Ed essi sedettero
Dalla cucina
Una fragranza famigliare
Nostalgica
Il mio palato ne pregustò
Già la prelibatezza
Il convito si fece impavido
Nella leccornia dissennata
E in un discetto vorticoso
Ed enfatizzato.
Sul tavolo
Riverberi convulsi
Di volti asimmetrici
E di mani pasciute e viziose
Spezzarono il gran bailamme
Andatosi via via ad accrescere
Senza alcun ritegno.
Nella transitoria requie
Si udì solo il lieve rumoreggio
Dei cristalli, del vetro
Degli argenti e dei tacchi baldanzosi
Sulla lustre superficie lapidea
Mentre una nobildonna
Cinse l’orlo del suo calice
Di mezzo Bordeaux
Col polpastrello dell’indice
Con aria totalmente assente
Scrutandovi al suo interno
Un’inequivocabile forma di privazione.
Nella follia
Sopraggiunta a fine banchetto
Ci cannibalizzammo
Come in una tela di Goya
Le lumiere e le pareti iridescenti
Fecero da decoro a tale apoteosi
Le interiora e il cruore a fiotti
Salirono per poi rovinare
Sull’esteso ripiano del gozzoviglio arruffato
Il delirio si protrasse fino all’alba
Allorquando i corpi martoriarono
Nell’ebrezza di una concupiscenza
Inappagabile, iniqua e deviante
Nobuyoshi ne avrebbe tratto
Il suo incommensurabile
Raggiungimento artistico
In disparte
La scopofilia
Si impossessò degli asserventi
Commedianti che lucravano
Su quel carname aristocratico e amorfo
I muscoli mandibolari
Stavano allo stremo delle forze
L’ossario fu eretto
E l’intensa fragranza del soffritto
Venne sopraffatta
Dal greve annido
Della nostra ultima metamorfosi
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