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Martino e Lucilla nei pressi del misfatto

Seguito di “Simone e i gattini”, racconto già pubblicato.


Io (Martino n.d.a.) e Lucilla eravamo ai confini delle gole, un tuffo nella vegetazione per schermare il nostro affetto; immersi nel suggestivo paesaggio, ammiriamo una terra nel suo incanto d'autunno, e si scioglie la sorpresa di una crescente passione. Lucilla comprendeva l'amore mio per lei, ma non comprendeva il mio silenzio. Nella speranza che tra un giorno o un altro... ritarda ma nessun trattiene la scadenza. I miei passi si bloccarono ed io mi voltai tenendogli la mano, sorridendo, dissi: «Siamo impacciati tra questi sterpi», Lucilla mi guardò forse con compassione e rispose: «Continua, è l'ultima passeggiata che facciamo prima che discendano le acque...».
«Quanti tipi di foglie cadono, quante ne calpestiamo, ognuna rappresenta un sogno, ognuna cade». La osservavo e lei mi derise: «Immagine poetica ma sbagliata. Gli aghi là sopra che sogni sono?».
«L'Immagine vera e poetica viene da te», risposi io, «Sono dardi, calpestiamo quelli che non ci trafiggono, ma altri sono in attesa».
Lucilla fletté le gambe, colse da terra gli aghi, più volte, nel pugno li stritolava per ributtarli a terra: «Ecco, lo vedi, sono innocui. Non pungono e non feriscono. E ne possono caderci addosso quanto si voglia: non opprimono, non simboleggiano un bel niente. Usa questa tua immaginazione per un lavoro, tanti soggetti, infinitamente impari alla tua sensibilità, si spacciano per poeti e pensatori, riescono pure ad arricchirsi».
Sarebbero bastate queste vere parole, dette con saggezza, per ribaltare e superare quella stagione. In fin dei conti era una sola stagione, temporanea proprio per il suo essere stagione, ma pareva compenetrasi in me, in violazione delle leggi universali, per diventare eterna.
Sorpresa e meraviglia, un mulinello si formava dinnanzi a noi. Una foglia e alcuni granelli, ai quali si aggregava, come una danza, tutte ciò che di più leggero stava attorno. E si erigeva e si ampliava una spirale convulsa, ammirammo una torre di elementi imprecisati.
«Da quale piccolezza si è creato questo monumento!», commentò Lucilla.
« Se avesse raccolto un tronco, non staremo qui a meravigliarci», io ironizzai.
«Ecco il contrappunto negativo», rispose. Fui imbarazzato. Rimediai imitando saggezza:
«No. Volevo evidenziare come l’elemento base, se è buono, inonda tutto e lo fa diventare buono, se è cattivo, diventa tutto maledetto».
«E sì, Martino, prendilo come monito, e sia buono il tuo inizio».
Trattenni in animo un nuovo contrappunto negativo: quando possiamo capire se abbiamo iniziato bene, se non quando non possiamo più rimediare? Allora non resta che vedere in tutto un bene, credere che in fine, dopo questa vita, qualcuno trasformerà tutta la nostra miseria. E se soffriamo bene ne riceveremo premio. Saremo beati quando ci rifugeremo nel bene, ma qui chiediamo già riparo nella sua dimora e il premio è avere oggi il bene. Ci conceda Dio ciò che è suo, quanto dell’uomo se lo tenga l’uomo e lo rapini ancora ai suoi simili, questo diverrà sempre più a lui non simili. Il bene che l’ uomo ha creato con giustizia, concede eterno godimento del nome uomo, ed altro ad esso non si deve attribuire, e tutti gli altri rimasti invischiati nelle sue inferiori capacità mortali non gli neghino la gloriosa umanità.
«Sei pensieroso più del solito», mi osservava Lucilla. Io mi scossi:
«Pensavo ancora a quel vortice, una meraviglia».
«Che ne diresti di condividere la tua meraviglia», Lucilla mi stuzzicò.
«Non siamo stati insieme ad estasiarci? e bene, non conta nulla per te che, in quell’istante, qualche cosa di meraviglioso ci ha uniti?».
«Con gli occhi brillanti, ma era la polvere».
«No, che non era solo…».
«L’istante per solo te è proseguito…».
«Non fartene una colpa».
«Fu sempre però una unione di un istante…».
«Riprendiamo allora intenti a cercare qualcosa di estasiante...»
E fissammo gli sguardi
«… Intenti …», proseguì Lucilla, tremante. Mi avvicinai:
« Intenti a noi e solo a noi. Non sono forse brillanti questi occhi? fai vedere. Non è ancora la polvere»
«Perché devi assicurarti che il brillare nei miei occhi nasce dall’esterno».
«È il mio stesso amore...».
«È il mio…». Si ritirò il timore di entrambi. Un’ anima volse ad un’anima, e l’affetto che unì si allargò come una voragine, sommersi noi e il creato affascinato.
L’amore è questo vortice verso l’infinito. Eternamente misurare l’infinito, mai apprenderlo ma trasmetterlo alla mente, e dalla mente all’anima, al corpo; e ritorna alla mente che trasmette a tutti una poesia, una musica. Far festa e lodare che l’eternità ci occupa nell’amore. Quanti giorni saranno destinati alla nostra infinita passione? Iniziare a contarli toglie infinità. Quando ci ritroveremo non smetteremo mai di stupirci di fronte al pervaso amore, e non ebbe inizio lo stupore. Siamo nella pienezza della sinfonia. Scordare attacco, chiave e preludio; abbandoniamo il pentagramma, rapisce l'uragano, vasto, drizzarsi per l’infinità eternità.


Tornammo in paese e l' acompagnai fin sotto porta di casa, col sole ancora caldo ritornai tra la vegetazione. Raggiunsi il luogo preferito, seduto sul consueto masso, estrassi la stilo che tengo nel taschino della camicia per ogni occorrenza d'animo, scrissi:
In luogo muove un suono
ove reimpianto un sogno lieto.
Soffiando su il sentiero,
s'allontana quindi rinviene un' armonia,
il pensiero tra gli efluvi incede e i ligustri.
Freme l'inquieto nascosto,
non pari i flutti d' Atlante,
e pareggiare uragano non ha vigore;
nell' abisso s' asconde e trasporta un' esca:
alla passione intera si riscopre
e gli ami non vieto.
Lei suole un liuto sguainare,
poi ammaliare d'un piacere;
tra i foschi nenbi non si scioglie,
a galla e affogo, vivo e ardo,
e soffoco e respiro.
Sviare un fiato d'incauto fuoco non ho il rimedio,
la tattica mi sfianca, ad arrischiare m' acquieto.
Martino
Franco




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Opera scritta il 11/04/2018 - 19:44
Da Franco Tommaso
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