Classe seconda media, dai due finestroni laterali entrava il brutto tempo e le luci a neon erano accese tanto per rattristarci un po’.
Era l’ora di educazione tecnica, chissà perché avevamo due insegnanti: uno giovane e buono e l’altro vecchio e cattivo; non avevamo mezze misure in classe e bicchieri mezzi pieni o mezzi vuoti non esistevano.
A pensarci “quello vecchio” non era poi davvero cattivo, diciamo che si arrabbiava per pochissimo, ma era fatto così. Entrava spesso in aula in ritardo, dicendo che aveva trovato traffico e intanto poggiava sulla cattedra due grosse buste di plastica da cui sporgevano ciuffi di insalata. Spesso rimproverava Ottavio. “Che deve dire tuo padre?” gli urlava e Ottavio rispondeva: “E’ morto!”. “Ah, mi dispiace!” si rammaricava lui, ma poi andava avanti con quella cantilena tutto l’anno.
Eravamo impegnati in una proiezione ortogonale che “quello giovane e buono” aveva illustrato alla lavagna.
Io invece avevo deciso di scambiarmi con Aristide, che era seduto davanti a me, simpatici insulti scritti su un foglietto di carta, raccattato chissà dove.
Io vergavo un insulto, una parolaccia un’oscenità sul foglietto e glielo lanciavo, lui la leggeva, ne scriveva un’altra più oscena e mi restituiva il foglietto.
La corrispondenza andò avanti fino a quando il professore vecchio mi sorprese con il foglietto in mano sul quale ormai era redatta un’antologia di parolacce.
“Portami quel pezzo di carta!” mi urlò dalla cattedra. Mi aveva visto attraverso le foglie di insalata. Risposi che non c’era nulla di importante sopra, ma non dovevo essere stato troppo credibile perché mi ordinò di nuovo di portarglielo. Per tutta riposta appallottolai la carta e la gettai sotto il banco. Avrei potuto anche inghiottirla come avevo visto in qualche film. Non fu la soluzione più furba, perché accese la sua curiosità al punto da spingere indietro la sedia che, sopra la pedana di legno che reggeva la cattedra, provocò un rumore così terribile da far venire i brividi a tutta la classe. Si avvicinò a me furioso. Prese il foglietto appallottolato, lo spiegò, lo esaminò attraverso le varie diottrie e mostrandomelo mi chiese: “Perché non volevi farmelo vedere?”. Sul foglietto stropicciato si vedeva a malapena, disegnata a matita, la faccia di un triangolo sul piano orizzontale e laterale. “Non volevo farmi scoprire mentre passavo degli appunti al compagno!” dissi io, “Ma no! Fate bene ad aiutarvi!” Rispose lui tornando alla cattedra mansueto e pure soddisfatto.
Se solo avesse girato il foglietto avrebbe letto la lunga lista di oscenità tra l’altro ben più visibili dello schizzo a matita.
Era l’ora di educazione tecnica, chissà perché avevamo due insegnanti: uno giovane e buono e l’altro vecchio e cattivo; non avevamo mezze misure in classe e bicchieri mezzi pieni o mezzi vuoti non esistevano.
A pensarci “quello vecchio” non era poi davvero cattivo, diciamo che si arrabbiava per pochissimo, ma era fatto così. Entrava spesso in aula in ritardo, dicendo che aveva trovato traffico e intanto poggiava sulla cattedra due grosse buste di plastica da cui sporgevano ciuffi di insalata. Spesso rimproverava Ottavio. “Che deve dire tuo padre?” gli urlava e Ottavio rispondeva: “E’ morto!”. “Ah, mi dispiace!” si rammaricava lui, ma poi andava avanti con quella cantilena tutto l’anno.
Eravamo impegnati in una proiezione ortogonale che “quello giovane e buono” aveva illustrato alla lavagna.
Io invece avevo deciso di scambiarmi con Aristide, che era seduto davanti a me, simpatici insulti scritti su un foglietto di carta, raccattato chissà dove.
Io vergavo un insulto, una parolaccia un’oscenità sul foglietto e glielo lanciavo, lui la leggeva, ne scriveva un’altra più oscena e mi restituiva il foglietto.
La corrispondenza andò avanti fino a quando il professore vecchio mi sorprese con il foglietto in mano sul quale ormai era redatta un’antologia di parolacce.
“Portami quel pezzo di carta!” mi urlò dalla cattedra. Mi aveva visto attraverso le foglie di insalata. Risposi che non c’era nulla di importante sopra, ma non dovevo essere stato troppo credibile perché mi ordinò di nuovo di portarglielo. Per tutta riposta appallottolai la carta e la gettai sotto il banco. Avrei potuto anche inghiottirla come avevo visto in qualche film. Non fu la soluzione più furba, perché accese la sua curiosità al punto da spingere indietro la sedia che, sopra la pedana di legno che reggeva la cattedra, provocò un rumore così terribile da far venire i brividi a tutta la classe. Si avvicinò a me furioso. Prese il foglietto appallottolato, lo spiegò, lo esaminò attraverso le varie diottrie e mostrandomelo mi chiese: “Perché non volevi farmelo vedere?”. Sul foglietto stropicciato si vedeva a malapena, disegnata a matita, la faccia di un triangolo sul piano orizzontale e laterale. “Non volevo farmi scoprire mentre passavo degli appunti al compagno!” dissi io, “Ma no! Fate bene ad aiutarvi!” Rispose lui tornando alla cattedra mansueto e pure soddisfatto.
Se solo avesse girato il foglietto avrebbe letto la lunga lista di oscenità tra l’altro ben più visibili dello schizzo a matita.
Racconto scritto il 05/08/2016 - 16:52
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