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EMOCROMO

Non riuscivo a nascondere la mia impazienza, d’altra parte era la prima volta che avevo un presentimento, direi quasi un presagio, così negativo, che qualcosa che avrebbe cambiato il corso della vita stesse per accadere.
Per il resto, osservo mia madre, e tutto mi sembra come al solito...per esempio l'insopportabile abitudine che ha, lei, di attaccare bottone con tutti.
Per avere un’informazione, oppure per darne una; per sapere qualcosa degli altri, o per comunicare qualcosa di sé?
Ricordo che, già da bambina, mi creava un fastidio quasi fisico il suo rivolgersi costantemente all’attenzione di qualcun'altro. Magari eravamo fuori per compere, dopo un sacco di tempo che non succedeva più, e io non stavo nella pelle, ma lei intratteneva ogni sorta di conversazione con perfetti sconosciuti, per sapere di questo o di quel negozio, dei prezzi che vi si praticavano, oppure dei recenti cambi di gestione o di proprietà…
Sul treno poi, che prendevamo periodicamente per raggiungere il capoluogo, anche solo per vedere le vetrine in centro, o più facilmente a fare acquisti nel periodo dei saldi, era per lei una soddisfazione intraprendere delle “amicizie-lampo” con occasionali compagni di scompartimento. Esordiva abitualmente con considerazioni entusiastiche su qualche aspetto evidente del possibile interlocutore, tipo ad esempio: “Ma guardate, bambine, che campionessa è questa signora a fare la maglia!”
In genere la persona adulata era ben felice di condividere con mia madre molti aspetti della propria vita, non ultimi gli eventuali gravi motivi di salute di qualche prossimo congiunto che l'avevano indotta al viaggio in treno per una visita in ospedale, oppure lieti eventi, o difficoltà lavorative. Non si contavano le carriere universitarie, per lo più mediche o giurisprudenziali, di figli e nipoti; ma anche fallimenti matrimoniali dei suddetti, in cui la colpa era quasi fatalmente del coniuge non parente della persona che viaggiava con noi in treno.
Dalla estraneità a quelle conversazioni così frequenti, mi deve essere derivato il costante oscillare tra una naturale riservatezza e un senso di autocritica per il sospetto di snobismo che nutro nei miei stessi confronti.
Per esempio, proprio ora.
Proprio ora, in questa brutta sala d’aspetto dell’ambulatorio prelievi di un piccolo ospedale di provincia, dove mia madre si è accasciata su una seggiola, realmente spossata da una serie di malesseri manifestatisi nel corso degli ultimi giorni.
Proprio ora, mentre Monica la mia amica di adolescenza, ematologa del reparto, repentinamente portatasi qui nonostante il giorno di ferie, per occuparsi di mia madre della quale le avevo esposto i problemi che sono sembrati via via aggravarsi; proprio ora mentre, preoccupate, aspettiamo delle risposte dalla serie di prelievi che Monica le ha fatto poco fa e che ora sta analizzando; proprio ora, succede.
“Paola, forse questo signore (l’unica persona nella sala d’aspetto, oltre noi) sa indicarti dove trovare la macchinetta delle bottigliette dell’acqua… ho una sete tremenda” dice mia madre.
Ringhio sottovoce: “Mamma, è tutta la vita che frequento questo ospedale, ci ho partorito i miei figli, sistematicamente ci vengo per visite di ogni tipo. So perfettamente dov’è l’acqua”.
Troppo tardi. Ancora una volta mia madre ha individuato bene la sua vittima, che oltre a lanciarsi in una descrizione dettagliatissima sull’intero percorso necessario per il raggiungimento dell’agognata macchinetta, comincia a rassegnare tutta la lunghissima serie di ragioni che lo hanno indotto, dopo molti indugi dovuti ad una naturale diffidenza nell’operato dei medici, a farsi controllare i valori del sangue.
Mi allontano rabbiosa. Ma perché non può mai rassegnarsi a vivere privatamente nessun tipo di esperienza extra-domestica, eventualmente condividendola, che so, soltanto con me?
Quando torno con l’acqua, c’è ancora il signore che gesticola con mia madre. Non posso fare ameno di notare il pallore di lei, sotto il brutto neon lividizzante del quale nessun ospedale pare poter fare a meno.
In più c’è Monica, seduta vicino a lei. Non posso fare a meno di notare anche il suo, di pallore. Certo che i neon sono istituzioni altamente democratiche, ugualmente impietosi con tutti, penso.
Però Monica ha pianto, penso anche. Che strano, non ricordo un’espressione analoga sul viso della mia amica, di gran lunga la più sveglia e spiritosa di tutte; che risate ci facevamo in certi pomeriggi liceali di versioni dal greco e merende. Spesso, come ovvio, lei e mia madre si mettevano a chiacchierare, e io sbuffavo.
Monica, poi, era solita sostenere che mia madre era troppo simpatica per meritarsi per figlia un orso come me.
Mia madre che ora guarda stralunata l’imperterrito signore che ormai sta diligentemente spiegando per filo e per segno ‘come ha fatto lui a liberarsi degli ossiuri che lo hanno tormentato per una vita’.
Monica si gira verso di me, che mi sono seduta di fianco a lei sulla rigida seggiola di metallo che solo a spostarla di un centimetro emette un sinistro rumore di ferraglia.
Un sussurro: “Non so come dirtelo. E’..leucemia”
Cazzo, per essere che non sa come dirmelo me lo ha detto maledettamente bene, è l’ultima cosa che penso, anzi no, penso ancora: accidenti per fortuna sono già seduta, se no avrei dovuto sedermi.
Ma la sedia non basta, mi sento andare in terra, sono mia madre, il signore, e Monica a soccorrermi preoccupati.
“Vai sempre in giro poco vestita, un colpo d’aria può fare anche questi scherzi” sentenzia mia madre benché, mi sembra, con meno grinta del solito.
Ma pur sempre una gran bella grinta…



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Opera scritta il 18/09/2013 - 23:51
Da Irene Fiume
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