Taciturno (carmi)
Al mattino salutava i nannuferi in fiore, e si accompagnava dove Etna divenne il frutto divino della fusione tra cielo e terra, figura che cima verso la volta, e la sfiora.
Sedeva sulle grosse radici, e i piedi era come se penetrassero nelle profondità della terra. Quel giorno osservò un legno che galleggiava arso e fuligginoso.
Quando Pan suonò il flauto divino, echeggiando l’armonia del silenzio, i fiori di loto mossero passi di danza cantando con fare melodioso.
Quel pezzo di legno tornò in superficie vivido, mentre il giovine non fece più ritorno.
Figlio di un pescatore, addietro dalle sue numerose immersioni tutti lo volevano dattorno
per sentir delle meraviglie viste. Cola ardeva d’amor per Etna e quando, scendendo ancor più
in profondità vide che la Sicilia posava su tre colonne delle quali una sdrucciolava nell’infinito blu,
piena di vistose crepe e segnata dal tempo, per evitare che l’isola
sprofondasse decise di restare
sott’acqua sorreggendola. Con la luna piena e il solstizio
d’estate lascia di puntellare
il piedritto per un istante, una volta ogni cento anni, per riemergere
e riveder l’amata Etna tra messi e fuoco lapillare.
Ci mise del tempo a tollerare quel termine “lapillare”. Poi accettò il compromesso con la sua penna il vecchio taciturno, e tornò a scrivere.
L’amore può voler dire aspettare. La giovanissima Fillide prese a scendere in spiaggia ogni giorno sperando di vedere
all’orizzonte le navi che le avrebbero riportato l’amato, richiamato alle armi dal dovere della guerra, accorata al pensiero di mai più rivederlo.
Ormai certa che il suo Acamante non sarebbe mai più tornato, si lasciò morire di struggimento. Sul finir dell’inverno, nonostante avessero contribuito a tenerlo
lontano numerose avarie, fece ritorno l’impavido guerriero. La divinità protettrice degli amori fedeli aveva mutato la giovane in un mandorlo spoglio dai rami
vizzi, ma riconoscendola strinse il tronco l’uomo dal rosso cimiero. Pianse disperato e l’albero, come percependo il tocco dell’amato, nella fioritura si ricoprì di impalpabili stami.
In quella scrittoria di Capo Mulini l’uomo sembra guardare trasognato oltre la gora i mandorli in fiore.
E scrive di una bellissima ninfa del mare e d’un pastorello perdutamente innamorati, e della bile e dell’ardore
del ciclope invaghitosi di Galatea. Vistosi respinto, e scoperto che lei gli preferiva un mortale villico,
decise di togliere la vita al rivale. La disperazione di lei impietosì gli dei che tramutaron il sangue di Aci in un fiume ciclico
che riversandosi in mare sarebbe per sempre restato accanto alla sua ninfa. E quel flauto tornò a suonare armonico.
Il vecchio taciturno guardò la mano tremolante, e capì. Riprese a scrivere a fatica,
lentamente dell’aggraziata Mata di incrollabile fede cristiana e comprovata etica.
Di lei s’innamorò d’un amor corrisposto un condottiero saraceno, tal Grifone…
S’interruppe, posò la penna e rovinò nella sedia a dondolo. Annusò l’aria e udì, così prone
per un’ultima volta quel canto. Lo vide solo un giglio d’acqua incuriosito dal dolce
miagolio di una gatta nera. L’animale sedeva sui ginocchi dell’uomo, due gocce
di rugiada pendevano dai suoi occhi alidi; e il primo mattino lumeggiò su due lacrime
allo stagno aggrappate al petalo d’una ninfea laconica, che le adagiò tra le purezze più intime.
(ultima elegia prosastica -Mitografia, agosto 2020)
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se poi facciamo in tempo!!eh lo so, una frase da cappellaio matto!! Complimenti!!!
Quante pene d'amore tra gli uomini, i miti e le leggende...
Inconfondibile la maestria del tuo scrivere scorrevole, malinconico, sempre trascinante... affascinante.
Complimenti, Mirko, peccato sia l'ultima, ma ci donerai altre Perle...
e complimenti per il tuo meraviglioso Simone.
Mi ha fatto una tenerezza quando mi ha chiamata signora Marina... tesoro.
Scusa, mi commuovono queste cose, si capisce che sto invecchiando...