che urgenza di recuperare il lino.
Erano giorni caldi, apocalittici, erano giorni apoplettici.
Si aspettava che un po’ di acqua cadesse a lavar via un po’ di calura e l’onta.
Vecchio sole scuro, perché non esci, perché non esci?
Bastonate sulla batteria, altro che tocco sopraffino,
sembra che far scorrere il tempo sia la nostra ossessione,
lo tiriamo di qua e di là, ma è come una coperta troppo corta.
Potremo far di più, potremo, potremo scrivere meglio, sì, potremo.
Rimette più edulcorate, un po’ più levigate e pensieri più leggeri,
parliamo del vento e della brezza mattutina, delle gocce di rugiada,
del luccichio del sole sul lago.
Abbiamo una fascia nera legata alla vita.
Sulle cosce disegniamo lunghe linee nere, la mattina.
A lume di candela facciamo origami che rivendiamo verso Natale,
la vera vita l’abbiamo già vissuta, questo lo sappiamo,
la vita che ci attende è posticcia, è una gibigiana sul vetro.
Ci mettiamo il turbante in mezzo ai musulmani e ci vestiamo a lutto nelle chiese;
“le vostre facce non sono il miglior argomento contro voi stessi?”,
mentre arrotondiamo le nostre labbra in lauti sorrisi sui banchi di governo.
Col nostro teschio in mano, sì vecchio sole nero: non hai intenzione di comparire?,
e colle orbite vuote ci chiediamo ancora chi siamo, chi noi siamo,
quali sono i nostri nomi, non è una tartuferia,
non è un inganno.
Pieni di vasi vuoti, i nostri arredi intorcono sagome nelle nostre paludi,
nelle sabbie mobili, in cui propedeuticamente abbiamo introdotto
le nostre personali trappole.
Qualcuno ci è cascato facilmente.
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