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Invidia

Invidia


Quando i miei compagni di scuola marciavano con il moschetto e la divisa da balilla… li ho invidiati.
Quando due miei amici con il loro regimento andarono a far la guerra in Francia… ho continuato a invidiarli.
Quando tardarono a tornare da una guerra meno lampo del preventivato… li invidiai, un po’ meno.
Quando Luciano tornò dalla campagna greca senza una gamba… smisi d’invidiarli.
Quando Mario mi raccontò il disincanto e gli orrori dell’inutile mattanza… provando disgusto per averlo invidiato, ringraziai l’infermità che mi permise di esser spettatore degli anni ruggenti.
Ma l’invidia non può essere sconfitta, essa attende di riemergere, accucciata nei meandri oscuri dell’animo umano.


LUCIANO


Nell’estate del 1944, per mettere qualcosa in tavola ci si arrabattava, mettendo in campo le proprie abilità nel procacciarsi qualcosa di commestibile.
«Di questi tempi, darei anche l’altra gamba in cambio della tua abilità nella pesca. Qual è il tuo segreto?» mi chiese Luciano, seduto sull’argine del fiume accanto a me, battendo con la mano sulla coscia destra mentre osservava le due grosse carpe far capolino dalla cesta di vimini.
«Anni e anni di applicazione maniacale», risposi, tenendo lo sguardo fisso sul galleggiante. «Mentre voi marciavate inquadrati col moschetto e la divisa da balilla… Io, non potendo far altro, venivo qui a pescare.»
«T’invidio!» fece Luciano, strappando con rabbia un ciuffo d’erba.
«Cosa invidi; la mia abilità… o la polio, che rinsecchendo la mia gamba destra mi ha praticamente costretto a trascorrere il tempo dei giochi in compagnia dei pesci del fiume?» gli chiesi con amara ironia.
«Non la maledire la tua infermità, è grazie a lei che hai evitato di essere arruolato. Guarda quanto mi è costata, la prestanza fisica», rispose, lasciando cadere l’occhio tristo sul gambale sinistro del pantalone militare, appiattito sull’erba.
«Non sta scritto da nessuna parte che, arruolandosi, si debba perdere una gamba», replicai piccato.
«E’ vero, potrebbe andare anche peggio. Bene o male, io la ghirba l’ho riportata a casa», ribatté a tono.
Continuando a guardare il galleggiante, tornai con la mente al giorno della dichiarazione di guerra. «Ricordo che quel giorno, tra la folla plaudente dentro la piazza, mentre dagli altoparlanti della casa del fascio “gracchiava” la voce stentorea del duce, c’eri anche tu tra quelli che inneggiavano al condottiero che avrebbe conquistato un’altra fetta d’impero», gli rammentai.
Luciano annuì, serrando la mascella. «E’ vero. La Francia era praticamente morta, ci avevano pensato i nostri alleati a fare il lavoro sporco. E a noi, non restava che buttarsi come avvoltoi sui resti della preda», confermò. Poi, dopo una breve riflessione, mi chiese: «Ma tu, dov’eri, non rammento d’averti visto tra la gioventù osannante?»
«In disparte, com’è giusto che sia per chi è costretto a reggersi con questa», risposi, alzando la gruccia appoggiata al mio fianco. «Appostato dietro una colonna dei portici, invidiavo, piangendo, i giovani virgulti di un popolo in arme.»
Luciano mi guardò allibito. Mai si sarebbe aspettato tanta sincerità da parte mia. «Ed ora che hai visto com’è finita, c’invidi ancora?»
«No, ora non più!» risposi lapidario. Tirai su la canna, mi alzai e, prendendo con la mano sinistra cesta e canna da pesca, appoggiando la gruccia sotto l’ascella destra gli domandai: «Devo portare il pesce a mia madre. Tu che fai, resti?»
«No, vengo anch’io», rispose Luciano, appoggiando la sua gruccia sotto l’ascella sinistra.


