canticchiando un lepido motivetto come lo sbuffo di una locomotiva,
ad ogni passo si alza la gonna ora con la mano destra ora con la sinistra.
Sul cemento è segnato un costipato coacervo di rettangoli.
Sorride e sorride e i suoi denti scarlatti tremano di insonnia e di brama,
dell’ultima forma su cui andrà a poggiare il piede, l’ultima, la più ambita,
mentre la gonnella le si alza sul ginocchio gigioneggia sul ginocchio.
Due occhi la guardano da là in fondo, sono due occhi come quelli di un gatto o di un’upupa.
Le palpebre sbattendo frizzano nell’aria come una manciata di cicale d’estate
e l’oblio ad ogni chiusura di quel guardare vela le movenze della nostra della vostra.
Una cantilena sonda le profondità della sua ugola puerile ed esce fuori come un gutturale grido,
come anatema stridulo e anfanante: piccole crepe si aprono nel cemento e vi escono mani.
Si volta indietro ma è senza faccia è solo un manichino che saltella con la gonna plissettata,
con quella smorfia e la pettinatura un po’ retrò e una manciata di monete nelle tasche,
le calze corte fanno lievi smorfie sulle caviglie e l’occhio non la smette mai di guardarla.
Incombe su di lei come incombe su di noi il fato e il peso del tempo e il passare dei giorni,
uno ad uno secondo dopo secondo minuto dopo minuto ora dopo ora giorno dopo giorno
anno dopo anno, una goccia al giorno come la stilla dalla grondaia
e le nostre mani a coppa a cercare di farsi riempire da quel microscopico gocciolìo, di prendere una goccia, qualcosa da piluccare, qualcosa dal tavolo grande.
E gli altri se ne stanno fuori ad ammutolire e a lagnarsi e ad imprecare e a frugare tra i vestiti
e ad alzare un lembo e a scoprire una coscia e ad erigere un palazzo.
Gli altri fuori non possono far nulla per la ragazza dalla gonna plissettata,
aspettano che il vento gliela tiri un po’ su.
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