Il negozio di casalinghi - Parte 1 di 2
A sedici anni a differenza dei miei compagni di scuola che amavano spendere l’intera estate solo ed esclusivamente all’insegna del cazzeggio più totale, mi misi in testa di darmi seriamente da fare, guadagnarmi dei soldi ed essere più indipendente poiché le diecimila lire settimanali del babbo non le ritenevo più sufficienti e di conseguenza desideravo incrementare le entrate.
Da precisare la totale assenza di vizi o di altro tra cui per esempio non fumavo e non c’era uno scooter o una fidanzatina da “mantenere”, si insomma, non avevo urgenti esigenze, ma perlomeno se il mio obbiettivo fosse andato a buon fine, mi sarei potuto passare degli sfizi in più, come la pizza del fine settimana, l’acquisto di fumetti, videogames per il PC e film in DVD, oppure denaro che avrei speso per il vestiario.
Una grande e reale forza di volontà, del resto in quel periodo uno dei miei aforismi prediletti era quello di William Shakespeare “I nostri corpi sono i nostri giardini dei quali le nostre volontà sono i giardinieri.”
Oltre che per una questione materiale, la mia idea scaturì anche per una questione morale, volevo dimostrare ai miei genitori il mio valore, di quanto mi sentissi responsabile e contraddistinguermi dagli altri ragazzi perdigiorno, con la mano continuamente tesa a chiedere soldi con fare pretenzioso.
Dopo una settimana di ricerca, con la scusa di comprare una caffettiera a mia madre, decisi di entrare per propormi a lavorare in un negozio di articoli casalinghi gestito da quattro persone, ovvero due anziani coniugi e i loro due rispettivi figli, Pino e Mario, entrambi poco più che quarantenni.
Il primo, lavoratore indefesso, creativo e appassionato al suo lavoro tanto che le sue letture preferite erano sempre tutto ciò che riguardava la casa e la cucina, annoverato come l’artefice per la riuscita ed eccellente strutturazione del negozio, un uomo davvero in gamba che sapeva come destreggiarsi con i clienti, tanto che per rendere ancora meglio l'idea è doverosa questa citazione:
Era cosi bravo che riusciva a vendere i ghiaccioli e le granite agli eschimesi.
Il secondo fratello nonché il maggiore, al contrario era uno scansafatiche e si occupava a suo modo della contabilità del negozio, ovvero a far quadrare i conti, a versare gli incassi in banca, il disbrigo e il pagamento delle ricevute (dette comunemente RI.BA) del materiale acquistato dai fornitori, inoltre avendo spesso e volentieri il denaro tra le mani, qualcosa finiva indebitamente nelle sue tasche. Ah che bella cosa intascare e non lavorare!
A livello fisico, come già si è intuito, dava il meglio, anzi il peggio di sé.
Era il classico tipo che quando c’era da “sudare”, per prima cosa spariva per imboscarsi Dio sapeva dove, per poi a lavoro finito, asciugarsi la fronte con un fazzoletto di carta e domandare con una faccia di culo:
«Serve una mano?» e con le successive e immancabili imprecazioni del padre, che conoscendo bene il figlio, sapeva di quanto fosse stronzo e pigro.
Ad ogni modo i genitori erano i veri proprietari, rigorosamente all’antica e ahimè assai intransigenti.
Il signor Gino un ottantenne dall’incazzatura facile e sempre su di giri, e la signora Ada di cui era l’intestataria, (difatti il nome completo del negozio era “Palazzo Ada - Casalinghi”), una malandata settantaquattrenne che puzzava perennemente di piscio, autoritaria e dallo sguardo furbo.
“La vecchia” questo fu il soprannome che le affibbiai.
Molto spesso i clienti facevano confusione, perché pensavano che il proprietario fosse il marito e difatti si rivolgevano sia a lui e sia ai figli con “Signor Palazzo”, mentre in realtà il loro cognome risultava Simoni ma nonostante ciò, non rettificavano e non contestavano mai l’inesattezza, in fin dei conti il cognome della signora Ada era il loro marchio di fabbrica.
La “famiglia” Palazzo per di più aveva una nomea non proprio positiva: essere particolarmente avari, di una tirchieria unica e inaudita ed erano soprannominati “Gli ebrei”.
