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La botte di Diogene

Esco dall’università con la mente talmente in effervescenza che il mio corpo non riesce a contenerla. L’intuizione di qualcosa di non ancora ben precisato è una scossa di adrenalina, come se mi avessero consegnato le chiavi dell’universo.
Cammino velocemente al ritmo incalzante dei pensieri germinati in quell’ora di lezione su Diogene.
L’avevo già studiato di sfuggita al liceo, come filosofo minore, ma non lo avevo mai considerato veramente se non all’ombra di Platone e Aristotele.
Eppure oggi qualcosa mi ha colpito. Di solito si sente parlare di cinismo in termini dispregiativi, quando non viene sventolato come un vestito alla moda. Come al solito i concetti filosofici ridotti ad uso e consumo della massa perdono di profondità. Rimane solo ciò che fa clamore.


I miei passi rimbombano sul marciapiede, confusi a quelli di altri passanti che di fretta si rifugiano in un negozio piuttosto che in un altro. E’ la vigilia di Natale. La festa dei regali sta per arrivare e l’abbondanza sta per travolgerci: cibo, vino e doni inonderanno le nostre case solamente fra qualche ora.


Un senso di distacco mi protegge dalla folla, un’intuizione mi separa dal resto del mondo, dall’illusione in cui ci avvolgiamo come in calde coperte.


In questi momenti sento che lo studio della filosofia equivale a una vocazione, difficile da sopportare: un sentiero dentro la solitudine.
Eppure lo studio delle scuole ellenistiche mi ha fatto anche comprendere che alla fine del sentiero c’è la pace e la possibilità di ritornare al commercio umano con uno sguardo diverso.


Questo sento, questo sto vivendo, come una semplice intuizione da esperire.


La notte è fredda e sebbene riscaldato dal fuoco dell’intuizione, mi affretto verso casa, per sedermi in silenzio sul letto e lasciare andare la mente, rilassarmi.


Prendo una scorciatoia attraversando un vicolo fra due palazzi. Non c’è nessuno, solo l’eco dei miei passi e del battito accelerato del mio cuore. Una sagoma scura, avvolta in stracci e cartoni attira la mia attenzione. Sta dormendo o forse finge di dormire. Di lato alcune bottiglie vuote e una piccola scatola con un cartello scritto con mano incerta “Oggi non so se mangerò, chissà”.
Il fuoco dell’intuizione che fino a poco prima mi animava, in un istante si è spento, raffreddato dallo scontro con la realtà.
Prendo dalla borsa a tracolla, la merenda che mi ero portato all’Università e che avevo dimenticato di mangiare e la lascio vicino al cartello.
Mi incammino di nuovo verso casa con un senso di inutilità e di rabbia dentro.


A cosa serve la filosofia, se la realtà è pronta ad ogni istante a contraddirla?


La tavola è già imbandita, addobbata a festa, con tutti quei fronzoli che mia madre, abile prestigiatore, tira fuori da una scatola dorata nascosta in soffitta per il resto dell’anno e che da bambino mi era vietato toccare. Mi ha sempre incantato la dedizione rituale con cui ogni 8 dicembre mia madre trasformava la nostra casa da normale appartamento di periferia in un luogo incantato, dove la magia era reale e la speranza palpabile.


I parenti d’obbligo cominciano ad arrivare. Ci sono il fratello di mia madre con la moglie e i suoi due figli, di 11 e 13 anni, che arrivano sempre in anticipo, sempre in tempo per non perdersi nemmeno un istante di quel rito di famiglia: i sorrisi indossati per l’occorrenza, i regali incartati con l’ipocrisia, attenti a non lasciarsi sfuggire nessuno spunto per i pettegolezzi dei prossimi mesi.
Il fratello di mio padre e sua moglie, invece, arrivano sempre con almeno mezz’ora di ritardo, trafelati, imprecando immancabilmente contro i parcheggi selvaggi del nostro quartiere.


Io, come ogni anno, mi rifugio nella mia fredda stella solitaria, lontana anni luce, punto di osservazione interessante di ogni umana debolezza.
Sono da sempre il parente strano della famiglia, privo di simpatia e gentilezza.
- Come vanno gli studi - mi chiede mio zio materno.
- Bene grazie.
- Hai già pensato a cosa farai dopo? Se ti serve una raccomandazione non esitare.
- grazie zio, non credo mi servirà.
- Hai la ragazza? - si interessa mia zia.
- No.
- Sarebbe ora che ti sistemassi. Tuo padre alla tua età era già sposato. Non vedo l’ora di prendere in braccio un nipotino.
- Non credo tanto presto, zia
Non c’era ovviamente spazio per altre conversazioni.


Rifugiatomi, con una scusa, in camera mia, i pensieri ritornano alla lezione su Diogene, l’uomo che osò chiedere ad Alessandro Magno di spostarsi perché gli copriva il sole.
Mi trovo a sorridere del surreale teatrino che ogni anno si ripete, dai regali vuoti d’anima ai pettegolezzi intorno ad una tavola imbandita.
Poi il mio pensiero va a chi vive ai margini, a chi per necessità o per scelta non partecipa a questa follia e, come un pungolo, ci ricorda che tutto passa, che ogni cosa è vuota, che ciò che riteniamo importante lo è solo perché noi gli diamo valore, un valore illusorio su cui costruiamo questo mondo di vanità.
Disgusto, paura, rabbia, impotenza, sono solo alcuni dei sentimenti che i cosiddetti senza tetto ci ispirano; le nostre certezze vacillano e forse andando a cercare l’uomo in pieno giorno con una lanterna, come fece Diogene, troveremmo solo maschere senza volto.
Oppure impareremo la lezione e riusciremo a godere di quel raggio di luna che attraversa la mia finestra per andare a giocare sul pavimento della mia camera.
Sorrido e mi addormento sereno, nella convinzione che la vita sia più semplice di come ce la vogliono vendere, finché si ricordano di me e bussano insistentemente alla mia porta ricordandomi che la cena è pronta e la commedia continua.
- Due minuti ed arrivo!
Forse basta imparare a non prenderla troppo sul serio e a ridere.




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Racconto scritto il 24/03/2024 - 18:32
Da Cristina T
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