MARIO


S’era fatto le campagne d’Africa e di Russia, Mario. E ne aveva di cose, poco edificanti, da narrare quella sera del primo dopoguerra all’osteria, davanti a un bicchiere di vino. «D’eroico ho visto poco. Di pietà, ancora meno… Bestie eravamo! Lupi pronti a sbranarci l’un l’altro per sopravvivere un’ora in più nel gelo della steppa…» raccontava tra lo sconvolto e il compiaciuto per l’interesse mostrato nell’ascoltarlo da noialtri; guardando dentro il bicchiere prima di buttare giù in un amen il contenuto e proseguire raccontando di fattorie depredate, del nulla rimasto, di donne stuprate e di uomini passati per le armi dopo processi che, più che sommari, definirei alle intenzioni.
Inorriditi, ammutoliti apprendevamo, dalla viva voce di un protagonista segnato per sempre nell’animo; che l’immagine, propinata dalla propaganda fascista, del soldato bolscevico, calzava a pennello al milite di ogni esercito, pregno di rabbia e paura, che di fronte alla prospettiva di dover colpire per primo per non essere ammazzato, non faceva differenza tra una divisa sgualcita o l’abito rammendato di un povero contadino.
«Se penso a quanto ti ho invidiato, quando tornasti dal nord Africa in licenza. E poi ancora, quando con baldanza mi dicesti che andavi a prendere a calci in culo l’orso Sovietico…» commentai alla fine, sconfortato, lasciando la frase in sospeso e scuotendo il capo.
«Non sono più il tuo eroe? Non m’invidi più?» mi chiese con sarcasmo, facendo roteare il bicchiere, vuoto, sopra il tavolo.
«Ora, provo solo compatimento…» risposi, evidenziano con una smorfia tutto il mio disgusto. Prima di aggiungere: «Hai avuto fortuna a tornare tutto intero. Ma quello che ti porterai per sempre dentro, è di gran lunga la peggior ferita che ti potesse essere inferta».
«Fortuna?» fece Mario, sorridendo a mezza bocca. «Ti sbagli, Franco. Oh, se ti sbagli! Intraprendenza e furbizia, solo questo mi ha permesso di tornare sano e salvo… La fortuna la lascio ai deboli… come te!» sibilò, puntandomi lo sguardo fiero dentro gli occhi. E dopo alcuni interminabili attimi, concluse con arroganza: «La guerra mi ha temprato. Insegnandomi a combattere, mi ha reso più cattivo… Ora, riverserò ciò che ho appreso dentro questo tempo di pace, ricco di prospettive per chi sa osare. E tu… e tu, tornerai a invidiarmi. E’ una promessa!»
«L’invidia, è un esercizio inutile e controproducente. Questo ho compreso in questi lunghi anni di guerra», replicai indispettito dal suo atteggiamento. Poi mi alzai, infilai la gruccia sotto l’ascella destra e lo salutai con sguardo fiero, dicendo: «Ciao Mario, ti auguro di realizzare tutti i tuoi sogni… Anche se io non ti potrò invidiare».
Mario e gli altri amici mi accompagnarono con lo sguardo sino all’uscita, prima di riprendere a conversare tra di loro.


MAURO TASSONI


S’appalesò speranzosa una la nuova era, quando la democrazia sconfisse la monarchia. Ora era tempo di pace, di alacre impegno per seppellire rimasugli di odio sotto una montagna di risorto amore e di duro lavoro; per ricostruire, con spirito unitario, la nostra bella Italia ridotta in macerie dall’ordalia guerresca di un Duce di cartapesta.


Luciano, invalido di guerra e figlio di madre vedova, assunto per questi… chiamiamoli pure “meriti”, come usciere in comune, trascorreva il tempo libero all’osteria ingurgitando quantità industriali di rosso nettare e, di seguito, sacramentando contro il destino cinico e baro che gli aveva strappato l’arto inferiore.


Mario, invece, non perse nemmeno un minuto a piangersi addosso: ancor prima di essere congedato aveva ben chiaro quali obiettivi perseguire nella vita da civile.
Nel 1946 convolò a nozze con Ermelinda Battistoni, vedova di guerra, invero poco attraente e di ben dieci anni più anziana del novello sposo. Ma che possedeva un grande e fascinoso pregio: una draga per succhiare sabbia e altri inerti dal fiume!
E fu così che, da una chiatta e una cava in riva al fiume, Mario iniziò la sua scalata al successo.