La loro politica dei prezzi era irremovibile e solo dinnanzi a spese più elevate potevano scontare al massimo cinque mila lire. Cinque mila lire… non di più!!!
Non erano rari i casi in cui i clienti si offendevano del mancato o esilissimo sconto e che dopo una serie di discussioni concitate, giuravano che non si sarebbero mai più fatti vedere ma per necessità alcuni ritornavano eccome, chi a testa basta, e chi invece indifferente come se nulla fosse successo.
Il motivo di tale preferenza? Il negozio era molto completo, attrezzato con merce di qualità e avviato da moltissimo tempo (circa ottant'anni, gli ex proprietari erano i genitori della signora Ada), la gente andava sempre e comunque a fare i propri acquisti e, specie nei periodi festivi ed estivi, il pienone era assicurato.
All’epoca dei fatti, i cinesi in ambito casalinghi non avevano ancora voce in capitolo (al contrario dei negozi di vestiti che pullulavano ovunque) e aggiungendo la poca concorrenza da parte di altri esercenti barcellonesi, ciò contribuiva ancor di più a favorirli.
«Sì! Mi piacerebbe lavorare qui! » pensai quando entrai da loro quel famoso venerdì di fine Giugno e per giunta consapevole della loro famosissima nomea. Mi ero intestardito, volevo assolutamente provarci.
Per mia fortuna, quell’anno alle superiori non mi diedero nessuna materia da recuperare a settembre, ma ci mancò poco che mi rimandassero nell’odiosissima elettronica, che, grazie ad alcuni stentati 6, riuscii ad evitare.
Dopo aver pagato 12.000 lire per la caffettiera, dissi ai proprietari che ero libero per tutta l’estate ed esente dagli impegni scolastici, e chiesi se potevo lavorare per loro, garantendo la mia puntualità e serietà.
Restarono stupiti del mio entusiasmo e mi invitarono a venire l’indomani pomeriggio, una mezza giornata di prova per constatare la mia idoneità. Ero felice, e mi ripromisi di fare una bella figura. Quel sabato pomeriggio ancor prima dell’apertura del negozio mi trovai già li.
Essendo la mia prima esperienza lavorativa e poco pratico, la prova non andò esattamente a buon fine ma decisero comunque di tenermi.
Mi valutarono un ragazzo troppo buono, educato, volenteroso e che in termini lavorativi mi avrebbero “cresciuto” loro e… sfruttato come ahimè saggiai in seguito sulla mia pelle.
Ci accordammo innanzitutto sugli orari: la mattina dalle 7:50 fino alle 13:00, mentre il pomeriggio dalle 15:30 alle 20:30 dal lunedì al sabato, ma scoprii abbastanza presto che sfortunatamente tali orari non sempre venivano rispettati a causa dei clienti ritardatari o dei corrieri (quasi tutti provenienti dalla Calabria), con i loro camion strapieni di merce da scaricare e sistemare quasi sempre in magazzino e di conseguenza la chiusura sforava fino ai tre quarti d’ora.
Avevo però il vantaggio di abitare vicinissimo, a circa 300 metri, anche se in verità quel soverchio di lavoro mi irritava profondamente poiché come giusto che era, all’orario di chiusura ero stanchissimo, stressato, affamato e volevo semplicemente ritornarmene a casa. Ai proprietari ovviamente non interessava. Quel negozio, oltre che una fonte di guadagno, rappresentava tutta la loro vita e il loro primario intesse.
Dopo aver discusso degli orari, passammo al discorso retribuzione.
Mi dissero che, data la mia giovane età e la mia inesperienza, mi avrebbero potuto pagare 50.000 lire a settimana, con la promessa che la paga in seguito sarebbe aumentata, e aggiunsero che se avessi deciso di venire anche nel periodo scolastico, precisamente nei pomeriggi, avrei percepito 30.000 lire, poco più della metà.
Inizialmente tentennai, barcamenarsi in due imprese non sarebbe stato facile, anche perché da settembre avrei frequentato il terzo anno delle superiori all’ I.P.S.I.A e prevedevo un anno impegnativo con l’introduzione di nuove cose da studiare.
