata condita di humor, ma non ce ne sono di sufficientemente efficaci.
Accetta i miei complimenti, Poeta, sinceri e commossi!
Un saluto di stima e... 5* sono pochine per una narrazione così coinvolgente e trainante, ma è ciò che si può...
Marina Assanti 26/04/2022 - 17:00
--------------------------------------
Quegli sprazzi creativi che il mare ci sollecita sono sempre piacevoli da ricordare e raccontare. Lettura gradevole.
giorgio donati 26/04/2022 - 16:12
--------------------------------------
Inserisci il tuo commento
Per inserire un commento e per VOTARE devi collegarti alla tua area privata.