Pure io, come Luciano, ero figlio di madre vedova. Ma la mia infermità, forse per il fatto di esser frutto di malattia e non di azione ardimentosa combattendo il nemico, non suscitò una compassione degna del posto fisso garantito. Posto fisso che, tengo a precisare, non avrei comunque accettato; perché, come promesso a mia madre, mi ero impegnato a concludere gli studi di ragioneria.
Già, mia madre, lo sprone che mi convinse a proseguire negli studi. «Il direttore della banca me lo ha promesso: quando avrai in mano il diploma, ti assumerà come fattorino», mi spronava accarezzandomi il capo, osservandomi con sguardo inorgoglito piegato sui libri di testo.
Al che, reagivo commentando sconfortato: «Tutta questa fatica, solo per un posto da fattorino… Sai, mamma, non son mica tanto sicuro che ne valga la pena!»
Allora lei, imbrunendosi, rifilandomi un amorevole scappellotto dietro la nuca, ribatteva: «Meglio fattorino che contadino! Come tuo padre che in campagna c’ha perso la salute!»
Un giorno, senza lasciarmi il tempo di replicare, aveva aggiunto all’ennesimo sprone: «Ho parlato con Mauro; mi ha garantito che l’impiego come fattorino è solo il cavallo di troia per farti entrare in banca. E che, tempo un anno, sarai assunto come impiegato bancario».
Mauro, era il nome di battesimo del direttore di banca che si era preso a cuore, oltre al mio futuro, il presente di mia madre: era il suo amante storico da quando mio padre, già impossibilitato ad assolvere i suoi compiti dentro il talamo per l’aggravarsi della malattia, fu ricoverato in sanatorio, dal quale uscì pochi mesi dopo tra quattro assi d’abete.
Comunque, Mauro Tassoni mantenne la promessa: appena ottenni il diploma fui assunto come fattorino presso la filiale dell’istituto creditizio sito nel mio paese e da lui diretto; e l’anno dopo mi fece ottenere il sospirato impiego da bancario, delegandomi all’ufficio prestiti.


“La deve amare veramente, mia madre”, pensai cinque anni dopo, quando, prima di andare in pensione, riuscì a farmi ottenere la carica di vicedirettore di filiale.
Già, nonostante fosse sposato e padre di cinque figli, restò legato a mia madre, dimostrandosi amante focoso sino in tarda età; cioè, sino a quando un infarto se lo portò al creatore, per sua e nostra fortuna dentro al letto della moglie; se no, sai che scandalo in paese.


Poco più di tre anni impiegai, dimostrando il mio acume nel concedere prestiti e mutui, per scalare l’ultimo gradino ed assumere il ruolo di direttore di filiale. A dire il vero, ad aiutarmi fu anche la carica di segretario della sede della Democrazia Cristiana del paese; partito a cui mi ero iscritto, su consiglio del buon Mauro Tassoni, appena ottenni il posto in banca. «Se vuoi fare carriera, questa non ti basta mica!» mi aveva istruito puntandomi l’indice in mezzo alla fronte. Poi, prendendo il portafogli dalla tasca interna della giacca e traendone un cartoncino bianco e azzurro, aveva concluso sornione: «Senza questa, non vai da nessuna parte!» mostrandomi la tessera della DC.
E aveva ragione. Infatti, cinque anni dopo aver assunto la carica di direttore, fui il più votato tra i candidati a sindaco. «Ecco fatto. Ora, a noi due, Mario!» esclamai con tono vendicativo, firmando la lettera di messa in aspettativa prima di assumere la carica di sindaco.


Essere il leale amministratore della cosa pubblica, era l’ultimo dei miei pensieri. Fu solamente il desiderio di vendetta nei confronti del mio vecchio amico, a spingermi ad accettare la candidatura a sindaco per la DC.


“Oh, Rachele, Rachele, tuo malgrado sei riuscita a risvegliare l’invidia sopita in fondo all’animo… Chissà, se lontano da qui, hai trovato l’amore che andavi cercando?” mi chiedevo rammentandola, tenendo tra le dita la penna; cercando il vigliacco coraggio d’apporre la firma sull’atto che, sancendo il tracollo finanziario di Mario, avrebbe chetato il mio rancoroso tormento.


RACHELE


Rammento la magrezza elegante della figura, i tratti nobili del viso… rammento il mio cuore sobbalzare… rammento un sogno, destinato a rimanere tale.


