“si, pronto “
“oi Kal che fai ora?”
“niente, facciamo un caffè? “
“ti ho chiamato per questo.”
“dai, a fra poco”.
Pochi minuti e ci trovammo nella cucina del collegio a chiacchierare, mentre lento e borbottante saliva il caffè.
Spesso ci si ritrovava li, e nell’ultimo periodo in particolare eravamo più incoraggiati ad andarci, chè una ragazza, molto affascinante e carina che abitava li, s’affacciava a prendersi un caffè con noi. Ovviamente essendosi Buch fidanzato da un po’ con Fra, ero io ad interessarmi ad Elena, così si chiamava, e abbarbagliavo Buch ogni pomeriggio per prenderci il caffè con lei almeno finché io stesso non sarei riuscito ad ottenere più confidenza. Perciò eravamo li anche quel pomeriggio, l’ambiente era calmo, fuori soffiava il vento e il cielo era grigio come il pavimento della cucina e pareva di essere avvolti da nebbiolina piatta, oltretutto, regnava il silenzio. Non una voce. Dopo un po’, il caffè era pronto, le sigarette rollate, e lei, così stupenda entrò. I suoi capelli tinti di nero d’ossa, come neve candida calavano valanga sulle sue spalle femminine ma resistenti. E i suoi occhi s’illuminavano ad intermittenza, come alcune stelle del cielo nella notte di San Silvestro. Poi, sinceramente, non ricordo altro. La mia mente se il mio cuore batte troppo non riesce a memorizzare i tratti. E in quel caso batteva abbastanza. Quando entrò feci finta di nulla. Per un secondo, poi pacato salutai
“ciao Elena”
Poi Buch ripetè anch’esso, poi lei di risposta
“ciao ragazzi” con un sorriso stanco, ma dalla forma bella come la luna dopo il plenilunio. Ci mettemmo a parlare, parlava d’arte mentre i suoi soliti occhi danzavano, talvolta sulle mie pupille e talvolta su quelle di Buch. Parlava di Pollock e Salle di Kubin e Schiele, stava studiando le avanguardie e tutto il ‘900
“un periodo d’oro!” ripeteva distendendo le labbra e aggrottando le sopracciglia. Stavo anch’io studiando le avanguardie ed era piacevole ascoltarla. Ero perso nel suo viso, quasi non parlavo, quasi sudavo, ma nulla traspariva ne dai miei occhi ne dalla mia gestualità, tutto andava bene. Di lì a poco ci salutammo, augurandoci, tutti a vicenda, buono studio, buon pomeriggio e buona sera. Lei, quindi, se ne stava andando con i suoi capelli lisci verso la porta. La apre. Fa per uscire . Ed io, preso da un impeto d’orgoglio e formicolio di stomaco, la fermai.
“ELENA!”
E si fermò, e girandosi sorrise, e si, ancora una volta. Ed io, ancora una volta, perso nel suo sguardo, in quell’attimo spento che quasi tremavo le dissi
-Mi daresti il tuo numero? -
e poi, prendendo brevemente fiato
– magari domani ci sentiamo per prendere il caffè-
Me lo dette e salutando se ne andò. Da quel momento un po’ per paura, un po’ per orgoglio non la chiamai mai. E lei, non s’affacciò più per il caffè; Un po’ per orgoglio, un po’ per amor proprio. Non s’affacciò più per il caffè
“oi Kal che fai ora?”
“niente, facciamo un caffè? “
“ti ho chiamato per questo.”
“dai, a fra poco”.
Pochi minuti e ci trovammo nella cucina del collegio a chiacchierare, mentre lento e borbottante saliva il caffè.
Spesso ci si ritrovava li, e nell’ultimo periodo in particolare eravamo più incoraggiati ad andarci, chè una ragazza, molto affascinante e carina che abitava li, s’affacciava a prendersi un caffè con noi. Ovviamente essendosi Buch fidanzato da un po’ con Fra, ero io ad interessarmi ad Elena, così si chiamava, e abbarbagliavo Buch ogni pomeriggio per prenderci il caffè con lei almeno finché io stesso non sarei riuscito ad ottenere più confidenza. Perciò eravamo li anche quel pomeriggio, l’ambiente era calmo, fuori soffiava il vento e il cielo era grigio come il pavimento della cucina e pareva di essere avvolti da nebbiolina piatta, oltretutto, regnava il silenzio. Non una voce. Dopo un po’, il caffè era pronto, le sigarette rollate, e lei, così stupenda entrò. I suoi capelli tinti di nero d’ossa, come neve candida calavano valanga sulle sue spalle femminine ma resistenti. E i suoi occhi s’illuminavano ad intermittenza, come alcune stelle del cielo nella notte di San Silvestro. Poi, sinceramente, non ricordo altro. La mia mente se il mio cuore batte troppo non riesce a memorizzare i tratti. E in quel caso batteva abbastanza. Quando entrò feci finta di nulla. Per un secondo, poi pacato salutai
“ciao Elena”
Poi Buch ripetè anch’esso, poi lei di risposta
“ciao ragazzi” con un sorriso stanco, ma dalla forma bella come la luna dopo il plenilunio. Ci mettemmo a parlare, parlava d’arte mentre i suoi soliti occhi danzavano, talvolta sulle mie pupille e talvolta su quelle di Buch. Parlava di Pollock e Salle di Kubin e Schiele, stava studiando le avanguardie e tutto il ‘900
“un periodo d’oro!” ripeteva distendendo le labbra e aggrottando le sopracciglia. Stavo anch’io studiando le avanguardie ed era piacevole ascoltarla. Ero perso nel suo viso, quasi non parlavo, quasi sudavo, ma nulla traspariva ne dai miei occhi ne dalla mia gestualità, tutto andava bene. Di lì a poco ci salutammo, augurandoci, tutti a vicenda, buono studio, buon pomeriggio e buona sera. Lei, quindi, se ne stava andando con i suoi capelli lisci verso la porta. La apre. Fa per uscire . Ed io, preso da un impeto d’orgoglio e formicolio di stomaco, la fermai.
“ELENA!”
E si fermò, e girandosi sorrise, e si, ancora una volta. Ed io, ancora una volta, perso nel suo sguardo, in quell’attimo spento che quasi tremavo le dissi
-Mi daresti il tuo numero? -
e poi, prendendo brevemente fiato
– magari domani ci sentiamo per prendere il caffè-
Me lo dette e salutando se ne andò. Da quel momento un po’ per paura, un po’ per orgoglio non la chiamai mai. E lei, non s’affacciò più per il caffè; Un po’ per orgoglio, un po’ per amor proprio. Non s’affacciò più per il caffè
Opera scritta il 15/09/2016 - 20:11
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Commenti
Il sunto delle occasioni perse. Finale a sorpresa. Ben scritto coinciso e diretto
Ilario Lekin 15/09/2016 - 20:36
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