Fu la signora Ada a togliere le castagne dal fuoco:
“A noi un ragazzo serve, facciamo cosi: quando torni dalla scuola, pranzi, studi e alle 16: 00 vieni qui da noi per lavorare, va bene Giusippeddu?”, mi disse con tono invitante.
Feci i miei calcoli.
I soldi non erano tanti ma erano pur sempre meglio di niente, le ore pomeridiane da impiegare per lo studio pensai che mi sarebbero bastate e con il proposito che la sera avrei potuto pur sempre continuare, la voglia di lavorare non mancava e infine nonostante non mi conoscessero bene e senza sapere se mi sarei dimostrato un valido lavoratore, mi avevano elargito fiducia fin dal primo momento, tanto da propormi di continuare a lavorare pure dopo l’estate.
Calcolai inoltre che avrei accumulato pur sempre un’utilissima esperienza e che non sarebbe stata una cattiva idea rimanere il più possibile, per poi terminare una volta chiamato a svolgere il servizio militare di cui non vedevo l’ora di partire in quanto ambivo di far carriera nell’esercito. Fu cosi che accettai la proposta della “vecchia” e il lunedì successivo iniziò letteralmente il mio calvario e per adattarmi mi ci volle parecchio tempo.
A parte le note negative citate poc’anzi (gli orari non proprio comodi e i soldi che erano pochi), bisogna sottolineare che era molto difficile lavorare con i “Palazzo”, erano severi e autoritari, magari a volte si ammorbidivano con me, probabilmente temevano che mi sarei stancato e licenziato.
Il magazzino era il mio regno e allo stesso il mio nascondiglio nelle giornate in cui ero sfiancato, mi sedevo perlopiù sopra un grande scatolone sigillato contenente tappi di bottiglia, oppure sopra una pila di vasi di vetro per le acciughe salate, ma riposare risultava un eufemismo, come da copione venivo chiamato immancabilmente da uno dei quattro per svariati motivi. Guai a farmi scoprire seduto da qualche parte, per loro dovevo lavorare sempre e comunque.
Venivo spesso rimproverato, trattato in malo modo, e se manifestavo un esigenza come quella di assentarmi per un impegno sbraitavano come cani. Non avevano modi, in particolar modo la signora Ada, un autentico sergente di ferro.
Anche i clienti contribuivano a complicarmi la vita, tantissime volte si dimostravano pesanti, cocciuti, maleducati e per di più con l’assenza di comprensione da parte dei miei “padroni”.
La vendita della merce era regolamentata in base alla stagione, in estate ad esempio si vendeva per la maggiore tutto ciò che riguardava i pomodori destinati per le conserve (vasetti, tappi, spremipomodori elettrici o manuali, caldaie in alluminio etc…) mentre a Natale la gente si orientava nell’acquisto dei regali, prevalentemente articoli da cucina, e chi aveva tanti soldi non badava di certo a spese, acquistando costosi caquelon per fondue, o Vin Bouquet per gli appassionati sommelier e tant’altro, prodotti assolutamente non cinesi ma realizzati con cura e alta qualità nel Nord Italia, in Germania, in Svizzera, in Austria, in Olanda e nella Scandinavia.
Ovviamente il Made in China era presente, destinato per chi voleva spendere in maniera contenuta e con un vasto assortimento su cui poter scegliere. I perditempo non erano affatto rari, addirittura alcuni di essi erano spie mandati da altri commercianti, per indagare sui prezzi e sulla merce in vendita oppure gente che dopo duemila di domande se ne usciva comprando un tappo di sughero da cinquanta centesimi.
Una volta una signora acquistò un schiaccianoci di colore azzurro di soli tre euro e volle fatto un pacchettino per regalarlo ad una sua amica. Ce ne era di gente curiosa e posso affermare con certezza che ogni giorno mi stupivo sempre di più.
“Stagione che fai, clienti bizzarri che trovi”. Questo era il mio motto.
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Se tornassi indietro non so se rifarei tutto ma conservo comunque molti aneddoti divertenti di cui meritano di essere raccontati, come "Il bidone" che ho scritto e pubblicato qui qualche anno dopo.
Buon 2019 a te a tutti gli amici di Oggi Scrivo.
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Un seguitato letterario che esalta le tue qualità artistiche e non solo... dal tuo animo il nobile che si espande.
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Lieto meriggio