L’etera Rachele si era palesata nel mio ufficio un giovedì mattina: era arrivata dalla città, mandata dalla sede centrale a sostituire il cassiere andato in pensione.
Si era instaurata sin da subito un’empatia complice; un sentirsi a proprio agio così naturale dal farci decidere, durante le presentazioni di rito, di lasciar perdere titoli e quant’altro e chiamarci per nome. «Senti, Franco, sapresti indicarmi una pensione dove alloggiare?» mi aveva chiesto subito dopo.
«Di buone, ce ne sarebbero un paio in paese», avevo risposto, perdendomi dentro due occhi neri da cerbiatta. Poi, stupendomi, avevo trovato il coraggio di aggiungere: «Se non ti disturba, posso accompagnarti a visionarle».
“Ora, troverà una scusa per rifiutare”, pensavo attendendo la sua risposta.
«Nessun disturbo, anzi, te ne sarei grata», aveva risposto, elevando a livelli siderali la mia poca autostima.
L’evidente infermità, il timore di essere rifiutato, o peggio, deriso, furono, da sempre, un ostacolo insormontabile nell’approcciarmi all’altro sesso.
La mia vita sessuale, non era mai andata oltre qualche insoddisfacente rapporto a pagamento.
Rachele aveva il dono di saper mettermi a mio agio. Rammento che quando mi ero alzato dalla scrivania, aveva continuato a parlare senza mutare tono e atteggiamento; era come se, il mio deambulare fortemente claudicante, aiutandomi con la gruccia cromata appoggiata all’avambraccio e impugnata poco più sotto con forza; la scarpa dalla suola ortopedica per permettere all’arto menomato di raggiungere un’altezza compatibile con quello sano; fosse, per lei, la cosa più normale di questo mondo.
No, il nostro rapporto non è mai sfociato in qualcosa di tenero… Ma, forse, la colpa fu solamente mia; si usciva a cena, si andava al cinema, ma sempre da buoni amici.
Molte volte ero stato sul punto di osare, di confessarle il mio amore, ma sul più bello, il coraggio mi veniva a mancare.
Così, mentre trascorrevo giorni e poi settimane macerandomi cercando di trovare le parole per esprimere quel che provavo… Mario, che ogni mattina passava alla cassa per versare o ritirare del contante, l’aveva già fatta sua.
Rachele, pur sapendo che era sposato, cedendo al fascino dell’uomo di successo sicuro di sé, finì per farsi del male.
Forse avrei potuto fermarla esternando il mio sentimento, il giorno che, dicendomi che stava male, mi aveva chiesto di essere trasferita in altra sede; ma per l’ennesima volta, il coraggio mi era venuto a mancare.
Rachele se n’era andata, lasciandomi, oltre il rimpianto d’un incompiuto amore, il rancoroso desiderio di farla pagare a chi avevo invidiato quando s’attardava a dialogare fitto con lei davanti alla cassa; e odiato quando l’aveva costretta a scappare.


Per chetare il tormento, nel tempo libero avevo ripreso la canna e, seduto sull’argine, guardando il galleggiante nell’acqua, rimuginavo sull’esca da usare per prendere all’amo chi avevo tanto invidiato.


Il mio ruolo mi permetteva di conoscere vita e morte delle esposizioni bancarie di Mario. Ma fu lui stesso a fornirmi l’appiglio a cui appendere la corda con la quale si sarebbe impiccato.
«Se mi aiuterai, saprò essere generoso», aveva concluso, dopo avermi chiesto di candidarmi a sindaco.
Le società immobiliari create da Mario, al contrario di quello che si credeva in paese, non godevano di buona salute; così, per rifinanziarle si era esposto con diversi istituti di credito; presentando a garanzia, progetti e attestazioni falsificate per la realizzazione di un nuovo quartiere residenziale sul terreno, di sua proprietà, della vecchia cava accanto al fiume: quella che era stata l’inizio della sua fortuna e che ora rischiava di portarlo al fallimento, perché il sindaco, in scadenza di mandato, si rifiutava di firmare la delibera che lo avrebbe reso edificabile, adducendo la motivazione che per due terzi insistevano all’interno della fascia di rispetto del fiume.
«Caro Mario, ti prometto che se sarò eletto, saprò essere un sindaco giusto e generoso, con chi lo merita», gli avevo annunciato, battendogli la mano sulla spalla.
«Con i voti che porto in dote, non avrai problemi a sbaragliare la sparuta concorrenza rossa!» aveva ribattuto con l’arroganza del vincente.


Rideva, abbracciandomi, tronfio del suo potere, la sera dello spoglio; quando fui eletto con il settanta percento dei voti. «Ora tocca a te, mantenere la parola», mi aveva rammentato, sussurrandolo all’orecchio.
«Saprò sdebitarmi, non ti preoccupare», avevo risposto freddamente, staccandolo da me.
In quel preciso istante, mi era parso di notare il sentore del dubbio attraversare il suo sguardo.


-FINE-




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Opera scritta il 22/01/2019 - 09:35
Da vecchio scarpone
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